[IV] Weekbook. Faccio il grafico e non ci vedo più dalla fame

Allora. Del mio debole (diciamo solamente letterario, se no il fidanzato mi mena) per Federica Manzon se ne sono accorti tutti. L’ho recensita, l’ho intervistata, ho fatto fuori un pacco intero di Gocciole Extra Dark, più gli ultimi biscotti del precedente, durante la diretta del Campiello passata a saltellare dal divano perché Di fama e di sventura era lì in cima a giocarsela con Molesini.
Tutto questo non bastava, non ero soddisfatto e allora sul numero di ottobre del freepress Slide distribuito un po’ in ogniddove, e che potete comunque leggere online, trovate l’articolo che ho scritto e del quale potete ammirare una miniatura a fianco. A meno che non siate geneticamente simili a una Talpa Cieca dei Balcani (se vi cibate di lombrichi, fossi in voi mi preoccuperei) a questo punto, che son trascorsi una manciata di secondi da quando l’avete guardato per la prima volta, suppongo che siate già stati colpiti dall’orrore grammaticale (che è molto più di un errore) come da un cazzotto di Tyson.
Me lo immagino il tipico lettore di Slide. “Uh, è uscito Slide!” Apre il giornale; arriva a pagina 99 (se non erro); vede l’immagine di copertina bella grande e pensa: “Uh si parla di libri, bello!”; legge il titolo dell’articolo: Di fame e di Sventura (con la e al posto della a e la esse di sventura maiuscola) e pensa in sequenza:
– Ancora un’altra storia ambientata in un paese sottosviluppato!
– Devono aver vissuto una sventura con la esse maiuscola, questi poveri bambini che muoiono di fame.
Bene. Fatemi respirare 5 o 6mila volte in un minuto, se no ci scappa il morto; credo ancora nei meriti e nella perseveranza per raggiungere un obiettivo. A proposito. Apro e chiudo una parentesi tonda in grassetto. (Da quando ho parlato di Amanda Knorr (ottima pure per il brodo) e Raffaele Sollecito sul blog, mi arrivano decine di visite al giorno dall’America. Comincio a sentire una certa pressione dai media americani. Fatemi scrivere che sono innocenti va!
“Amanda e Raffaele sono innocenti (e pure io! Meglio specificarlo che non si sa mai). Giustizia è fatta!” (E io sono la reincarnazione di Ernest Hemingway.)
Bene, ora mi sento molto più tranquillo. Posso chiudere la parentesi) e spiegarvi con molta serenità in corpo i motivi per i quali ho ingaggiato un killer professionista per “punire” il grafico del giornale e tutta la sua famiglia. Non occorre che vi dica che l’articolo l’ho consegnato corretto. Comunque, a scanso di equivoci, lo diciamo. Anche stavolta si è materializzato il terrore che mi pervade poco prima di una pubblicazione, qualunque essa sia: il fantasioso spirito d’iniziativa del grafico. Il tipico orrore che non dipende da me, la cui predizione (perché tanto lo so che ce lo trovo) genera un’ansia pre-parto che nasce nel fegato, si propaga attraverso il sistema venoso e infine sfocia in lacrime e violenza molto gratuita.
Al di là degli scherzi (quali?! Il killer sta raggiungendo l’abitazione del grafico eh!) può capitare. Certo, un po’ d’attenzione in più non guasterebbe, che poi non è che ci voglia proprio Sherlock Holmes con la sua lente per accorgersene. Comunque la redazione di Slide si scusa e fa sapere che pubblicherà la seguente finestra sul numero di novembre:

La Direzione di Slide rente noto che è stato pubblicato erroneamente nel precedente numero di Slide, nella rubrica curata da Sololibri.net, il titolo del libro recensito “Di fame e di sventura”, mentre il titolo esatto è “Di fama e di sventura”. Sololibri.net non è responsabile per tale refuso, avendo correttamente inviato il titolo esatto alla nostra redazione.

Al di là del fatto che secondo me la esse maiuscola inserita un po’ alla cazzo (che loro nella rettifica non nominano) conta eccome, auguriamoci che non facciano copia-incolla dall’email che mi hanno inviato se no gli toccherà rettificare pure il numero di dicembre con “renDe noto” al posto di “renTe noto”.
Ciò detto a favore dei 200milioni di lettori che stanno assaporando lo Slide di ottobre, e della mia reputazione che andava nuovamente salvata, che qualcuno dia una Fiesta al grafico che… non ci vede più dalla famE!

E penso di sentirmi precario e felice

La noto per la sua magrezza, i capelli neri come la cinta di pelle lucida che non metto quasi mai, gli occhi scuri e la pelle bianco/grigia. Seduta accanto a me, mi attrae come un insetto. Non un cenno di riso, nonostante talvolta una risata ci stia bene a sdrammatizzare la stranezza del corso e di chi lo tiene. Invece lei appunta su un quadernino a quadretti informazioni inutili a cui siamo costretti, tutti lì di malavoglia. Temperature critiche, regole per lo stoccaggio dei cartoni, responsabilità del datore di lavoro, acronimi, articoli di legge sul controllo della qualità e della sicurezza. Guarda dritta, direi nel vuoto, mentre tutti fanno un gran baccano in risolini derisori nei confronti del docente strambo: un dottore veterinario, che non perde occasione di raccontare le sue vicissitudini personali. Fra la descrizione di un batterio pericoloso, il verme solitario e la fotografia del fegato asportato a una mucca morta per cause da accertare, ci infila la pigrizia della moglie che non ha voglia neanche più di scaldargli un brodino. Lei scrive, forse pure l’esempio del brodo. Io non vedo l’ora di uscire da quella stanza di un container (ovviamente) vicino l’ospedale e non capisco davvero dove trovi la forza di interessarsi a quella frattaglia di informazioni.
Quando ci dicono di andare, si volta dalla mia parte e dice solo: “Finalmente!” come se tutto il tempo avesse ascoltato i miei pensieri, spero non proprio tutti, che si domandavano di lei. Usciamo e ci mettiamo a parlare del più e del meno. I miei occhi smettono di far caso al suo aspetto mortisiano. La ascolto. Non so perché resto lì mentre lo spiazzo si svuota, e forse non lo sa neppure lei. Mi racconta le sue ultime esperienze di lavoro, in modo naturale. Ha bisogno di sfogarsi e allora pure uno sconosciuto va benissimo per parlare di questo e di quello che danno noia, la pelle bianco/grigia e gli occhi spenti per colpa delle ingiustizie subite, la stanchezza di mesi e mesi non ripagata né economicamente né in termini di motivazioni, gentilezze, stimoli. Tutt’altro. Doveva esplodere con qualcuno, perché i vicini si saranno scocciati di ascoltarla e pure il ragazzo. L’aveva capito benissimo dai sospiri e dalla sua tendenza a tagliar corto.
Ha vissuto un brutto periodo, sfruttata come una schiava in un supermercato dal nome noto. Mi ha raccontato delle 38 ore settimanali da contratto che diventavano 47, non pagate.
“Non firmavamo né l’entrata né l’uscita, e non avevamo un cartellino.”
Non mi sorprende.
“All’inizio stampavano il foglio generale degli orari di tutti, poi hanno smesso. Ognuno aveva una strisciolina di carta con solamente i propri orari, per paura che ci rivolgessimo a un sindacato con il foglio e vedessero quello schifo di ore in più.”
Non mi sorprende.
“Ho studiato tanto, mi sono laureata in lingue, per che cosa? Per sgobbare dalla mattina alle 7 fino alla sera alle 9 a caricarmi bancali di roba pesantissima e a essere insultata, per arrivare a fine mese neanche a 1000 euro?”
“Insultata?”
Glielo domando anche se so a cosa si riferisce.
“La direttrice è una pazza invasata, grida fra le corsie. Si avvicina e ti urla in faccia frasi offensive. Quando mi ha assunta mi ha promesso una crescita veloce, perché aveva notato le mie potenzialità o almeno questo è quello che mi ha detto. Così mi sono lasciata convincere e sono andata a fare un corso di un mese a Sulmona (120 km da qui) non pagato. Mi hanno rimborsato solo 300 euro per la benzina con un bonifico 7 mesi dopo.”
Non mi sorprende, proprio no.
“Ti sei licenziata?”
“Sì, ma non perché mi ero scocciata. Sono proprio una stupida. Me ne sono andata perché un responsabile si è fidanzato con una commessa e un mese dopo era diventata la nostra nuova responsabile.”
Non mi sorprende perché io in un supermercato c’ho lavorato 6 mesi e dal giorno in cui ho rassegnato le mie dimissioni mi sono ripromesso che mai più avrei fatto capitare nella mia vita un lavoro del genere, a costo di morire di fame. Certe volte il tempo indeterminato non corrisponde al sollievo per la sicurezza di un lavoro e di un futuro, ma alla condanna (a tempo indeterminato) a una vita infelice. È necessario trovare il coraggio e la forza di andar via, magari con la modalità consigliata dalla Lucianona nazionale: “Ci sono delle cose nella vita che si risolvono solo…”
Qualcuno di voi ha vissuto o sta ancora vivendo brutte esperienze di lavoro che vuol raccontare?
[Il titolo del post è un verso di Confusa e felice di Carmen Consoli, liberamente riscritto.]

Matrimoni omosessuali: Italia quasi al livello dell’Africa

Nel tentare di decifrare il 15° Censimento, che l’Istat ha provveduto a farci pervenire nelle nostre abitazioni, forse vi sarete soffermati qualche istante in più sulle 3 righe a inizio pagina numero 2, che rispondono come segue alla domanda: Cosa si intende per famiglia?

Un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso comune. Una famiglia può essere costituita anche da una sola persona.

Una famiglia quindi è un insieme (non si fa cenno al numero degli elementi se non alla fine quando addirittura dice che una persona, da sola, deve essere considerata una famiglia) di persone legate dai vincoli più generici (non fa riferimento al sesso, né ai diritti di legge. Questo vuol dire che per l’Istat 2 donne o 2 uomini che vivono insieme sono una famiglia, come potrebbero esserlo una donna e il suo bambino, adottato da single, se in Italia fosse possibile. In Italia non è possibile perché un/una single non viene considerata/o giuridicamente una famiglia, perché sostanzialmente non può sposarsi con se stessa/o). L’importante è che queste persone vivano insieme, almeno ai fini dei dati che interessano all’Istat.
Ma che cos’è una famiglia? Andiamoci a leggere la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e nello specifico l’articolo 16 che afferma:

-Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, sesso, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento.
-La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.

Bene. Nella cultura occidentale la famiglia viene definita in modo specifico come un gruppo di persone affiliate da legami consanguinei o legali, come il matrimonio o l’adozione o la discendenza da progenitori comuni. Gioca quindi un ruolo determinante la legislazione del singolo Paese. Allora, per capire come siamo messi noi italiani, non ci resta che aprire la Costituzione. Ad occuparsi della famiglia è l’articolo 29, che dice:

-La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
-Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.

Benissimo e facilissimo. Il matrimonio sembrerebbe essere la discriminante: in Italia per costituire una famiglia riconosciuta dalla legge devi sposarti. Allora bisogna far presto. Telefonare al ristorante, al pasticcere, scegliere i testimoni, le bomboniere, far stampare gli inviti, prenotare il viaggio di nozze e pensare alla prima notte da coniugi… ALT! Prima domandatevi se avete il diritto di sposarvi. Vivete in Italia e, ve lo ricordo, in Italia non sempre è possibile. Torniamo alla nostra Costituzione, e andiamoci a leggere in particolare il paginone dedicato agli impedimenti matrimoniali, le condizioni cioè che la legge considera incompatibili con l’assunzione del vincolo matrimoniale. Magari mi è sfuggita, ma non ho trovato nessuna voce in cui si dice che a 2 persone dello stesso sesso dev’essere vietato il matrimonio. La Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, La Carta di Nizza e diverse Risoluzioni del Parlamento Europeo hanno sancito per molti anni la necessità di evitare discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale nel diritto ad avere una famiglia. Ma allora, perché in Italia (il Paese delle mezze verità) 2 persone dello stesso sesso non possono sposarsi e dar vita a una famiglia alla quale vengano riconosciuti diritti e doveri previsti dalla legge?

In tutto questo l’Italia si pone al di fuori di qualsiasi confronto giustificandosi con il ricorso ad una matrice religiosa che determinerebbe l’impossibilità di celebrare matrimoni omosessuali.

Ecco spiegato l’arcano: il problema è la Chiesa che determinerebbe. I diritti della gente sottomessi a un condizionale.
Incredibile eh?! Facciamo correre i neutrini, ce ne andiamo a spasso nello spazio stellare e non facciamo sposare 2 che non pretendono molto, se non essere riconosciuti come famiglia. Che male fanno? E poi dicono il progresso.
Per concludere solo un dato. Al 2011 sono ammessi matrimoni omosessuali in: Messico, Paesi Bassi, Belgio, Portogallo, Spagna, Canada, Sudafrica, Norvegia, Svezia, Islanda, Gran Bretagna, Argentina e negli Stati USA del Massachusetts, Connecticut, Iowa, Vermont, New Hampshire, New York. Altri stati tipo Israele invece, non celebrano matrimoni tra persone dello stesso sesso ma riconoscono quelli celebrati all’estero. In Africa è prevista la pena di morte.
Noi come Italia, a chi ci sentiamo, ed effettivamente siamo, più vicini?

La spinta che mi ricorda tutti i giorni che posso arrivare dove voglio

In questo groviglio di cose per la mani (non so quanto sia un bene avere molte cose per le mani, per di più aggrovigliate) ripenso a quando ho compiuto 18 anni.
Significavano più di qualunque diritto guadagnato con la maturità nel nostro Bel Paese. Non m’importava di andare a votare, né di pilotare una diavoleria con le ruote e un cerchio per cambiare direzione. A quello, come a molto altro della nuova età, ci avrei pensato con calma. Esisteva una sola priorità in cima alla mia lista, che chiedevo da anni, mai concessa. La risposta di Madre era sempre la stessa.
“Quando avrai 18 anni farai come ti pare. Adesso non se ne parla.”
Come se a 18 anni cambiasse chissà che. Come se il giorno prima non potessi cavarmela senza le sue direttive e il giorno dopo sarebbe scattato l’interruttore e caduta dal cielo la chiave per aprire tutte le porte, direttamente nel palmo delle mie mani. A me interessava una cosa soltanto: farmi un tatuaggio che mi ricordasse non di fidanzatine finite chissà dove, segni zodiacali, iniziali di nomi, dragoni e farfalle. Di me, della mia forza, della mia volontà, dei miei meriti. Che erano abbastanza, questo doveva ricordarmi, perché troppo spesso lo dimenticavo e mollavo la presa. Ero sicuro che se non avessi fatto incidere con inchiostro indelebile un segno di questo sulla pelle, non avrei raggiunto neanche uno dei miei obiettivi.
Io da solo non sono mai bastato. Le mie forze non si sono mai rivelate sufficienti. Il muro restava là, intatto e la testa mi faceva male per il dolore di tutti i tentativi fatti per abbatterlo. Troppo pochi e troppo poco convincenti. Questa era la verità che non ammettevo. Come quando dici: Ho fatto tutto il possibile e non ci sono riuscito, ben sapendo che non hai fatto neanche la metà del possibile. Non vuol dire che le cose sarebbero andate diversamente, che avresti incontrato il successo, ottenuto quello che desideravi, raggiunto la meta del tuo piccolo cammino, però di fatto hai toppato per colpa tua. Io non volevo che fosse più mia la colpa, perciò avevo bisogno di una spinta che mi ricordasse tutti i giorni che io posso arrivare dove voglio.
Era ottobre inoltrato e alla Villa Comunale il vento portava in giro le foglie che saltellavano sulle panchine, eppure il tatuatore non sembrava per nulla infreddolito. Mi aspettava con una maglietta aderente nera senza maniche che lasciava le braccia far bella mostra dei disegni che le ricoprivano. Era un ragazzone pompato, gentile, che sapeva fare solo una cosa, ma la sapeva fare bene.
“Mi piacerebbe un piccolo disegno sul dorso della mano, fra il pollice e l’indice.”
“Lascia perdere le mani, che si consuma subito e poi te ne penti.”
“Ma è con le mani che io voglio fare le cose che questo tatuaggio deve significare.”
“Fallo, ma non tatuarti niente sulle mani. Non durerebbe neanche 2 mesi.”
Così ho scelto il polso. Dovevo vederlo sempre e ogni volta pensare: Tu puoi arrivare dove vuoi, altrimenti non avrei volato mai.
“Mi sa che ho il disegno giusto per te” mi ha detto mentre nel suo studio giravo e rigiravo le pagine plastificate del catalogo consumato dai tanti che lo avevano maneggiato negli anni. È sparito in una stanzetta tornando subito dopo con un quadrato di carta e una rondinella appena abbozzata. Mi si è illuminato lo sguardo, lo so. Mi succede sempre quando vengo raggiunto dal brivido del tutto giusto.
Vi capita mai di pensare: Sì, proprio così dev’essere! Se in quel momento davanti a voi aveste uno specchio vi accorgereste di quel brillio.
“Non lo devi fare a nessun altro, però.”
“Va bene. Lo tengo nell’album dei miei lavori, ma non lo metterò in catalogo.”
Il 20 ottobre del 1999 è stato uno dei giorni più giusti della mia vita. Felice di un dolore fisico necessario allora e di cui non ho smesso mai di aver bisogno.
Chissà se poi quel ragazzone pompato il disegno non l’ha davvero dato più a nessuno. Col senno di poi mi auguro che abbia tradito la promessa. Perché la rondine che vola sul mio polso possa portare a qualcun altro le motivazioni che dà tutti i giorni, da 11 anni, a me.

[III] Weekbook dalle tinte horror. Veleno Rosso Sangue

Un tempo che mi sembra la vita di un altro, tanto è lontano dal me di adesso. Ricordo tutti i fotogrammi. Tornavo da una serata felice, di quelle che mi andavo a cercare col lanternino, come le persone più belle, pensavo, sempre a centinaia di chilometri. Fa più amore, fa più dolce viaggiare per amore.
Forse la nottata più fredda dell’anno. Aveva nevicato tutto il giorno – quando a L’Aquila nevica, nevica veramente – e questo non era bastato a distogliermi dal partire. Stasera è pericoloso, è meglio se resti a casa, lo diceva una voce poco convincente se tradotto suonava più o meno così: dovrai aspettare un’altra settimana senza i suoi baci, i suoi occhi verdi e arancioni, i suoi denti d’un bianco tale che non riesci a non fissarli. Sono partito fregandomene della neve, di fiocchi piccoli come farina, fitti e costanti come se il cielo fosse un gigantesco sacco che non si svuota mai. Al ritorno avevo il suo profumo addosso e sul viso un sorriso lieve lasciato dal ricordo, il pensiero che non cambia. Notte fonda di silenzio. La strada era un inferno ghiacciato che non potevo dividere con nessuno e sugli occhi se ne stava comodo il peso della stanchezza dopo una giornata di lavoro, di studio, di viaggio, di amore, di viaggio ancora, per tornare a casa e arrivare quando il sole si sveglia. Non si dovrebbe mai farlo; lo sapevo, comunque lo facevo.
Un colpo di sonno, il manto stradale ghiacciato, i tergicristalli non ce la facevano a scansare la neve che si abbatteva a folate di vento sul parabrezza. E non so cos’altro mi ha fatto sfondare il guardrail finendo in un campo di fango alto più di un metro, oltre la carreggiata, alle 4 di notte. Stavo bene. Sono sceso dalla macchina e sono tornato sulla statale, bombardato dalla neve, con ghiaccioli al posto delle dita. Ho chiamato l’amore che non era amore, ovvio. Aveva spento il telefono e, quando il giorno dopo – tutto è bene quel che finisce bene – le ho raccontato, ha detto: “mi dispiace”, ma non così tanto. Da quel momento ci siamo sentiti sempre meno finché non ci siamo sentiti più.
È passato soltanto uno spazzaneve, si è fermato.
“Ho avuto un incidente. Sono uscito fuori strada. Potrebbe aiutarmi?”
“Devi aspettare le 7 per chiamare un carro attrezzi.”
“Sì, ma sono le 4 di notte, fa un freddo cane e la mia macchina è bloccata nella fanghiglia. Che faccio?”
“Devi aspettare le 7 per chiamare un carro attrezzi.”
Possibile che non vedesse i miei occhi di panico? La paura?
Sono tornato in macchina e là sono rimasto. Per fortuna si accendeva, almeno. Ho dosato la benzina, lasciandola accesa soltanto quando il sollievo dell’aria calda diventava indispensabile. In quelle 3 lunghissime ore ho viaggiato oltre la realtà, dove un uomo dai lunghi capelli neri e gli occhi scuri mi ha salvato condannandomi per sempre.
Al mattino è arrivato il carro attrezzi, un amico è venuto a prendermi. Me la sono cavata e la disavventura mi è servita da lezione, però l’immagine di quell’uomo solo immaginato continuava a cercare la mia attenzione. Così gli ho dato voce, vita, in una storia terribile partita come un esperimento fantasy e trasformatasi in una lunga novella vampirica di cui vado molto fiero, prodotta poi da La Tela Nera.

Su un letto d’ospedale un corpo urla senza poter parlare. Per tutti è un silenzio irrecuperabile, per Alejandro un gioco notturno. Cosa vuole da lei? ‘Veleno Rosso Sangue’ è un fantasy dai toni cupi che percorre, attraverso una scrittura malinconica, la distanza brevissima fra vita, morte e immortalità.

Sono passati più di 5 anni dalla sua uscita. Bella ed Edward Cullen ancora non sapevano di dover vivere la loro tormentata storia d’amore raccontata nel fortunatissimo Twilight e Lady Gaga ancora non conquistava i suoi miliardi di fan con le note di Alejandro, Roberto, Giuseppe e Antonio. Eppure, nonostante il mio protagonista si chiamasse Alejandro e fosse un vampiro, non ha avuto il destino di gloria che avrebbe raggiunto loro qualche anno dopo, che ve lo dico a fa’! Comunque da pochi giorni è stato rilanciato all’interno della libreria virtuale del mitico Starbooks Coffe. Ringrazio Andrea Malabaila, Carlotta Borasio e Giulia Meli per l’ospitalità. Questo è il link per scaricarlo gratuitamente. Potete leggerlo sui vostri PC perché è un semplice pdf. Mi farebbe tanto piacere se lo faceste e lasciaste poi le vostre impressioni sia quaggiù che da loro.
Buon Week(book)end!

101 modi per ammazzare qualcuno e diventare milionari

Io: Allora, che ne dici di Amanda che…
Lui: Basta! La TV mi ha frantumato i gioielli di famiglia con ‘sta storia!
I: Ma io volevo parlare di Amanda S…
L: Sei italiano? Parli la mia lingua? Capito che non ne voglio sapere più niente?
I: Ok, messaggio ricevuto, ma di Amanda mica ce n’è una sola, scusa!
L: Adesso ci mancano pure gli sdoppiamenti di personalità e la perizia psicologica per approfondire la natura del soggetto. È stata liberata, è tornata in America la notte stessa (con un passaporto scaduto. Lei mica deve fare la fila al Comune, perché lei è Amanda Knox!) fine della storia. Fattene una ragione!
I: Ma io dicevo Amanda Sandrelli, nota (figlia) attrice arrivata all’apice del successo interpretando la colonna sonora de La bella e la bestia in un indimenticabile duetto col padre Gino (Paoli). La bella e la bestia, capisci?! (C’è una bestia che…)
L: Mmm…
I: Ma come!La figlia della Stefania che, per evitare di sbriciolarsi mentre scende le scale durante le riprese, si beve 30 Danaos al mese. Ricchi di calcio e vitamina D le tengono le ossa forti e compatte, pensa lei.
L: Dai, ma chi sono questi qua, in confronto ad Amanda Knox!
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Più ci penso più mi convinco che Lui abbia ragione. Ok, Stefania Sandrelli non sarà Julia Roberts (non ci vuole una lente d’ingrandimento per accorgersene) però ha girato più di 100 film (perché mi sto incaponendo con Stefania Sandrelli in quest’ultimo mattino assolato prima del grande freddo?). L’attenzione e la popolarità conseguenti a certi accadimenti di cronaca nera sono imparagonabili per enormità cosmica a quelle che ti arrivano da un qualunque merito artistico. La pubblicità di Danaos la mandano 4mila e 700 volte al giorno circa che, moltiplicato per le nostre 7 reti nazionali, fa 32mila e 900 passaggi quotidiani. Eppure…
“Amanda oggi a che ora s’è svegliata? Quali sono state le sue prime parole quando ha visto i raggi del sole fare breccia fra le persiane della sua stanza? Di quale tonalità del marrone era la sua prima cacca da persona libera?” E cose così.
Viviamo con l’acqua alla gola e l’unico modo per uscire dalla triste quotidianità fatta di duro lavoro, pochi soldi, la benzina che dio mio! – ieri sera ho avuto la tentazione di abbandonare la macchina accanto alla pompa e tornare a casa a piedi, abbandonarla per sempre, intendo – sembra essere quello di commettere un omicidio. Sia ben chiaro: In Italia però, dove non ti scoprono. Cioè capiscono che sei stato tu, ma non riescono a provarlo e questo è un bel problema perché la Cassazione stabilisce:

“La condanna deve essere pronunciata al di là di ogni ragionevole dubbio, lasciando da parte solo eventualità remote, la cui realizzazione concreta non trova neanche il benché minimo riscontro.”

Solo a queste condizioni si può chiudere un malvivente in cella e buttare via la chiave (condizioni che in Italia non si verificano praticamente mai). Va bene, tutto giusto signora Cassazione, però troviamole ‘ste prove oppure, alle brutte, affidiamoci alla signora Fletcher che non ne toppava una. Disertavo la scuola per seguire le sue avventure. Col senno di poi penso che fosse lei a orchestrare i delitti per poi indurre alla confessione un poveraccio e veder accrescere ulteriormente la sua celebrità di signora in giallo.
Segue qualche consiglio per addormentarvi stasera e risvegliarvi al mattino ricchi, belli, e famosi. Sputare in faccia alla crisi mondiale e vivere (molto) meglio.
– Chiedete la cittadinanza americana.
– Aspettate l’imbrunire. Uscite di casa con in mano il coltello col quale avete pelato le patate della cena di ieri.
– Raggiungete l’abitazione di una fanciulla bellissima, possibilmente legata a voi da vincoli affettivi: un’amica, o una ragazza con cui avete avuto una storia travagliata fatta di tradimenti continui e magari pure un bambino, se non riconosciuto è ancora meglio.
– Fatela fuori e lasciate sul sangue impronte della vostra scarpa. Toccate più superfici che potete e, se vi viene, fate pure la cacca in salotto.
– Tornate a casa e addormentatevi con indosso gli stessi abiti coi quali avete commesso il fatto.
Segue quanto vi accadrà.
– Il giorno dopo sarete contattati dalla procura incaricata.
– Nei 3 mesi successivi sarete continuamente invitati a: La vita in diretta, Pomeriggio5, Mattino5, Domenica5, Verissimo, L’Italia sul2, Quarto grado, Matrix, Porta a Porta.
– Dopo un tempo variabile fra i 4 e gli 8 mesi (quando gli inquirenti si accorgeranno che la cacca è la vostra) sarete ufficialmente gli unici indagati per il delitto “della povera X” o “della piccola X”, a seconda dell’età della vittima. A quel punto contattate la signora Bongiorno che sarà felice di assistervi alla modica cifra di euro 100mila, all inclusive. Potrebbero sembrarvi molti, ma considerateli un investimento. Fra poco capirete perché.
– Sarete giudicati colpevoli in primo grado e dovrete scontare 25 anni di carcere, ma non preoccupatevi perché è solo il primo grado.
– Si mobiliterà il vostro paese d’origine. Se siete di Napoli, i media napoletani, se siete di Pescara, quelli pescaresi, e via dicendo che, aggiunti agli americani fanno sempre comodo (ecco perché è fondamentale ottenere proprio quella cittadinanza).
– Dopo 4 anni di carcere ci sarà il secondo grado di giudizio. È là che l’avvocato Bongiorno dimostrerà di meritare la sua parcella ricordando a tutti che quello ritrovato sul coltello non è il sangue della vittima, ma amido di patata e voi sarete scagionati per non aver commesso il fatto.
– Vi verranno riconosciuti 850mila euro per aver trascorso ingiustamente 1488 giorni dietro le sbarre (il frutto del vostro investimento iniziale, che si è quasi decuplicato).
– Le più grandi case editrici del mondo faranno a botte per avere i diritti della vostra storia. Così come le televisioni per la vostra presenza.
Qualche annetto di pazienza e il gioco è fatto, insomma. Sempre che non arrivi Jessica Fletcher a rompervi le uova nel paniere.

Qualche riflessione su Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Su ieri sera, insomma

Non voglio discutere se siano o no colpevoli, 2 che poche ore dopo il ritrovamento della loro amica massacrata, vanno a comprarsi le mutandine sexy per fare i giochini erotici. Nemmeno se sia colpevole o no una che senza pensarci un minuto, accusa di omicidio quel poveraccio di Lumumba che non c’entrava nulla e quasi quasi noi italiani le crediamo.
Non fate di me un sadico ammiratore del dolore, che davanti alla TV ieri sera aspettava la proclamazione della loro colpevolezza con la stessa attesa che si prova per il goal al 90° della propria squadra preferita al posticipo di Campionato. Non ho seguito molto la faccenda, non mi piace la TV figuriamoci questa TV-tribunale. Non conoscevo bene le espressioni dell’imputata né i lineamenti dell’imputato, che credo di non aver visto mai prima di ieri sera. Quando hanno fatto il loro ingresso in aula, la telecamera si è paralizzata sulla ragazza. Perché non inquadrano mai quell’altro, mi sono domandato. Perché lei piangeva e i suoi non sono occhi comuni, ma occhi di mare e il suo viso è bellissimo, sembra un angelo. Ci si mette pure la bellezza, bingo! Tutti vogliono dire come sono andate le cose. Se a chiamarsi Amanda Knox fosse stata una grassona piena di nei pelosi e con 10 denti in tutto, dei quali 6 cariati e 2 devitalizzati, sfido chiunque a dire che il caso avrebbe avuto la stessa attenzione mediatica.
Quando il Giudice ha proclamato la loro innocenza, mi sono sentito spettatore di un film americano, non soltanto per la nazionalità della protagonista. Uno di quei film in cui all’ultima udienza si ribalta tutto: il presunto colpevole, sul quale pesavano decine di indizi, risulta innocente e qualcun altro diventa il colpevole definitivo. Ti senti sollevato perché tutto quadra e pensi: Giustizia è fatta!
Ieri è mancata proprio la seconda parte. I due ragazzi sono stati assolti per non aver commesso il fatto, quindi, per capirci, non è che le prove a loro carico non erano convincenti, come ho sentito dire, tutt’altro. Le prove raccolte hanno convinto la corte che loro non c’entrano niente. Assoluzione con formula piena = loro 2 non erano in casa al momento del delitto.
Vederli piangere abbracciati ai loro avvocati mi ha fatto sentire fortunato (non che dipenda dalla fortuna svegliarsi una mattina e ritrovarsi imputato di un omicidio a rischio ergastolo, in generale almeno. Però, se davvero sono innocenti, e a questo punto non dovrebbero esistere in nessuno di noi motivi per non pensarlo, beh allora la fortuna o la sfiga hanno contato di brutto). Poi sollevato perché quei 2 sono più piccoli di me e all’idea di trovarmi da innocente a dover vivere… lasciamo perdere che mi vengono i brividi al solo ipotizzarlo.
In questi 4 anni di carcere avranno costruito nella loro mente milioni di volte quei brevi istanti di verità alla fine del processo. Una fine che in un modo o nell’altro sarebbe arrivata e aveva una data. Ieri sera alle 21.50 si sono alzati e hanno ascoltato il loro destino. Da una parte la fine dell’incubo, la vita che riprende, il sole a qualunque ora. Dall’altra la fine senza appello: l’ergastolo. Ci pensate a cosa può significare trovarsi di fronte a un giudice che legge cosa ne sarà della vostra vita da qui in avanti, e per sempre?
Io quelli che urlano: Vergogna! a una corte che ha liberato 2 ragazzi non li capisco per 2 motivi.
– Siete degli investigatori voi e, dai vostri riscontri sul campo, sono risultati colpevoli? Avete letto tutte le carte del processo? Avete la facoltà di stabilire la colpevolezza di qualcuno e siete più attendibili di una vera procura?
– Mi piacerebbe vedere come vi sareste comportanti se al posto di quei 2 ci fossero stati i vostri figli, o fratelli o sorelle. Ma andate a vivere la vostra vita, a studiare, a lavorare, ad accudire mogli e mariti e figli e nipoti, a fare le faccende di casa, che coi processi delle vite degli altri non ci entrate proprio niente.
Poco sopra dicevo che al lieto fine cinematografico manca la seconda parte dell’americanata: la sostituzione del colpevole finto con quello reale, cosa che probabilmente non accadrà mai. Su questo mi sento in dovere di fare 2 riflessioni amare.
– Giustizia non è fatta per niente. Una ragazza è stata massacrata a coltellate e, come sempre più spesso accade nei delitti italiani, dopo anni di processi, indagini, udienze, interviste agli avvocati, tutto finisce e non si sa chi ha ucciso il poveraccio di turno. Possibile, mi chiedo io, che sia possibile (la ripetizione è voluta) massacrare qualcuno a coltellate in un appartamento di Perugia e riuscire a non lasciare nemmeno una traccia? Possibile, mi chiedo io, che sia possibile confondersi fra il DNA della vittima e l’amido di patata sul coltello trovato dagli inquirenti? L’amido di patata assomiglia vagamente per composizione chimica al DNA di una persona? Qualcuno per favore mi spieghi ‘sta cosa.
– Quel Guede è stato condannato presto presto a 16 anni di reclusione per essere complice del delitto, col rito abbreviato (cotto e mangiato, direbbe la Parodi prima di infilarsi in bocca l’indice sporco di uova battute con parmigiano e terriccio prelevato da sotto lo scarponcino di tuo marito tornato dalla caccia, e succhiarlo). Complicità significa la presenza di altre persone che suppongo, nella testa di chi l’ha giudicato, essere appunto Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Non mi pare ci siano altri imputati. Poi viene fuori che i 2 non c’entrano niente. Un complice senza complici (che di anni ne sconterà forse la metà, e ne sono passati già 4). È come dire: La torta non l’hai mangiata solo tu, e quindi stai in punizione soltanto 16 giorni, però non esistono prove che l’abbia mangiata pure qualcun altro. Siamo all’assurdo. Come si dovrebbe sentire la famiglia Cherker?
[Un’altra cosa che non capisco, ma la metto fra parentesi quadre in grassetto, è l’indignazione americana all’eventuale giudizio di colpevolezza della ragazza (indignazione che non escludo possa aver influito sul verdetto). La giustizia italiana sarà anche pasticciona e contraddittoria, com’è stata definita dal Sun, ma prendere lezioni dagli Americani pure sulla giustizia, loro che dopo mezzo processo che è quasi sempre soltanto una formalità, friggono le persone come fossero anelli di calamaretti, mi pare veramente troppo.]
Comunque Albano Carrisi, noto col nome d’arte Al Bano, lo sapeva già e nessuno, come al solito, se l’è cacato di striscio.

Nella galleria più lunga d’Europa

I laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare si trovano a circa 1000 metri di profondità sotto il massiccio del Gran Sasso, proprio dentro il traforo.
“Ora entriamo nella galleria più lunga d’Europa” mi diceva mia madre, in viaggio verso il mare. Quel buco nero, nel quale eravamo pronti a tuffarci, mi metteva sempre un po’ d’ansia mista all’eccitazione dell’ignoto. Mi vergognavo di domandarle com’era possibile che una galleria fosse più lunga di un intero continente, così restavo a guardare dal finestrino le luci gialle e la nebbia (per me di nebbia si trattava) di un’atmosfera che non finiva mai. Facevo il conto alla rovescia assieme ai cartelli, che indicavano un chilometro in meno a ogni chilometro, ed era vero che era lunghissima. Io l’Europa non l’avevo certo attraversata, quindi era possibile che fosse davvero così, se poi a dirlo era mia madre… Quando ho cominciato a ragionare (dote che alla veneranda età di trent’anni ammetto di dover ancora affinare parecchio) ho capito che l’Europa non poteva essere meno lunga di 10 chilometri e 176 metri. Era questa la spiegazione che mi davo all’assenza di stati, province, città, quartieri e villette a schiera sotto la galleria, oltre alle condizioni, non certo le più favorevoli per una quotidianità salubre. Ci ripenso e mi sento scemo.
Ci hanno impiegato 25 anni a costruirla. Nel 1982 comincia la costruzione dei laboratori, voluta dal fisico Antonino Zichichi. Vi si accede attraverso uno svincolo sotterraneo. Ci butto sempre l’occhio. All’imbocco qualche cartello di pericolo di vietato l’ingresso ai non addetti, area video sorvegliata, se t’avvicini ti spariamo vari ed eventuali, avvertono chi ha brutte intenzioni e precedono un portellone grigio che sbarra il passaggio. Mi fa pensare all’Area51, nel sud del Nevada. Lo so che Giampaolo Giuliani ci prevede i terremoti e fanno gli esperimenti con le particelle non so di che, ma è come se ci fosse dell’altro. Come se, per il solo fatto di essere una zona off-limits, debba nascondere al suo interno esperimenti sui quali aleggia la massima segretezza, certamente su cavie umane, probabilmente sugli alieni. Oppure uno stargate che attiveranno da un momento all’altro. Chi di dovere potrà così mettersi in contatto con Cheope per chiedergli chi cavolo ha costruito la sua meravigliosa tomba, che non ci crede nessuno che sono stati gli schiavi Egizi.
Chissà cosa ci fanno lì dentro, è la domanda che mi pongo in quei 2 o 3 secondi che sfreccio sempre un po’ sopra il limite di velocità. Ebbene, da qualche settimana abbiamo scoperto che all’interno dei laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso fanno gli arbitri, con cronometro alla mano, alla maratona che potrebbe diventare la più importante della storia della Fisica. Una corsa fra 2 squadre: in divisa giallo oro i fotoni campioni in carica, detentori del record di velocità universale di 300mila km/s, in divisa trasparente i piccoli e insignificanti neutrini, che non se li è cacati mai nessuno. Come succede nelle favole, in cui la tartaruga vince sulla lepre, i neutrini stracciano i fotoni, tanto perché quando qualcosa è impossibile c’è poco da fare, dicevo nel post di ieri. E invece TAC, arriva la smentita. Noi comuni mortali ce ne stiamo a guardare con la bocca spalancata fingendo sorpresa, quando in realtà non c’abbiamo capito una ceppa perché alle superiori avevamo il 3 fisso in Fisica.
A tal proposito vi voglio segnalare il blog di Licia Troisi, che oltre ad essere la regina del fantasy italiano (per quanto molti storcano il naso) è pure un’astrofisica. In questo articolo in particolare spiega la scoperta dei neutrini più veloci della luce con un linguaggio praticabile pure da noi col 3 fisso in Fisica, e la questione si fa davvero avvincente.
[Quando ripasserò davanti ai laboratori di certo mi verrà da sorridere al pensiero che ‘sta città è proprio strana.]

Ieri ho tamponato una signora dolcissima

Tentavo di raggiungere il mio posto di lavoro in un tempo impossibile, secondo quanto dice il sapere fino a oggi saputo.
Se ti poni un obiettivo impossibile tipo, che so, fare L’Aquila –>Torino andata e ritorno in 2 ore, intanto fallisci – se è impossibile, è impossibile (impossible is nothing è solo lo spot pubblicitario di un marchio di scarpe e tu non sei Nadia Comaneci) – poi può capitare che, nel costruire il fallimento annunciato, fai anche danni; strafai per abbattere i limiti che stabiliscono tale impossibilità e abbatti qualcun altro.
La distanza che separa casa dal mio posto di lavoro richiede una ventina di minuti a bordo di un mezzo di trasporto a motore (diverso dal treno, dall’aereo e dal missile) guidato con mano attenta, ma non inappuntabile. Se la mano fosse ligia al dovere, rispettosa di ogni norma del codice della strada, il tempo di percorrenza aumenterebbe sensibilmente. Questo non vuol dire che da oggi siamo tutti autorizzati ad andare a 100 all’ora (brem brem brem brem, brem brem brem brem), nemmeno per amore.
Però.
Qualche impercettibile infrazione quotidiana che male può fare?!
– Un semaforo rosso superato, dopo aver guardato 3 volte a sinistra e 4 a destra (è da là che sopraggiungono i pericoli peggiori, bisogna fare attenzione).
– Una precedenza non data alla monovolume di turno avente diritto (che se la riprenderà a scapito del prossimo malcapitato); che sarà mai?!
– Una strada pedonale (divieto d’accesso, transito, fermata, sosta) intrapresa per tagliare. (Meno di 3 minuti. Stai tranquillo, a parte una vecchina, sulla strada non c’era nessuno che possa averti visto compiere l’infrazione).
– Una vecchina accidentalmente investita su una strada pedonale (la stessa, che adesso non può più parlare). Ehm.
Piccole cose insomma a garantire che quei 20 minuti siano davvero 20, nei quali intervengono anche altri fattori, esterni alla mia persona.
–  Le condizioni del traffico (la domenica mattina non è la medesima situazione di un qualunque sabato pomeriggio; se la domenica mattina è estate e il pomeriggio del sabato scelto inverno, il paragone è abissale, ma non siamo ancora a quei livelli).
– Il numero delle strade percorribili in città (= 2, sulle quali devono transitare 60mila veicoli).
– La visibilità oggettiva (quanta strada si distingue, se c’è foschia, se è giorno, notte, eclisse).
– La visibilità soggettiva (la mia, che certi giorni ci vedo meno e altri poco di più. Nemmeno questo dipende da me, però).
– Il cielo. Un cielo sereno può ridurre il tempo di percorrenza anche del 15 per cento, un cielo temporalesco, che butta acqua a secchiate, ritarda il mio arrivo mediamente di 10 minuti. Per me, che viaggio con un margine di errore consentito fra i 3 e i 6 minuti, significa timbrare il cartellino in ritardo di almeno 4 minuti, che per il mio datore di lavoro significano panico alle stelle, con tutte le parole sempre uguali che ne conseguono. Ho il terrore di guidare con la pioggia. Mica per i fulmini! A L’Aquila quando piove la gente si ringalluzzisce e gioca alle macchine da scontro. Anche questa è una forma di reazione, quindi bene per la città e male per i veicoli centrati.
Ieri avevo il disperato bisogno di superarmi, così ho cercato di dimostrare che casa –> lavoro si può fare in meno di un quarto d’ora, 13 minuti per l’esattezza: il tempo per evitare il ritardo e le solite parole. Nel caso in cui non disponiate di praticissimi lampeggianti blu polizia stick stack, procuratevene un paio dal più vicino rivenditore non autorizzato. Basta piazzarli sul tettuccio e azionarli per ammirare il mare di automobili davanti a voi aprirsi come le acque del Mar Rosso con Mosé, animato da una gran fretta di arrivare al monte Sinai (non chiedetemeli perché non posso prestarveli, davvero). In alternativa preparate la mano sospesa sul clacson, come si faceva al Quizzone di Gerry Scotti col pulsantone per la prenotazione (one-one-one), pronta a sparare strombazzate intimidatorie a tutti coloro i quali occupano lo spazio antistante il mezzo, colpevoli di procedere alla velocità di una larva passeggiatrice, che si guarda intorno e ammira le bellezze che la natura le riserva, passo dopo passo, centimetro dopo centimetro, prato arido con zolle di terra secca dopo prato arido con zolle di terra secca.
Di solito funziona. Di solito.
La signora dolcissima ha reagito alla strombazzata inchiodando. Non avevo mai visto prima una frenata del genere. Chissà cosa avrà pensato quando le sono piombato addosso da dietro (a parte: Statestadimin-chiha parlato?).
“Signora, accosto un attimo” dico dal finestrino. Lei non risponde.
“Signora, mi scusi tanto” chiudo lo sportello della mia macchina e la raggiungo. Lei non scende. “Ho provato a frenare, ma non sono riuscito a fermarmi in tempo.”
Lei non dice niente. (Ma è sotto ipnosi? Qualcuno ha il numero di Giucas Casella? Oddio, quant’è tardi! Devo andare al lavoro! Tardissimo!)
“Le lascio tutti i miei dati, lei mi chiama e mi fa sapere” dico mentre mi muovo verso il portabagagli della sua; voglio cercare di capire i danni. “Devo andare al lavoro, purtroppo non posso trattenermi oltre.”
Viene a vedere anche lei, si rianima: “Non ti preoccupare tanto la macchina non si è fatta niente… a parte questo!” passa il dito su una macchia che va via. “Vai al lavoro se no fai tardi. Fai piano però!”
Non me lo faccio ripetere 2 volte. Rientro in macchina, giro la chiave, rombo di acceleratore, esclamo: “Voglio essere un neutrino!” e arrivo al lavoro spaccando il secondo e senza passare dentro alcun tunnel fantasma non-costruito coi soldi del governo, fra l’altro.
Per fortuna il nostro piccolo scontro non ha provocato nulla (di visibile. O almeno, lei non l’ha visto. Chissà se quel bozzetto sopra la targa c’era già. Io non è che sono stato a domandarglielo).

[II] Weekbook. Un ricordo, un libro che non m’è piaciuto per niente e una segnalazione

È arrivato pure ottobre, ma shhh! perché il sole ancora non se ne accorge. Che questi ultimi raggi tiepidi continuino a scaldarci la pelle finché ne avranno voglia, senza insistere troppo perché il freddo arrivi. Che poi ce ne pentiamo, lo so.
Tattarapippi-nananà (la sigla di Weekbook).
Partiamo con la bella notizia o con quella brutta? Tenuto conto che la bella notizia non è bella quanto la brutta invece è bruttissima (è venuto improvvisamente a mancare…), io direi di toglierci subito questo dente. Qualche giorno fa (il 26 settembre) è morto Sergio Bonelli, l’editore dei mitici Zagor, Tex, Dylan Dog e moltissimi altri indimenticabili personaggi dei fumetti. Provo a ripercorrerne (molto brevemente) la carriera in questo articolo. Non leggo fumetti, però dispiace anche a me, che c’entra!
Asciugata la lacrimuccia? Bene, passiamo ai libri nero su bianco. Qualcuno ha letto ‘Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve’? Io purtroppo sì. Qualcuno ha riso almeno un paio di volte sfogliando le 446 pagine che lo compongono? Io purtroppo no. Questa è la recensione che ho scritto per evitare la morte certa per asfissia fra le sabbie (im)mobili di Jonas Jonasson a coloro i quali fossero intenzionati ad acquistarlo per trascorrere qualche settimana di lettura in leggerezza, ma – fondamentale – ancora non l’hanno fatto. Ben venga chi non la pensa come me. Chi l’ha amato, chi lo consiglia e chi lo regala (ma chi? Io lo uso per sorreggere lo spinotto del digitale terrestre che non fa tanto bene contatto con la TV) vorrei mi spiegasse cosa gli è piaciuto di questo libro osannato in tutto il mondo. Capiterà da queste parti uno di quegli osannatori. Se non oggi, domani. Se non domani, prima o poi. È questione di statistica. Mi metto qui, buono buono, e aspetto. Nel frattempo faccio un salto a Terracina (provincia di Latina) da non confondersi con Pietralcina (provincia di Benevento), la terra di Padre Pio, per capirci.
A fare che a Terracina? Alla seconda edizione del Terracina Book Festival: 3 giorni di incontri, scrittori e giornalisti a confronto e un concorso che premia i giovani autori locali al grido di “la seconda volta non si scorda mai”. Avete tempo fino a domani.
Weekbook torna, se Dio vuole, sabato prossimo.
Tattarapippi-na-na-nà (la sigla di chiusura rallenta nel ritmo facendosi un po’ più enfatica, non notate i trattini?).
[Cos’è Weekbook? Se proprio non possedete il talento dell’intuizione, la risposta la trovate dove e quando tutto nasceva.