Fra le stanze del mio castello

Sto ricaricando energie e parole. Sto mettendo benzina nel mio cuore. Voglio vederlo gonfio, sentirlo soffocare dalla pienezza. Sto assorbendo ogni forma di sole, pure quello nero. Sono così potente da saperlo schiarire. Sto in silenzio a guardare tutto e tutti senza vedere nessuno. Sto la notte in un locale a ridere, rotolo a terra abbracciato a chi con prepotenza ha deciso di volermi essere amico, in questa città desolata e desolante. Sto nel letto a ringraziare Dio per avermelo mandato.
Credi in Dio? Non chiedermelo più.
Sto tra le pagine del nuovo libro di Andrea De Carlo e ci sto bene. Sto dietro il vetro della finestra, oltre la tenda, a cercare fuori qualcosa che non m’intristisca. Sto su una sedia invisibile, mi metto seduto sul mondo. Sto programmando ogni passo con gli occhi che non colgono le cose vicine, ma riescono a guardare e comprendere l’orizzonte, dove stanno i luoghi che presto o tardi visiterò. Sto cercando di capire se potrò riprendermi quello che mi è stato tolto, che ho lasciato andare io alla corrente degli errori passati. Quando qualcuno riesce a sottrarti ciò a cui tieni è perché ha trovato la porta aperta, che tu gli hai lasciato, ingannato dalle promesse, dalla sua mano, da quel sorriso irresistibile e dalla sua fragilità che con una parola ti annienta. Mi sto rispondendo che sì, riavrò le mie monete una sull’altra. Sto ricostruendo il tessuto delle mie passioni, lasciate in panchina per l’improvvisa richiesta di un castello da tirar su in poco tempo. Il castello è pronto, aspetta che il nuovo padrone decida di scartarlo. Nel frattempo torno al mio villaggio di casupole piccole e carine, di cui nessuno continua ad accorgersi, perché tutti hanno occhi soltanto per il gigantesco pacco al centro del salone. Bramano di sapere che forma abbia, quante torri e se c’è il ponte levatoio sospeso sul fossato coi coccodrilli. Se avranno anche loro una stanza in cui sentirsi importanti oppure se mi basterà un castello per dimenticarli e per dimenticarmi del me che cammina dall’altra parte della strada, in direzione opposta a quella dei miei desideri. Si ferma, mi fissa e sorride, è felice per me. Sorrido pure io, non sono molti coloro che festeggerebbero la mia felciità. Comunque vada, se sarò in me o in lui, se la meta sarà la sua oppure la mia, noi sorridiamo e scriviamo tutti e due. Io in un castello e l’altro me nella casetta di legno di un villaggio dimenticato, con tanto bene che lo abbraccia e coi sogni in cui non crede più, pur sapendo che è solo un momento.

Sulla (mia) strada

Ho preso fra le mani ‘Sulla strada’ di Jack Kerouac quando mi sono sentito sulla strada pure io. Con la mente, il cuore e poco coi piedi. Un viaggio nel tempo perduto, fra i ricordi, le fotografie, il suono delle risate, le serate alcoliche, le feste di laurea a consumazione illimitata, i miei amori stupidi, l’amore della vita, finché non ne arrivava un altro di amore e di vita, le amicizie infinite e quelle che mi dicono ancora ti voglio bene e poi tornano a dimenticarsi di me. Un viaggio nei luoghi che ora non ci sono più, negli odori, nell’umido dell’erba e rametti che pizzicano la schiena nuda, nel calore di un sole fortissimo come non ne ricordo di così, che acceca gli occhi fissi sul volo delle poiane nel cielo terso. Una corsa nella neve che blocca le intenzioni più deboli, con parole che rimbombano ancora e ci manca solo che diano la colpa a me. Ho spostato la lancetta indietro di almeno tre anni e ho messo su carta una felicità non del tutto vera, accompagnato dal rombo della macchina scassata di Sal. Sal Paradise non riesce a resistere all’energia trascinante di Dean Moriarty che lo conquista e diventa il suo amico fraterno con cui cercare il senso di ogni cosa in giro per l’America. Vivono alla giornata rompendo tutti gli ideali di vita programmata. Sono invincibili, insieme riescono a riparare anche alle crisi che nel loro viaggio disturbano quel legame di sangue diverso. Migliaia di chilometri per scoprire il mondo fuori, certo, ma pure quello dentro loro stessi, quello dei sogni, quello dell’amore infinito che Dean sprigiona per tutte le donne che incontra, per tutti i figli che mette al mondo e di cui non si dimentica, pur se lontano, non completamente almeno. La loro è un’amicizia che trasforma l’ingiusto nel giusto se è l’amico a farlo, l’illecito nel difendibile, se è l’amico a compierlo. L’amico diventa una sconfinata riserva di energie per affrontare le disperazioni, la solitudine e pure per combattere contro questo immenso mondo che fa un po’ meno paura se guardato assieme. L’incontro è una luce che si apre, come un tanto atteso lunghissimo sospiro di sollievo, perché da ora in avanti ci sarà lui affianco a tener testa alle sue e pure alle paure dell’amico.
Tutti dovrebbero avere un Dean Moriarty a cui aggrapparsi per fuggire un paio d’ore, di mesi o una vita intera e tutti i Dean Moriarty del mondo dovrebbero trovare un comprensivo Sal Paradise che li tenga coi piedi per terra, incollati alle responsabilità, sempre pronto a salvarli dalle loro irresistibili follie. Io sono tornato da pochi giorni. Già mentre salivo le scalette del vagone avvertivo il vuoto della fine pure se c’era Dean sotto al treno a salutarmi e a saltellare da un binario all’altro col rischio di essere travolto da un convoglio in arrivo. Era eccitato per tutto quello che insieme avevamo vissuto e che raccontare non ha senso perché nessun racconto saprebbe sfiorare quelle nascoste corde del cuore che vibrano solo al tocco della vita vissuta. Da quando sono tornato e sono costretto a gioire solo di ricordi è come se adesso non avessi più la mia vita, riconquistata attraverso le parole. Questa è la prova che sono stato bravo e non vedo l’ora di mettermi di nuovo sulla strada per rincontrare i miei amici, i miei amori perduti, quello della vita che poi finirà, la mia città, i suoni e la felicità del mio sogno.

Il chiodo è il mio sorriso

Vedere le lacrime sul volto di una donna, che nulla aveva fatto di male per meritarsi i miei toni e le mie parole, prima rinvigorisce e poi annienta la stima che ho di me. Mi fermo un attimo, appena il silenzio mi restituisce una pace dimenticata, e penso. È tutta colpa del mio sorriso che da un anno a questa parte non è più solo un sorriso o un bel sorriso.
Adesso vuole di più: camuffare i propositi materiali che tirano gli angoli della bocca e fanno emergere l’energia di conquista. Mi fa paura perché è riconoscibile come il peggiore dei miei mali e la più pericolosa delle armi. E ce l’ho io, fra le mani, a illuminarmi il viso che dimostra fiero i segni di un grande dolore divenuto esperienza. Temo il mio sorriso che taglia il cuore in due come una sega elettrica, che attraversa il cuore e non si ferma davanti a niente come un proiettile, che schiaccia il cuore come un pesante sasso lasciato andare da una mano arrabbiata e stanca di comportarsi bene. E quindi mi comporto male. Male come mi insegnano tutti i giorni coloro che hanno aiutato il mio sorriso a nutrirsi nell’ombra e crescere indisturbato.
Adesso provaci a parlare di me. Provaci a infilare il mio nome in una battuta sgradevole e sorridendo infilerò un chiodo nella carne, centrando il visibile bersaglio rosso al centro della tua fronte. Con la forza delle mani lo spingerò in profondità finché, a un certo punto, smetterai di parlare, perché non si può durare a lungo se un chiodo ti attraversa la testa, e io non avrò sprecato il fiato per neanche una parola.
In questo preciso momento smetto di domandarmi come hai potuto e come puoi. Un interrogativo che mi ha fatto compagnia un anno e più finché ho dimenticato la forza di un sogno spento da un candido fiocco di neve. Ne è bastata una manciata a farmi sentire più fragile di un gatto inzuppato. I miei occhi adesso non piangono più, nonostante qualcosa cambi posto e destabilizzi l’equilibrio ogni volta che t’incontro. Prima erano colonne portanti, poi mattoni, adesso pezzi di cemento rimasti incollati che non sono mai serviti a niente. Ben venga che si stacchino e cadano per strada dove l’acqua di mille piogge li avvolge e li trascina in rivoli verso la fogna più vicina. Il giusto posto per ospitare tutto quello che appartiene a te e non più a me che non sono mai appartenuto a te. Il chiodo è il mio sorriso che non cambia mentre tu, davanti ai miei occhi lucidi di martini vodka, oltraggi il bel ricordo del passato.
Avvicinati adesso e vediamo chi vince. Mi dispiace soltanto per chi non c’entra niente e per sbaglio, non volendo, ferisco giornalmente.

Alessia Fabiani un po’ bruciata (poco poco)

Ho riflettuto domandandomi se andare avanti col racconto della serata luxuriana oppure bypassare e parlarvi del mio vicino che l’altra sera ha avuto una crisi isterica e ha scaraventato i giochi del figlio per tutto il giardino e ha pure dato un calcio a una sedia di plastica. Le promesse vanno mantenute e io ne avevo una con voi che siete il mio fedelissimo gruppo d’ascolto (cinque elementi, quando nonna non sta male). Perciò se scrivo: E chi compare a un certo punto? Ve lo dico nel prossimo post, adesso mi tocca dirvelo. Forse non è politicamente corretto raccontare e associare le mie considerazioni a nomi e cognomi noti. Se non le associo, però, non fanno più ridere pertanto verrebbe a cadere l’unico motivo che mi spinge a raccontarle. Facciamo un esempio: Fabiani Alessia. I più datati la ricorderanno. Quella che faceva ullalla-ullalla-ullallallà su Canale 5, per intenderci. Non si può certo dire che rappresenti l’interesse incarnato in un essere umano. Non sa cantare, non sa ballare, non sa recitare, non sa parlare e da qualche tempo è diventata pure bruttina. Per essere interessanti a prescindere bisogna possedere almeno una qualità. Basterebbe che lei fosse campionessa mondiale di rutti per meritarsi un riconoscimento fra la folla e invece neanche quelli sa fare. Non è una colpa non essere interessanti a prescindere, solo un dato di fatto. Devo però pensare che sia (o sia stata, parlare al passato mi pare più rispondente a verità) interessante per qualcuno, se l’hanno parcheggiata in televisione a fare coccodè davanti alle telecamere e a rincorrere il becchime per i palcoscenici vestita soltanto di un trasparente straccetto avvolgente il culo e trasparente pure quello (il culo). Ebbene, questo post vuol difendere una delle tante vittime che l’ingenuità ha portato a immolarsi alle lame dei mass media e delle cattive compagnie con le quali ha fatto irruzione nella festa tentando di sottrarre i riflettori alla scatenata Vladi che, con costante movimento d’anca ritmico come quello di un pendolo, oscillava sul balconcino scambiandosi occhiate d’intesa con Paola Concia. Il motto di questo post sarà: Restituiamo dignità ad Alessia Fabiani! Sottotitolo: Come se ce l’avesse mai avuta; porterò alla causa valide argomentazioni. Partiamo da un assioma. Io considero Alessia Fabiani una presenza rilevante. Ehi, dove siete finiti tutti? Ho come la sensazione che la pausa di respiro dopo il punto si sia trasformata in un silenzio eterno per il mio gruppo d’ascolto dileguatosi nella nebbia. Prima di cliccare sul bottone rosso con la X in alto a destra fatemi spiegare però! “Spiega spiega, intanto noi ci leggiamo l’ultimo post di Carolina Cutolo. Lei sì che è una vera scrittrice pornoromantica!” C’avete ragione, comunque Alessia è una brava ragazza. Non beve se non acqua liscia e succo al mango e soprattutto non si droga. In effetti è assurdo che sia stata coinvolta nell’inchiesta ribattezzata Vallettopoli, che poi lei mica è una semplice valletta, lei è un’artista della TV quindi anche solo per questo avrebbe meritato di non comparire nell’elenco; addirittura additata come una cocainomane… ma scherziamo? Mica è colpa di qualche sostanza strana o di qualche bibita strana (non ne beve ho detto!) se di tanto in tanto sbandava aggrappandosi a qualcuno o sbatteva alle pareti o si faceva largo fra la gente con violenza scansando i corpi di chi neanche la vedeva compreso quello di un mio gracile amico. Queste della droga sono illazioni in alcun modo giustificabili e poi un po’ di rispetto per una ragazza che ha faticosamente raggiunto il traguardo della laurea in Scienze dei Beni Culturali con una tesi sul balletto russo (vi giuro!) votazione 104/110 quindi sciacquatevi la bocca prima di giudicare una dottoressa! Della sua cultura ne ha dato prova a me personalmente quando dopo aver letto un suo stato di Facebook le ho fatto notare che ‘cagnolini’ si scrive con la gn e non ‘caniolini’ senza g e con la i come l’aveva scritto lei. Dall’alto della sua riconosciuta autoironia prima mi ha rimosso dagli amici (ce l’avevo perché per me è una presenza rilevante, lo ribadisco) e poi mi ha mandato il seguente messaggio privato: “Babbo!” che ancora sto tentando di interpretare e non credo sia legato a un improvviso bisogno paterno. Mi sa che s’è dimenticata una lettera pure qua, va be’. Comunque io sono soltanto uno dei milioni di italiani che la amano e da sempre la sostengono. Giusto per farvi realizzare la portata del fenomeno basta citarvi il momento clou della serata quando lo speaker eccita la folla con un “Qui, solo per vòòòi… Alessia Fabiani!” e la folla risponde con uno sconfinato, ma che dico sconfinato, travolgente, trascinante, irresistibile, quasi violento direi silenzio di tomba. Ho visto uno addirittura ingurgitare alla calata tutti i suoi cento gradi di cocktail pur di mostrarsi impegnato a fare altro e non applaudire. Quello che voglio dire con questo post è che nonostante tutti gli sforzi che abbiano fatto per far sentire noi umili mortali desiderosi e invidiosi del loro mondo dorato, lì sul balconcino inaccessibile ai più, io ho provato una gran pena, mi sono sentito fortunato rispetto a loro che continuano a bruciare ogni giorno di più tutto quello che gli rimane.

‘Le favole non dette’ diventa una convention sulla disperazione degli aquilani

Sabato sono stato alla presentazione del libro ‘Le favole non dette’ di Vladimir Luxuria, edizioni Bompiani.
Ho passato tre quarti del tempo a chiedermi se non avessi sbagliato indirizzo. Eccezion fatta per la rassicurante presenza di Vladi, tutto m’è parso tranne che la presentazione di un libro di favole transgender. E questo non è detto che sia un male. Il senso di straniamento ha avuto inizio quando, nell’attesa dell’autrice, un ragazzo dagli invidiabili capelli dorati che gli scendevano sugli occhi, permettendogli di scansarli con scenografico gesto del capo all’indietro da diva anni ’80 (se lo rivedo gli chiedo il numero del suo parrucchiere. Prima mi faccio il trapianto e poi prendo un appuntamento per farmeli acconciare così) si avvicina a un signore incravattato e comincia a raccontargli di quanto è bravo lui che fa i quadri con le tempere e li espone in tutto il mondo. Gli mette in mano un catalogo col suo nome in copertina e gli illustra il leitmotiv delle sue opere. Ho pravato la tentazione di alzarmi per soccorrere il gentiluomo che continuava a subirsi quel bombardamento con una gentile pacatezza. Capisco che vuoi farti notare da uno che si muove nel giro degli acquerelli – non so chi fosse quel signore – e a me poco importerebbe starti a criticare se questa scena non fosse avvenuta a trenta centimetri dal mio padiglione auricolare. Con tutto il rispetto, nutrivo un totale disinteresse che si trasformava in conati di vomito con il susseguirsi della leccata che a un certo punto è diventata un’orgia. A convincere quell’uomo della bravura del giovine ci si sono messe pure la zia e la madre in un duplice attacco devastante che l’ha stremato costringendolo a farsi autografare i cataloghi del loro protetto. Sarà perché mia madre e mio padre hanno sempre ricoperto con me il ruolo inverso, quello di riportarmi alla dura realtà abbattendo le mie false o vere illusioni.
Entrano Vladimir e Paola Concia, deputata del Partito Democratico, eletta alla Camera nel 2008 e Avezzanese – per chi non lo sa è provincia aquilana, zona della Marsica. Da qui il nobile coro: Chi non salta marsicano è! La cosa curiosa è che lei non sapeva di doverle fare da moderatrice. Si sono accomodate al tavolino con due bottigliette d’acqua, lasciate lì certamente da prima che noi ci sedessimo, cioè almeno un’ora, ma secondo me pure due, a scaldarsi ben benino (io sul tavolo c’avrei messo pure qualche copia del libro, ma cosa volete che ne capisca). Paola Concia ha detto: “Mi pare che non c’è nessuno che presenta stasera” guardandosi intorno terrorizzata, come se all’improvviso potesse spuntare fra la folla il salvatore. Naturalmente Salvatore era in vacanza. Il libraio no, ma pure lui ha ignorato il disperato appello della Concia che si è fatta forza ed è partita, non nel senso che se n’è andata a cercare Salvatore per il mondo.
La presentazione è stata interessante, peccato che del libro se ne sia parlato poco e niente al di là di qualche accenno alla loro favola preferita fra le sei che si chiama ‘Iddu’ (che sta per ‘quello’) dalla quale Vladi ha estratto due passi che ha letto destando i miei peletti dal torpore di una discussione sentita e risentita riguardante, indovinate un po’? Il terremoto. Io non è che del terremoto non ne voglia parlare. Anzi. Non sono certamente uno di quelli che tenta di gettare cenere sul fuoco. Anzi. Io a L’Aquila ci vivo e c’ho vissuto. Io lo so, c’ero, ho sentito, ho subìto e sto costringendomi a reagire. Sono un aquilano, però che c’entra il terremoto con un libro di favole transgender?
Pur di farcelo entrare alla fine la parte dei diversi rifiutati dal mondo ce la siamo dovuta accollare noi aquilani. Per la deviazione subita dalla presentazione del libro verso quella che potrebbe essere riassunta come una convention sulla compassione dal titolo: Vi prego, quando andate in TV, parlate di noi! Pure trenta secondi perché siamo disperati e non sappiamo più che fare, dobbiamo ringraziare la nostra ex presidente della provincia, la piccola (un metro esatto) signora Stefania Pezzopane, che all’inizio dell’anno era in testa fra le preferenze degli italiani nella classifica del Sole 24 Ore dei presidenti di provincia più amati, così amata e tanto amata che alle ultime elezioni di marzo è arrivato Del Corvo che col 54 per cento delle preferenze si è insediato al suo posto. E questo non è detto che sia un bene. Comunque. Ognuno ha una propria specialità, la sua è quella dell’onnipresenza mirata. Lei è ovunque, ma non ovunque ovunque, per esempio all’inaugurazione del fornaio Pizzaefichi non ci va. Ovunque il suo fiuto le faccia pensare che spostare l’attenzione degli astanti su di lei possa portarle benefici concreti. In un’occasione più ghiotta non poteva sperare e così eccola avanzare e poi fermarsi non troppo vicino per evitare che la gente pensi che si stia imponendo, e non troppo lontano se no avrebbe rischiato di non essere vista da Vladi e dalla sua amica Paola. Si accascia come una barbona su un tavolaccio di libri esposti, bene in vista alle due che, impietosite dalla visione di lei a cui non tocca nemmeno una sediolina di plastica, poverina, le offrono uno dei due posti al loro fianco, presumibilmente pensati per Salvatore e l’amico forse trans con cui è andato in vacanza ammollando la sòla a Vladi. Lei rifiuta dicendo che sta bene lì, però non rifiuta quando Paola Concia la invita a dire qualcosa al microfono. Concia con la quale racconta di aver vissuto tanti anni, sogni, speranze di ragazze… ma chissenefrega! Se avessi voluto sapere delle “leggendarie nottate” Pezzopane/Concia mi sarei recato a una delle quarantamilaseicentosei presentazioni del libro della Pezzopane, oppure l’avrei chiamata a casa. Se non ci sono andato sarà mica perché a me della vita privata e politica della Pezzopane frega un cazzo?
Lunghi minuti di uno strazio dalla tale potenza da costringermi ad abbandonare il capo sulla spalla del mio vicino di sedia. La Concia per consolarla dall’indifferenza dei mass media alla situazione dell’Aquila le ha promesso che le metterà a disposizione un breve video girato dal sensibile nipote Matteo laureatosi alla celebre accademia mondiale di cinematografia Checazzomifrega di New York, poi lei ne faccia ciò che crede. Che immenso dono, originale soprattutto.
Arriva il momento delle domande e cosa gli chiedono le signore, le donne di montagna, ma pure giornalisti – questo mi stupisce! – i giornalisti chiedono a Vladimir Luxuria ancora e ancora pareri sul terremoto neanche seduta dietro al tavolino ci fosse la presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Io alzo la mano ed esordisco così: “Se mi permettete vorrei uscire dal tema terremoto” e sento una signora esclamare: “Oh, bravo!” dietro di me. “Vladimir, sei una donna di successo. Sei finita in Parlamento, hai vinto L’Isola dei Famosi, ora pure scrittrice. C’è qualcosa che ti manca?” Lei storce la bocca e risponde spiegandomi che il suo vero successo non è quello di essere finita in Parlamento, ma lo sarebbe stato qualora avesse visto approvare delle leggi giuste blabliblò tre civette sul comò. Poi, quando penso che non mi risponderà aggiunge. “Mi manca l’amore, una storia seria, ma sono convinta che presto coronerò anche questo sogno.” La Concia afferra il microfono guardandomi con due occhi furbetti perché sa quello che sta per dire: “Per caso ti stai candidando?”. Io per fugare ogni dubbio, dopo un risoluto No mi volto alla mia sinistra e do un bacio sulla guancia alla bella Francesca Papi che mi ha accompagnato alla presentazione al che Vladimir: “Non metterlo in imbarazzo che c’ha pure la fidanzata vicino”. Papi mi regala una copia del libro di Lux che ci facciamo autografare. Io la ringrazio e le dico che potremmo stabilire una forma di affidamento congiunto, lei risponde che posso tenerlo perché non gliene frega niente del libro, basta che chiedo a Vladimir se si fa una foto con lei. Appena riuscirò a recuperarla vi mostrerò il documento. La serata, per coerenza, l’abbiamo passata al Divina, un buco di locale del quale ignoravo l’esistenza – col senno di poi non credo di essermi perso nulla – in cui Vladimir Lux ha scelto di farsi un mezzo ballo per beneficenza. E chi compare a un certo punto? Ve lo dico nel prossimo post.

Supermarket24 su Mondo Rosa Shokking

Carlotta Pistone recensisce Supermarket24 per il portale Mondo Rosa Shokking.

Un libro divertentissimo che rivela, attraverso lo sguardo attento e i pensieri pungenti del protagonista, il dietro e il davanti alle quinte di un supermercato cittadino

Luca Sognatore, personaggio nato dalla penna del giovane scrittore Matteo Grimaldi e protagonista del suo originale e divertentissimo romanzo Supermarket 24, raccoglie in sé un agglomerato esplosivo di caratteristiche tipiche della gioventù moderna.

All’interno di una dimensione che vacilla tra il reale e il tragicomico, Luca vive con una punta – nemmeno troppo velata – di cinismo le difficoltà, i dubbi, i drammi e i paradossi che riguardano il mondo del lavoro, ed in particolare le possibilità lavorative, spesso poco entusiasmanti, che vengono offerte oggi ai ventenni, soprattutto a quelli non troppo propensi a dedicarsi alla carriera universitaria.

Sostanzialmente il contenuto di Supermarket24 si può evincere fin dal titolo: si tratta infatti del racconto dettagliato delle 24 ore trascorse da Luca Sognatore nel variegato mondo del supermercato Spesa Più, il quale stufo di essere schiavizzato in una trattoria di quart’ordine, ha deciso di tentare una nuova strada indossando la veste di commesso in prova del reparto ortofrutticolo.

Una trama in apparenza poco interessante.. In apparenza. Perché bastano le prime pagine del romanzo per scoprire che si tratta di una lettura tutt’altro che banale, grazie al tono e allo stile narrativo scelto dall’autore che lascia al suo protagonista l’incarico di raccontare in prima persona l’insolita giornata passata in mezzo a frutta e verdura.

Attraverso lo sguardo di Luca e direttamente dalle sue parole, nonché dai suoi pensieri a dir poco impietosi e destinati a stroncare chiunque gli capiti sotto tiro, il lettore viene a conoscenza della quotidiana routine che anima il dietro alle quinte di qualunque supermercato, con tutta la troupe di dipendenti al completo, personaggi che lui descrive, analizza e puntualmente critica. Dalla bella Andrea, “la” sua responsabile mozzafiato ben disposta ai facili compromessi pur di tenersi stretto il lavoro. Alla bruttissima Sonia che trabocca di astio e gode delle sfortune altrui. Passando per Manola che tutti i giorni, cimentandosi in mosse da gatta in calore, cerca senza successo di attirare l’attenzione del Lurido, proprietario dal chiosco che li sfama nella pausa pranzo. Fino all’infelice Lory, una brava donna che potrebbe da un momento all’altro esercitare le sue doti di esperta macellaia a scapito del pessimo ex marito.

Insomma una carrellata di casi umani ulteriormente arricchita dall’entrata in scena dei clienti di Spesa Più, la creme della creme dei rompiscatole che ogni giorno, da che mondo è mondo, sembrano darsi appuntamento nei corridoi dei supermercati e mettersi d’accordo per tormentare con richieste assurde i già sufficientemente frustrati commessi.

Luca intanto osserva, ascolta e subisce praticamente in silenzio, mentre la sua vocina interna annienta senza pietà, sforna giudizi malevoli, ipotizza atroci atti vendicativi contro tutti coloro che si dimostrano insensibili, maleducati, superficiali o pazzi, ossia contro il novantanove percento delle persone con cui ha modo di entrare in contatto nel suo nuovo ambiente lavorativo.

Ed è proprio questa vocina tanto impertinente e velenosa, quanto fonte di verità innegabili, a rendere così comico, pungente e realistico il romanzo, perché fa davvero ridere e svela apertamente, senza troppi giri di parole, quello che in fondo ciascuno pensa degli altri, ma che nella maggior parte dei casi si ritiene opportuno non rivelare.

L’articolo originale lo trovate QUA. Sono molto grato a Carlotta.

Pochi pensieri su Sarah Scazzi, senza parlarne troppo

Della faccenda di Sarah Scazzi vorrei esprimere in parole solo due o tre miei pensieri (forse quattro).
Primo pensiero.
Lunedì scorso Federica Sciarelli ha stuprato una donna e l’Italia tutta in diretta, nella sua trasmissione di RAI3: Chi l’ha visto. (RAI!) E’ vero che la gente vuole sapere, si affeziona a un caso, si batte su internet attraverso forum, blog e Facebook per diffondere le foto della ragazza nel tentativo disperato di contribuire, però la gente non vuole vedere una madre paralizzata dallo strazio. Una maschera di cera mentre la giornalista (?) presentatrice o quello che è le urlava in faccia con la sua voce gracidante: “Signora, stanno cercando il corpo di sua figlia!”. Dico l’Italia tutta perché guardavo mia madre soffrire, davanti alla TV, di un dolore reale perché in quella madre rivedeva lei stessa.
Secondo pensiero.
In uno dei servizi che hanno mandato in onda prima che la faccenda si facesse chiara, venivano dipinti gli amici grandi di Sarah come delle cattive compagnie, ragazzi sulle cui macchine lei mai sarebbe salita, protagonisti forse della sua scomparsa. Io pregherei questi ragazzi di denunciare la trasmissione perché i giornalisti (?) o quello che sono, devono smetterla di cibarsi delle altrui disgrazie da loro stessi pompate o, in certi casi, inventate del tutto.
Terzo pensiero.
Sebbene il signor zio mi faccia vomitare non mi viene in mente pena migliore (o peggiore) che lasciarlo nelle mani dei detenuti, altro che proteggerlo e guardarlo a vista perché vuole suicidarsi. Che problema c’è se lo fa? Almeno l’avrà deciso lui e, francamente, (ecco in arrivo i sei secondi di cattiveria pura) non mi pare proprio una vita da tutelare la sua. Comunque i detenuti sapranno come farlo pentire.
Quarto e ultimo pensiero.
Ieri notte a Matrix si parlava di Sarah. Il discorso si sposta. Bisogna denunciare ogni molestia e allora la Palombelli nomina il Telefono Rosa. Vinci, il giornalista (?) presentatore o quello che è la invita a dare il numero, lei non lo sa a memoria e dà il sito. Vinci chiede alla regia di trovare il numero. Dopo qualche minuto arrivano dei cenni e Vinci (non volevo credere alle mie orecchie) se ne esce così: “Ebbene, mi dicono che il Telefono Rosa non ha un numero di telefono”. Devo dire che non è vero? C’è bisogno che qualcuno dica che il Telefono Rosa, in quanto telefono, anzi tanti telefoni, ai quali rispondono volontarie pronte a sostenere le ragazze e le donne abusate che hanno bisogno di un consiglio, ovviamente, naturalmente, ha un numero? Sono andato a dare un’occhiata sul sito internet del Telefono Rosa, si sa mai che i numeri siano scritti in piccolo in qualche sottopagina inaccessibile e invece – pensate un po’- c’è una sezione che si chiama Parla con noi nella quale sono indicati indirizzi e tre (non uno, tre!) numeri di telefono. E sono i seguenti: 06/37518261-2 e 06/37518282. Tre, capito Vinci?

L’Italia intera è contro la Gelmini e il Tgcom parla del cane bionico

Io sono contento che adesso il cane Trixie stia bene, con la sua zampa di titanio impiantata in un rivoluzionario intervento che l’ha salvato da un devastante cancro osseo. Sono contento che Trixie, il primo cane bionico al mondo, sia tornato a camminare. E sono felice se alle contadine svizzere andava di fare un calendario sexy fra paesaggi bucolici e prati. Le sensuali protagoniste posano con malizia ed erotismo, nello svolgimento delle loro normali attività quotidiane in sexy lingerie, guepière e corsetto di pizzo, tra mucche e caprette, fiori e attrezzi da lavoro, animate dal nobilissimo intento di “mettere a nudo la modernità del mondo agreste”.
Però dico io.
Qualcuno si è accorto di ciò che sta accadendo in questi giorni in Italia? Mi riferisco alle folle che mai avevo visto tanto unite in un ideale come oggi contro la Mariastella (Gelmini). Ha messo d’accordo tutti, insomma. Maestri, professori, studenti, genitori che manifestano in novanta città italiane (90!) urlando il loro disappunto (furia) dietro il meraviglioso slogan Gelminator, ministro della distruzione.
Trentamila a Roma, ventimila a Milano, sessantamila a Torino, quindicimila a Bologna, ventimila a Firenze, cinquemila a Perugia. Mi pare tanta gente. Possibile che nessuno li abbia visti né sentiti?
Io non dico che la notizia di Trixie non avesse dignità di pubblicazione, e pure quella del calendario delle contadine svizzere, però, signori del Tgcom, quando vi ritrovate  a fare il copia/incolla come dei piccoli robot telecomandati e programmati per tacere, privati di ogni libertà di stampa, parola, opinione, non vi fate un po’ pena? Solo un po’. La scuola esiste, la voce della gente va ascoltata non oscurata.
Una carezza a Trixie e ciao.

In verità l’ho imparato da solo

Sono stato entusiasta, commosso, felice. Mi sono tuffato da uno scoglio altissimo nonostante la paura di farmi male. L’acqua risplendeva nel primo sole dell’anno. Non avevo mai visto un’acqua così verde. Non credevo che esistesse in natura un mare così e invece all’improvviso qualcuno mi ci aveva portato, invitandomi a fare una nuotata.
“Immergiti, guarda che meraviglia. Guarda bene, ma non toccare e poi torna su! Presto sarà tuo, non ti preoccupare.”
Il mio unico errore è stato quello di abituarmi a quel mare. A un certo punto ho addirittura creduto di possedere una casa a ridosso della spiaggia. Chiudevo gli occhi e parlavo da solo. Rispondevo a personaggi immaginari che mi domandavano della mia felicità, e non mi rendevo nemmeno più conto che mi trovavo nella mia stanza, con indosso un paio di jeans squarciati alle ginocchia e una maglia di cotone col collo mangiucchiato dalla mia bocca nervosa, altro che mare di un verde come non mai.
Mi hanno insegnato a non illudere. Mi hanno insegnato a tenere per me le false promesse. Mi hanno insegnato a non illudere, illudere, illudere. Cazzo, ma perché dio mio. Mi hanno insegnato la generosità, senza ostentare possibilità che non potrò mantenere. Mi hanno insegnato ad avere rispetto per i sogni di chi un sogno ce l’ha e lo nutre e lo difende e lo coccola, lo consola e lo aiuta a rialzarsi ogni volta che cade. Realizzare il sogno di qualcuno è il più bel dono, quello che ti cambia la vita e la cambia a quel qualcun altro che riesce a dire solo grazie, ma perché promettere per non mantenere? Perché sorridere e poi calpestare? Restatevene a casa voi che vivete delle vostre grandi glorie, non cercatene ancora da chi sta tentando di capirci qualcosa in questa vita in totale squilibrio. Per favore.