[VI] Weekbook. Fate Attenzione! Qua ci scappa una carneficina

Qualcuno per caso vanta, fra le amicizie di Facebook, quella con un carnefice di professione, discreto e disponibile anche di domenica, a poco prezzo e con un grado di irascibilità superiore alla norma, ché avrei un lavoretto facile facile (per lui che è un carnefice, chiaro!) da proporgli? Mi sento come un bel vaso Ming del ‘400 tutto variopinto (ammesso che a un vaso Ming del ‘400 basti l’essere variopinto a poter provare delle sensazioni). Mesi e mesi immobile, a farmi ammirare; mi spolveravano pure. Un bel giorno qualcuno urta il vaso col gomito e quello cade a terra. In un attimo smette di essere le uniche 2 cose che era: bello e vaso. Forse rimane Ming(hia), ma lui, che al momento vede solo i suoi cocci sul pavimento, non può saperlo. Le stesse persone che prima lo ammiravano, adesso si voltano dall’altra parte a contemplare un altro vaso (da notte: praticamente un cesso).
L’umore altalenante fatica a restare prigioniero in una stanzetta della mente. Preme per manifestarsi e quasi sempre ci riesce. Qui lo fa in un modesto sfogo iniziale contro ignoti, propizio per il lancio dell’intervista di questo Weekbook pre-halloweeniano.
Insomma, a chi lo chiedo il numero di telefono di un bravo carnefice che si sbarazzi della causa (umana) della mia indisposizione mensile? A Francesca Bertuzzi naturalmente, la bionda fanciulla abruzzese (non è un dettaglio da sottovalutare) dagli occhi celesti e poche parole, che all’esordio fa subito centro con uno dei più grandi successi letterari della scorsa estate. ‘Il carnefice’, pubblicato da Newton&Compton, non pare ancora sazio. Dopo aver occupato per settimane la top ten dei libri più venduti, continua a mietere vittime facendo capolino di tanto in tanto in classifica.
Io l’ho intervistata. Parto dalla quarta chiacchiera perché mi offre lo spunto per allargare il discorso.

Io: ‘Il carnefice’ è uscito qualche mese dopo ‘Il divoratore’ scritto da Lorenza Ghinelli, altra fortunata scoperta della tua casa editrice. A legarvi non sembra essere soltanto il titolo affine dei vostri libri. Ho letto che siete state compagne di classe alla Holden. Che aria si respira nelle stanze della scuola di scrittura più desiderata d’Italia? C’è spazio per un’amicizia disinteressata oppure l’ambizione e la voglia di arrivare tolgono fiato al resto?

Francesca: Sì, io e Lorenza eravamo nella stessa classe, ed evidentemente abbiamo avuto una fortuna e una determinazione comune. Quando ripenso ai nostri percorsi paralleli per quanto distanti, mi viene quasi da pensare a una sorta di destino. Per come l’ho vissuta io, la Holden è stata una scuola che mi ha dato molto, e fra le tante cose che mi ha dato, mi ha anche fatto conoscere i miei migliori amici. Non ho mai vissuto la scrittura come una competizione. Per me è più un mezzo per viaggiare e vivere avventure, e le persone con cui ho condiviso quei due anni sono poi quelli da cui ho imparato di più.

La Newton ha avviato una vera rivoluzione alla quale conviene che pure gli altri grandi gruppi editoriali rispondano quanto prima, altrimenti un giorno troveremo in classifica solo libri targati Newton&Compton, in un mercato ormai quasi monopolizzato. Non mi spiego come riescano a riempire gli scaffali delle librerie con prime edizioni dalle fattezze che nulla hanno da invidiare a quelle dei più blasonati concorrenti, ma a un prezzo di 9.90 euro contro i 18 barra 22 di Feltrinelli e compagnia bella. Che siano i primi effetti della legge Levi ammazza-sconti? Se n’è discusso tanto; ha spostato la concorrenza dalle librerie che non hanno più la facoltà di attuare sconti spregiudicati,  alle case editrici che, per forza di cose, se vorranno rimanere competitive, dovranno rivedere in picchiata i prezzi di copertina, tutto questo a vantaggio di noi lettori. Newton è partita a bomba e le vendite le danno ragione. ‘Il carnefice’ (mini-sito in cui trovate molti contributi interessanti, come l’intervista doppia stile Iene fra Bertuzzi e Ghinelli) e ‘Il divoratore’ hanno fatto da apripista a una lunga serie di grandi successi affilati. Ricordiamoci ‘Il mercante dei libri maledetti’, ‘Il libro segreto di Dante’,  ‘La cattedrale dell’Anticristo’ tutti a 9.90 euro e tutti in classifica. Allo stesso buon esito sembra destinato ‘Il mummificatore’ di Nicola Brunialti, uscito il 27 ottobre.
Negli ultimi anni la casa editrice sta puntando molto sul connubio thriller italiano – autore emergente, dimostrando che un romanzo thriller può vendere bene anche se non siamo in America e a scriverlo è una giovane penna alla sua prima esperienza editoriale. E sul chick lit italiano prima, capitanato da Federica Bosco, ormai vera celebrità del genere. ‘Il mio angelo segreto’ sequel di ‘Innamorata di un angelo’ sta appassionando migliaia di lettori, sempre a 9.90 euro. E internazionale poi, col romanzo che la scorsa estate riposava sotto tutti gli ombrelloni delle nostre spiagge: ‘Un regalo da Tiffany’, oggi ancora libro straniero più venduto secondo solo a ‘Aleph’ di Coelho. E quanto costa? 9.90 euro, che domande. Certo è che alla Newton ci nascondono qualcosa. Fra i costi di stampa, quelli per la promozione, la percentuale all’autore (6 barra 10 per 100, se è prevista sui loro contratti) e al distributore (30 barra 40 per 100) resta un mistero come facciano a mantenere un prezzo di copertina così basso. Comunque a noi va benissimo così.
Vi lascio alla vostra unica domenica dell’anno di 25 ore, con il messaggio col quale Francesca conclude l’intervista; dà la carica a chi ha un sogno da realizzare o una difficoltà da superare.

Per quello che ho potuto vedere, lungo la strada si possono incontrare sbarramenti, persone che hanno un certo potere e che decidono di non farci andare avanti. Quando ci si trova all’angolo, bisogna ricordarsi che queste persone sicuramente un potere ce l’hanno, ma è solo quello che noi decidiamo di dare loro. A volte può bastare cercare un’alternativa per trovarla.

Potete leggere l’intera intervista qui. (Ringrazio Francesca per avermi lasciato pubblicare nell’articolo una sua foto privata, assieme al suo bellissimo cucciolone Huan.)

Fin dove può spingersi un lettore con le sue critiche?

Ieri sera, sotto il post precedente, compare il seguente commento: “Scrivi bene, ma questo non giustifica totalmente quel pizzico di saccenza. Impressione di un lettore occasionale” firmato Sergio.
Saccenza è una parola che ha 2 accezioni: una positiva, quasi mai usata in verità (io non la conoscevo prima di scoprirla sul dizionario) e una negativa, quella comune. Da una parte il saccente è persona accorta, sagace; dall’altra presuntuosa: si dice di chi ostenta una sapienza superiore a quella realmente posseduta. Sergio faceva di certo riferimento alla seconda. Il punto non è se la mia scrittura sia o no saccente, ma quanto il lettore debba poter dire, giudicare, criticare in questo caso un articolo di un blog semisconosciuto (il mio), ma vorrei ampliare il discorso ai libri e potremmo dire anche ai film o alle canzoni, ai CD… che tutti i giorni noi fruitori dell’arte commentiamo blablabla e pure blablabla-bla e bla, tiè e ri-tiè! con la nostra bocca sempre pronta.
Lo spunto per parlarne è stato innescato certo dal commento di Sergio, ma soprattutto dalla discussione che quel commento, che io ho riportato su Facebook, ha poi generato. Sono 2 le ottiche che emergono.
– Chi sostiene che il lettore debba limitarsi a leggere il libro senza entrare nello specifico di stile, contenuto, dialoghi, trama, l’uso di certi termini piuttosto che di altri, “Io il finale l’avrei scritto così e non colì!”, perché non possiede le competenze riconosciute a un addetto ai lavori quale si presuppone sia l’autore stesso, e/o l’editor che ha scelto ed editato il testo, e/o l’editore che l’ha pubblicato esattamente come il lettore poi se l’è ritrovato fra le mani.
– Chi ritiene che chiunque possa dire la sua su qualsivoglia aspetto che riguarda l’opera che per un motivo qualunque ha scelto di acquistare. Dopo aver speso 10 barra 13 barra 22 euro sarà anche libero di dire o no quello che crede? Se gli ha fatto schifo spiegarne il motivo e massacrare l’autore, consigliargli di cambiare mestiere e dedicarsi a occupazioni più redditizie e vicine alle sue inclinazioni come scaricare pesci al porto oppure, che so, consegnare i piatti pronti alle mense degli asili della città.
A questo si collega, come un vagone a un altro dello stesso treno, la questione: E l’autore? Come deve porsi nei confronti delle critiche, quelle toste dei lettori esigenti che proprio in virtù di una fiducia prima accordatagli alla cassa della libreria, poi evidentemente delusa dalla lettura, non ci pensano 2 volte a vomitare parole che stroncano, pesanti come macigni?
Anche qui 2 opinioni che riassumo così:
– Le critiche aiutano a crescere, a riflettere su aspetti che altrimenti l’autore, da solo con se stesso, non noterebbe. Perciò l’autore deve apprezzare pure quelle più aspre nella ricerca di un miglioramento.
– Le critiche sono per di più la voce degli invidiosoni che puntano a distruggere, non a costruire, dovute spesso alla frustrazione che ti dà il desiderare senza ottenere mai. Pertanto l’autore deve procedere per la sua strada senza dargli peso, fregarsene senza spendere neanche un minuto a interrogarsi sul perché e sulla fondatezza di parole a priori inutili.
Francesco Pomponio (autore di 2 libri) dice*:

Il lettore ha il diritto soltanto di dire “mi è piaciuto” “non mi è piaciuto” non deve dirti come lui avrebbe scritto il tuo libro. Non è presunzione, ma come nessuno dice all’idraulico come deve fare il lavoro, non vedo perché chi scrive debba essere sempre sotto esame. Non è accettabile e chi dice che apprezza le critiche, anche se negative, molto probabilmente non dice la verità. Io non le apprezzo affatto. Se uno scrive un libro in un modo o non sapeva farlo meglio o è proprio così che voleva farlo. Quando vanno al cinema mica si mettono a dire che quel movimento di macchina doveva essere più veloce o la fotografia non va bene in quella scena, si vedono il film e alla fine o gli è piaciuto oppure no.

Daniele Pinna (agente letterario) dice*:

Commenti che fanno bene e fanno crescere. Scusate, ma come fate a sapere che chi ha lasciato il commento non ha competenze (riferito al lettore occasionale Sergio)?

Io dico*:

A me le critiche servono perché rileggo con occhi diversi. Mi interrogo. Per me quello col lettore, che apprezzi o no, è un confronto fondamentale. Chi meglio del lettore comune ha competenza per dire cosa non va nel tuo scritto, lui che magari l’ha pure comprato? Quando esco dal cinema, se un film non mi è piaciuto faccio il criticone. “Troppo cupo, lento, i dialoghi non reggono, la trama è debole…” Eppure mica sono un regista, o un attore.

E voi che siete dalla vostra autori di blog, qualcuno di libri, qualcun altro lo diventerà – lo so perché è troppo bravo – come vedete la faccenda? Cosa direste se qualcuno vi scrivesse che non andate, che non avete stile, che la vostra scrittura fa un po’ schifX, che non meritate quello che avete ottenuto? (Anche se non dovrebbe servire, preciso che uno non si ritrova scrittore perché un giorno incontra Harry Potter che gli fa il piacere di urlare qualche formula magica prima di volar via a cavallo della sua Nimbus. È un percorso estremamente faticoso.) Che non riuscite a essere efficaci nei racconti, e metteteci pure che siete brutti va. Come vi sentite? Come la pensate, insomma, in merito al rapporto autore/lettore?

*Naturalmente ho dovuto tagliare qua e là i commenti cercando comunque di rappresentare l’opinione d’insieme che ne emerge.

[I] Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Bignardite, black bloc, apostrofi maschi contro apostrofi femmine

Oggi voglio dedicare qualche minuto a rispondere agli interrogativi di chi, tormentato dal dubbio, domanda (a me? No,) a Google (e suo malgrado finisce nel mio sito). Ne ho scelti 3 più rappresentativi, quelli che mi sembrano più bisognosi di una risposta urgente. Cominciamo da chi ieri ha digitato su Google la seguente sequenza di parole:

Che fine ha fatto Daria Bignardi?

Ecco, bella domanda. L’ultimo mio avvistamento risale alla scorsa estate quando partecipò alla prima edizione di Volta la Carta, “fiera letteraria” aquilana della quale ho già ampiamente parlato su queste pagine, facendo proprio riferimento all’incontro con la Daria e alla bella, ma proprio bella figura che abbiamo fatto noi aquilani (ne facciamo in tante occasioni, ma in quella in particolare).
Per rispondere a Utente Curioso cominciamo dalla trasmissione da lei magistralmente condotta, Le invasioni barbariche, che sul sito saluta gli aficionados e dà appuntamento alla prossima edizione (edizioni che mi pare durino sempre meno; temo che la prossima partirà e si esaurirà in un’unica puntata). Il fatto è che Daria c’ha da fare. Da quando è diventata pure scrittrice, è tutta lei. Nell’attesa di rivederla in TV rassicuro Utente Curioso che potrà comunque assumere la sua dose di Bignardite quotidiana recandosi in libreria e acquistando ‘Non vi lascerò orfani’ prima, ‘Un karma pesante’ poi, e leggerne 2 o 3 facciate nei tempi e nei momenti della giornata che preferisce e che non sto qui a specificare. Il Barbablog, che lei aggiorna con una frequenza rassicurante, resta una valida alternativa; la sua rubrica su Vanity Fair, che poteva intitolare Barbablog_copia, una certezza. Quindi stai tranquillo Utente Curioso, che Daria sta bene. Alle brutte facciamo un bell’appello alla Sciarelli di Chi l’ha visto e la ritroviamo in un batter d’occhio.
Prossima domanda:

Che discorsi fanno i black bloc?

Bella pure questa (ma bella bella, come la figura fatta con la fiera, ma non rivanghiamo ulteriormente). Ne ignoriamo l’identità celata dai passamontagna, figuriamoci i discorsi. A sostegno del difficile compito di risponderti, carissimo Utente Curioso, arriva la testimonianza della signora Cesara che si trovava a passeggio, in compagnia del suo piccolo Carlino con l’asma cronica, l’amoredellamamma lo chiama, proprio nella zona della loro pacifica esibizione dell’altro giorno. Fra un lancio di fiori e uno di coriandoli, li ha sentiti disquisire di mele cotte: l’ultima ricetta proposta dalla Parodi che, dopo lo sfratto subìto da Italia1, ha dovuto trasferire la sua cucina su La7 e le sue pubblicazioni su Rizzoli (il potere dei dindi sonanti); di quanta acqua vogliono le gardenie secondo Serena Dandini che, sfrattata pure lei da Rai2, s’è data al giardinaggio: ha seminato 4 o 5 suoi brillocchi acquistati con anni di fatiche televisive e ha scoperto che Dai diamanti non nasce niente; dell’efficacia della nuova formula di Stira e ammira con amido di mais: adesso scacciare le terribili pieghe sulle camicie, che i signori in nero indossano per le riunioni di gala tipo appunto quella romana, è più facile e la stiratura diventa un piacere; dell’efficacia dei nani da giardino contro la malasorte casalinga.
Più o meno son questi i discorsi dei black bloc.
Terza domanda:

Un abbraccio vuole l’apostrofo?

Utente Curioso, ti prego di concedermi un paio di ore per riprendermi dalla solita paralisi facciale che mi acchiappa allorquando, per una casuale sventura che ama divertirsi con me, mi imbatto in una qualsivoglia forma di vita che testimonia (se ancora ce ne fosse bisogno) l’aumento galoppante del tasso di analfabetizzazione del pianeta. Un abbraccio, che tu (per fortuna) nella ricerca hai digitato senza apostrofo, non vuole l’apostrofo. Per la motivazione di tale scelta grammaticale puoi far riferimento alla storia del maschio e della femmina che fanno cose; se per te è motivo di turbamento, va bene anche quella dell’ape e di quello che fa col polline, di fiore in fiore.
Un consiglio. La prossima volta che ti assale il dubbio, affidati ai cassetti della memoria che da qualche parte tutti noi possediamo e di cui Gerry Scotti è accanito sostenitore. Si tratta di piccoli spazi cerebrali nei quali, in un momento non ben distinto della nostra vita, riponiamo anche inconsapevolmente alcune informazioni delle quali poi ci dimentichiamo. A distanza di anni, quando ne abbiamo bisogno, tornano a galla attraverso un illogico istinto: il cassetto si apre e ci fornisce la risposta; è così e non sappiamo perché. Tu l’hai aperto nel momento stesso in cui hai posto a Google il tuo interrogativo. Lo dimostra il fatto di aver scritto un abbraccio senza l’apostrofo (almeno in quest’occasione, grazie a Dio). La prossima volta aprili ‘sti benedetti cassettini e solo quando non avrai trovato nulla, ma proprio tabula rasa, allora, se non ce la fai a resistere, domanda. Eviterai così figure barbine, o almeno le limiterai ecco.

E datecela una buona notizia!

Sono giorni (va be’, diciamo giorni) di cattive notizie. Qualcuno mi dica se sta andando davvero tutto storto oppure se è il solito amore incondizionato da parte dei media per le tragedie. Magari capitano tante cose belle in Italia e nel mondo, ma non lo sapremo mai perché nessuno ce ne rende partecipi. Io dico che una buona notizia ogni tanto ci farebbe bene, se non altro al morale che potrebbe persino arrivare a sperare nelle possibilità della vita. Mica ci si può svegliare la mattina, sbadigliare e subito chiedersi: Di quale catastrofe oggi sarò messo al corrente? Quale vicino o lontano mi sentirò di compatire?
Pertanto invito i TG a:
– Raccontare della nascita di un bambino (che non sia la figlia di Carla Bruni che l’abbiamo capito che ha partorito, grazie).
– Fare un collegamento dall’abitazione di una famiglia che potrà estinguere il mutuo perché il marito ha trovato un lavoro fisso e festeggia sorridente a cena con tutti.
– Documentare i meravigliosi fuochi d’artificio siciliani, al momento di inspiegabile natura. (Ah, non erano fuochi d’artificio quelli… ma c’entra l’Etna per caso?)
E invece no. Ecco le notizie all’ordine del giorno:
– Cosima ha detto al giudice che al momento del delitto dormiva in camera sua e accanto a lei dormiva Sabrina (e i loro cellulari dormivano in garage, certo).
– Simoncelli è morto pure oggi. Alla faccia di chi sostiene che nella vita si vive (e quindi anche muore) una volta sola.
– In Turchia ha fatto un terremoto di 6.6, ma pare sia 7 punto qualcosa, però loro dicono 6, che ha provocato la morte di 200 barra 2mila persone.
– Il fratello di Madonna chiede l’elemosina sotto i ponti di Londra. (Prendi gli spiccioli che hai raccolto e usali per acquistare un biglietto aereo di sola andata per l’Italia che qui siam pronti a ricoprirti d’oro. Ti aspettiamo!)
– Malasanità, casi in aumento. Nell’ultimo anno 329 decessi dovuti a errori.
E via dicendo.
Perché, oh signori tele-giornalisti, non ci raccontate la storia di un bravo medico che ha salvato una persona in fin di vita? Perché, oh signori della televisione, non ci raccontate la storia di un disperso ritrovato sotto le macerie e salvato? Perché, o signori dell’informazione, non ci date un po’ di quella sana speranza che convince a insistere nel voler fare poche cose, ma buone nella vita?
Quando muore qualcuno sono tutti scioccati. Prendiamo Simoncelli. Capirei se un passante avesse tirato fuori dal taschino della giacca una pistola e gli avesse sparato, ma così non è stato. Sono ragazzi dalle belle facce fresche e sorridenti, ci affezioniamo perché sono simpatici, sprintosi, tirano fuori la lingua davanti alle telecamere e fanno le fumate bianche alla fine delle gare. E sono motociclisti, che vanno a 300 chilometri orari a cavallo di bestie di 250 chili. Noi possiamo pure dimenticarcelo, ma loro no. Non succede (quasi) mai di lasciarci la pelle, ma può capitare. Questa eventualità rara e terribile loro ce l’hanno stampata in testa ogni metro di strada che divorano, a pochi centimetri dalle moto dei loro compagni e avversari, spesso amici.  Sulla caduta di Simoncelli ne ho sentite di tutti i colori. Valentino Rossi che smette, Valentino Rossi che non smette, Valentino Rossi incolpato di omicidio. Quel tal giornale che ha dedicato la prima pagina a Simoncelli e non al terremoto in Turchia; quell’altro solo mezzo trafiletto e un altro ancora 25 pagine, con la ricostruzione al fotofinish dell’incidente, ma non ha riportato la dichiarazione dell’estetista, amica di Sabrina, convinta che non sarebbe mai stata capace di un gesto del genere.
Mi è capitato quello che di solito mi capita: il disinteresse assoluto per la notizia, che lascia spazio a considerazioni correlate e a un mucchio di interrogativi selvaggi.
– Esiste una classifica del dolore provocato da una o cento morti?
– Un dolore merita notorietà più di un altro? Quali sono le caratteristiche di una classica morte da prima pagina?
– Quale morte merita i riflettori: quella di Simoncelli, quella di centinaia di anonimi turchi, quella di Sarah Scazzi, quella di un ragazzo aquilano che è morto dopo 2 giorni di coma per aver inghiottito delle alici contaminate in un rinomato ristorante di pesce della costa abruzzese, (del quale non si è parlato neppure sui giornali locali)?
E se per una volta, in copertina, mettessimo la fotografia per esempio di Queen, il pastore tedesco che si è fatto tutto il bosco a perdifiato per attirare l’attenzione dei soccorritori sulla sua padrona punta da 2 vespe, ormai in stato comatoso con difficoltà respiratorie? Non è una bella storia questa?

[V.5] Weekbook. La mia prima volta

Spesso mi domandano cosa ne penso della pubblicazione fai da te. (Arretra Satana!) Delle differenze fra un libro pubblicato da un editore che investe i propri soldi e un libro stampato coi soldi dell’autore. (Non è un caso il diverso utilizzo dei termini pubblicato e stampato.) Ho provato a spiegarlo brevemente in questa piccola intervista di Pamela Serafino, che ringrazio per l’interessamento. Se ne potrebbero scrivere tomi enciclopedici sull’argomento, con tanto di elenchi degli editori amici del Maligno e di quelli bravi bravi, che rimandiamo a un’altra occasione.

Beh, è un po’ come chiedersi che differenza c’è fra la cacca e la cioccolata.

Come al solito mi distinguo per la mia raffinatezza planetaria, ehm. Nell’intervista parliamo anche della mia prima volta (non fate i maliziosi, che non è quella prima volta che intendevo), degli sforzi che l’autore dovrebbe fare per contribuire alla promozione del libro, con tanto di personalissima chicca finale su come sconfiggere il panico da presentazione (pubblicità occulta inclusa) e, come al solito, di emoziòòòni, emoziòòòni ed… emoziòòòni!
Ditemi che ne pensate. Passate una buona domenica.
[Mamma che grigiume fuori!]

[V] Weekbook. ‘Troppa fortuna’ nella Ibby Honour List 2012

Quando capitano di queste belle cose bisogna festeggiare a spritz per settimane. Notiziola fresca fresca che mi fa felice e che voglio condividere con voi. ‘Troppa fortuna’ piccolo capolavoro di Hélène Vignal, tradotto da Mirella Piacentini e portato in Italia dalle edizioni Camelopardus, è stato selezionato per rappresentare l’Italia nella IBBY Honour List 2012, nella categoria “miglior opera tradotta”. Significa che entrerà a far parte di una mostra itinerante che girerà tutto il mondo fino a raggiungere la Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna nel 2013. Questa candidatura coglie tutti di sorpresa in casa editrice, ancor di più alla luce del fatto che i precedenti candidati son sempre stati grossi editori (Giunti, Feltrinelli, Fabbri).
La gentile signora che ci ha telefonato ha concluso dicendo: “Complimenti, avete fatto un ottimo lavoro” scrive l’editrice sul blog.
Io l’ho letto ancor prima che venisse pubblicato e ho immediatamente colto la potenza di questa storia, perché ne sono stato investito come da un uragano. La voce narrante è quella della bimba protagonista che condivide col lettore le sue giornate apparentemente normali assieme ai suoi genitori spesso assenti, fatte di scuola, 2 cagnolini, un uccellino, la cotta per l’amico Matthieu. Loro però non sono come gli altri, la gente comune di questo piccolo paese della Francia, che pare “un po’ addormentata”, inteso come il contrario di intelligente. Loro sono fortunati, forse troppo perché hanno Maurice Lepoivre a occuparsi della loro formazione. Trascorrono i weekend nella sua “grande casa”, nella quale fanno esercizi come strappare le erbacce o raccogliere ciliegie senza mangiarne una, mentre fuori la gente comune ride, gioca con i giocattoli proibiti da Lepoivre, parla ad alta voce e perde il proprio tempo. Racconta come solo i bambini sanno fare, senza capire la ferocia di quanto accade alla sua famiglia, neppure quando Lepoivre comincia a mostrare attenzioni per i ragazzini, separandoli dagli adulti del gruppo. Gli riserva una casetta fatta costruire apposta per guardarli mentre fanno il bagno o baciarli sulla bocca. Nessuno deve sapere della grande casa, perché la fortuna è così, capita a pochi. Devono star zitti e tenere il segreto altrimenti perderebbero Lepoivre, la sua protezione, l’amore, gli insegnamenti che li renderanno speciali, dice lui.

In paese c’è una grande casa, dietro i muri alti. Per entrare, bisogna far passare la mano in uno sportellino, nel portone di fronte alla drogheria, e tirare la levetta. È un passaggio segreto, per gente non comune, come noi. È proibito dire agli altri quello che succede dietro questi muri alti. Anche se è qualcuno di famiglia, anche se hai troppa voglia di farlo.

Esperienze che nessuno, soprattutto se bambino, dovrebbe vivere mai. Parte dal vissuto dell’autrice, che ci apre gli occhi sulla pericolosità delle sette, realtà purtroppo ancora così diffusa in tutto il mondo, e le porte sul suo passato di bambina “troppo fortunata”. Hélène Vignal fa fatica a commentare questo libro che per lei rappresenta il diario del dolore adolescenziale, unico fra i suoi successi letterari del quale raramente parla perché radicato nel buco nero dei ricordi.
Tantissimi complimenti a Mirella Piacentini che ha saputo dar voce alla piccola protagonista di questa storia delicata, drammatica e lacerante, lasciando a lei la parola, senza mai intervenire, portando a termine con successo il difficile compito che le traduzioni presentano. A Giovanni Nori per la copertina e le altre illustrazioni che mi piacciono tantissimo e piacciono alle mie emozioni, visti i brividini che non sono colpa del freddo. E a Sara, la mia editrice, che non ne toppa una e, nonostante tutte le difficoltà, continua a insistere nel lavoro di qualità, a investire seriamente nei progetti in cui crede, portandoli avanti con determinazione e con tutta la fatica che comporta lavorare h24.
Quel che sta accadendo a ‘Troppa fortuna’ è la dimostrazione che le piccole perle, per quanto non spinte dagli strilloni pubblicitari tipici dei mastodontici gruppi editoriali, passano di mano in mano e raggiungono luoghi impensati. È la dimostrazione che le intemperie, la siccità, i corvi nemici non possono far fuori tutti i buoni semi. Qualcuno ce la fa per forza a spuntare, a sopravvivere, a crescere e dà vita a frutti gustosissimi che adesso è il momento di assaporare.
Vi segnalo la scheda, qualora voleste acquistarlo su internet (costa poco e ne vale veramente la pena). E il booktrailer… che colonna sonora ragazzi!

[Madre e Canalino]

Il signor sindaco Ale Magno I ieri ha chiesto lo stato di emergenza e calamità per la Capitale, colpita da violente tempeste d’acqua e vento che spingevano i pali della luce sulle automobili, che si ribaltavano e facevano ruzzolare le persone nelle pozzanghere, che le inghiottivano come mari profondissimi. I loro cari, devastati dalle ricerche senza risultati – d’altra parte a chi verrebbe in mente di cercare un parente scomparso dentro a una pozzanghera? – si attaccavano ai numeri di telefono di emergenza e Ale Magno I non ce la poteva fare a rispondere a più di una telefonata per volta. Molte sono le storie di umana disperazione. Cito quella più toccante. Protagonista il noto conduttore Marco Liorni anche conosciuto come il portinaio del Grande Fratello, bloccato nella stazione della metropolitana a sua volta bloccata, che non ha potuto raggiungere in tempo la sede di RDS. Pensate al dramma della Pettinelli che ha dovuto continuare la trasmissione a oltranza. L’alimentari all’angolo ha chiuso e non ha potuto fare la spesa. Chissà se glieli pagano gli straordinari, mannaggia questa Italia. Secondo me è colpa dei black bloc, altro che pioggia e vento. Che la polizia esca in massa a farsi incendiare le camionette, i-m-m-e-d-i-a-t-a-m-e-n-t-e!
Anche qua a L’Aquila non è che sia proprio estate, questa meravigliosa estate che sembra non finire mai… sembra! (Che caldo! Muoio dal caldo! Non ce la faccio più con questo caldo!) Ecco, adesso è finita, contenti? Ieri mi son svegliato col terrore che l’America ci stesse bombardando per vendicarsi dei maltrattamenti subiti (?) da Amanda Knox e invece erano i tuoni.
Il diluvio universale non sembrava poter impedire a Madre di portare a termine i suoi programmi giornalieri. Madre è una donna estremamente pragmatica e pretende i miei turni con settimane d’anticipo per fissare pranzi, cene, uscite, shopping, visite mediche, spesa giornaliera, lavoretti di manutenzione, telefonate da ricevere e bollette da pagare, tutto in funzione dei miei orari di lavoro. Se per un qualsivoglia motivo, che dipenda o no da una mia decisione, qualcosa non va come vergato settimane prima sul post-it sul frigorifero, la sua ira raggiunge vertici disumani. Nulla la fa più arrabbiare di un programma elaborato da lei medesima che salta, perché poi in qualche modo bisognerà recuperarlo e questo comporterà l’annullamento di qualcos’altro, e via dicendo verso un domani incompiuto.
Perciò non si poteva assolutamente rinviare la riparazione della canàla che gli operai hanno danneggiato durante le passeggiate che si son fatti sul tetto per i lavoretti di ristrutturazione post-terremoto. Una microscopica parte mancante che ora fa sì che, quando piove, l’acqua invece che incanalarsi, appunto, generi una specie di Niagara nel piazzale. Oltre che dar vita a un’immagine al limite del comico, che ispira la derisione dei vicini, e questo Madre non può proprio sopportarlo, Iker-cane si mette paura: piange e trema. Allora bisogna intervenire subito, pure se tutti i santi del mondo si sono messi d’accordo per pisciare in una commovente sincronia olimpica sull’intero territorio nazionale.
Madre: “Telefona a Canalino e digli che deve venire a sistemare la canala oggi.”
“Ma’, sta diluviando e a Roma c’è lo stato di Calamità!”
Madre: “Mica stiamo a Roma. Oggi diluvia, domani un’altra cosa e la canala non l’aggiusteremo mai. Sei un menefreghista!”
“Va be’ lo chiamo, per carità!” (Quando comincia non la finisce più.)
Ho dovuto cambiare stanza e dare fondo a tutte le paroline dolci che conosco per convincere quel povero disgraziato di Canalino, riconosciuto esperto mondiale in canale, a venire mentre fuori imperversava l’uragano. Canalino si porta dietro un gigantesco mezzo di trasporto con una scala elevatrice, insomma quelle robe che salgono in cima su su e ancora più su. Fa quello che viene universalmente definito: un appiccico con tonnellate di silicone. Scende e si prende il caffè gentilmente offerto da Madre che, fra una zolletta di zucchero e un sorsetto bollente, indaga sulla effettiva riuscita del lavoro.
“C’ho messo il silicone signò…”
Alla parola silicone gli occhi di Madre si colorano di fuoco satanico. Lui continua: “… mo’ vediamo se regge, se no cambiamo il pezzo.”
Madre: “Va bene, grazie molte.”
Non credo alle mie orecchie. Madre ringrazia e saluta nonostante la furia che la pervade. Fosse per lei il silicone non esisterebbe, lo dichiarerebbe pericoloso tanto quanto l’amianto. Lo definisce il cortisone dei medici; fa fare bella figura a tutti, ma non risolve niente. Comunque soprassiede e accompagna Canalino alla porta e poi segue dal vetro della finestra la sua uscita di scena che non va proprio come dovrebbe. Infatti Canalino, alla guida del suo gigantesco dinosauro con le ruote, avvia la manovra lento e costante verso il cancello elettrico aperto. [Brum Brum] Tutto sembra andare per il verso giusto. Madre alla finestra cerca di sopportare lo shock silicone, ancora bruciante. Il mostro motorizzato, pilotato da Canalino, è appena a metà quando all’improvviso la luce sulla colonnina del cancello comincia a lampeggiare e il cancello a chiudersi, inesorabile. Neppure la corsa di Madre verso il piazzale riesce a impedire all’inferriata di abbattersi contro il camioncione di Canalino. [Budubum!]
Ne consegue che:
– Il nostro cancello non è più elettrico e per tenerlo chiuso dobbiamo far uso di una catena con lucchetto.
– La fiancata del veicolo di Canalino riporta evidenti segni di colluttazione.
– Canalino è arrabbiato.
– Madre furibonda.
Lo scontro finale
“Signò ‘sto cancello mi sa che si chiude un po’ troppo presto.”
“Si chiude quando si deve chiudere e lei me l’ha spaccato.”
“Ma che t’ho spaccato, è il cancello che mi ha tamponato!”
“Certo… se va in giro con questi bisonti di ferro. Non è che il cancello sta ad aspettare lei che esce!”
“Il bisonte, come dici tu signò, mi è servito a salire sul tetto, che tu non resistevi se ‘sta cazzo di canala non la aggiustavi oggi. Vero?!”
“Magari l’avesse aggiustata! Guardi là, lei che parla tanto!”
Quella che mi ricorda la cascatella di Bambi prima che mamma cerbiatta lo abbandonasse, precipita dalla cima della canala che non incanàla un bel niente, Iker la guarda e guaisce. Il silicone non ha retto.
“Allora… la canala non l’ha aggiustata, mi ha sfondato il cancello e mi fa pure piangere il cane. Mi dica un po’ che cosa è venuto a fare!”
Dopo l’intervento di Rita Dalla Chiesa si è giunti a una pacificazione formale che prevede il ritorno di Canalino in un tempo non ben stabilito; in quell’occasione sistemerà cancello e canala.
E il camion mostruoso?
“Fatti suoi” mi risponde Madre. “Lo sanno tutti che un cancello elettrico a un certo momento si chiude. Mica glielo devo spiegare io.”
“Sì, ma quel momento si poteva rinviare, bloccandolo mentre usciva Canalino.”
“Pure lui mi poteva bloccare la canala, che c’entra.”

La normalità aquilana, con l’apostrofo però e tutto attaccato

Ieri sera, poco dopo le 11, un’altra scossetta ha fatto tremare il didietro agli aquilani. L’avrete sentito al TG di Rai1 e forse anche in altri, a seconda di quanto accade nel mondo e del grado di berlusconismo rilevato nel plasma di chi prepara i telegiornali al momento della scelta delle notizie da dare. In sostanza parlano dell’Aquila quando non sanno di che altra ceppa parlare. L’intensità registrata è di 3.3 e l’epicentro è ovviamente sotto casa mia. Non si capisce perché l’epicentro delle ultime 50mila scosse si localizza in un’area rettangolare di 500 metri quadrati al cui incrocio delle diagonali si piazza casa mia. Per fortuna a quell’ora mi trovavo dall’altra parte della città preso da faccende che mi hanno impedito di avvertirla a pieno, perché esse stesse piuttosto movimentate, e delle quali tacerò ulteriori specificazioni. Il corsivo è dovuto all’idea di città che ho io e mi sento di dire appartenente a chiunque, che non corrisponde nemmeno un po’ a quello che è L’Aquila da 2 anni e mezzo a questa parte, né a quello che sarà nei prossimi 100(mila) secoli. L’ottimismo c’entra poco. Io a L’Aquila ci vivo e lo so. Lo vedo tutti i giorni quello che fanno, o meglio dovrei dire: quello che non fanno per questa città. Per colpa di chi, per colpa di cosa, per colpa delle tasche piene di banconote, m’interessa relativamente, però mi scoccia quando sento dire che a L’Aquila è tornato tutto alla normalità.
Ma quale normalità?!  L’anormalità, forse.
Veniteci a vivere voi in questa sottospecie di Bronx di alcolizzati che non sanno più che inventarsi per vedere le loro giornate arrivare al tramonto e allora bevono e si drogano e si menano per le strade. Io esco poco e niente, perché qua i motivi per uscire te li fanno passare. La mia vita è piena zeppa di diversivi, opportunità, voci amate che la riempiono; fosse stato solo per la città, mi sarei sparato un colpo in testa da un bel pezzo.
Comunque, per rassicurare coloro i quali guardano la televisione e si allarmano, ieri sera tutto sotto controllo. 3.3 si avverte bene, ma non fa rotolar giù neppure una biglia da una mensolina.
Però ne parlano i TG. Dei 4 mesi di scosse in alcuni casi molto più intense, non se ne parlava. Quello pure era normale, anzi eravamo arrivati al punto di credere che fosse una gran fortuna. Qualche esperto ribadiva continuamente, con parole sempre diverse, ma il concetto non cambiava di una virgola: “Meglio che sfoga in un tempo lungo che in una botta unica”. Che culo eh?!
Peccato che non fosse quello il significato degli strani mesi, dei quali mi è rimasta in mente soprattutto la sensazione di confusione. Nessuno ci capiva niente e noi ci sentivamo rassicurati da stronzate basate su teorie inesistenti. Col senno di poi è facile parlare, so anche questo, ma non ci riesco proprio a lasciar perdere. Ho trovato il modo per liberarmi della rabbia, quella dopo un po’ si scoccia e ci lascia stare, vale per tutti i dolori. Questo però non impedisce alle mie parole di essere affilate come un tempo, perché è come se il tempo si fosse fermato.
Ci ho pensato, a questa cosa del tempo immobile, qualche settimana fa. Camminavo su una strada male illuminata per arrivare su un’altra dove avevo parcheggiato. Pensavo alla cena, a cosa potevo inventarmi a quell’ora in cui quasi tutta l’umanità europea era a letto e il mio stomaco non vedeva l’ombra di qualcosa di commestibile dall’una del pranzo. Fra quei pensieri irrilevanti, che potevano essere anche altri, non sarebbe cambiato nulla, ho visto un grande orologio sulla facciata di un palazzo rosso dalla vernice che sapeva di nuovo, evidentemente ristrutturato da poco. 2 gigantesche lancette di metallo segnavano un’ora: 3 e 32. L’ora in cui la notte del 6 aprile è finito il (nostro) mondo. Ho pensato che il simbolo voluto dal proprietario del palazzo per non dimenticare il grande dolore, avesse regione.
Quell’orologio funziona benissimo: segna l’ora in cui sopravviviamo paralizzati da oltre 30 mesi.

Le prove della colpevolezza di Amanda Knox e Raffaele Sollecito

Luigi ha lasciato un commento interessante al post che ho scritto il giorno dopo la sentenza più discussa del momento, quella che vede protagonisti Amanda Knox e… Amanda Knox (ho dimenticato qualcuno?). Ve lo segnalo perché si tratta di un intervento molto dettagliato che può essere utile a tutti coloro che sono alla ricerca di elementi a sostegno delle proprie tesi, soprattutto ai colpevolisti considerato quanto Luigi fa emergere. Si discute delle famose prove che ci sono e non ci sono, più che sufficienti a condannarli in primo grado, poi smontate. Davvero quei 2 sono estranei al delitto? Sembrerebbe proprio di no… Leggete con attenzione il commento di Luigi che ho riportato nella sua interezza, così come lui l’ha inviato.

A me sembra un semplice errore giudiziario, quello di appello non quello di primo grado. Difficile dire da cosa sia motivato, forse solo pressione mediatica, ma ritengo che la sentenza di appello sara’ molto difficile da motivare e che verra’ probabilmente ribaltata in Cassazione (o rinviata a nuovo processo). La sentenza di primo grado (che ho letto) conteneva motivazioni molto solide e convincenti in oltre 400 pagine e dovra’ essere smontata… lavoro complicato visto che e’ sostanzialmente confermata da 3 altre sentenze tra cui una di cassazione (Guede). La “famosa” perizia (che ho letto) non ha negato che i profili di DNA fossero su coltello e gancetto (cosa ammessa anche dai due periti in aula … chissa’ perche’ nessuno lo dice) ma solo ipotizzato contaminazione che pero’ deve essere provata (il fatto dell’amido e’ irrilevante). Quindi non e’ cosi decisiva come sembra … i difensori lo vogliono far pensare, e’ il loro lavoro. Il profilo di Sollecito sul gancetto c’era e quello di Meredith sulla lama pure (anche se quest’ultimo era un cd low copy, bassa quantita’, e’ accettabile nei tribunali di molti paesi ed anche in Italia). La discussione vi fu anche in primo grado su questo punto della contaminazione e non venne provata bensi’ esclusa. Tale perizia non ha escluso o modificato altre prove scientifiche come il sangue/DNA misto di Amanda e della vittima in tre punti del bagno (incl. un cottonfioc) – quando la stessa Amanda sostiene che non c’era sangue nel bagno il giorno prima – ed il DNA misto di Amanda e Meredith in orme di piede nudo compatibili con Amanda trovate col luminol, sangue di Meredith in orma compatibile col Sollecito (nessuna di queste orme compatibili con Guede che ha lasciato orme di scarpe), le numerose prove di presenza di altri assassini oltre a Guede e altre prove non scientifiche, a cominciare dalle ripetute bugie dei due … indicative di una ricostruzione completamente falsa degli eventi, il fatto che Guede sostiene i due fossero nella casa (e non lo ha detto 2 anni dopo come molti sostengono ma pochi giorni dopo il suo arresto), le testimonianze della sigra Nara Capezzali, del Quintavalle, del Curatolo, della sigra Monacchia, della polizia postale e dei coinquilini, le prove di computer e telefonini che dimostrano le loro menzogne in ordine all’orario della cena ed il giorno dopo la loro sveglia alle 5.30am e non piu’ tardi come dichiarato, le contraddizioni in ordine a cio’ che trovarono nella casa, la dichiarazione di Amanda alla madre “io c’ero” e alla polizia, al PM e nei memoriali che lei c’era ed era stato Patrick, mezza menzogna visto che un uomo di colore c’era. Manca solo la foto che lei fosse in quella casa. Le sentenze di primo grado appello e Cassazione su Guede confermano che non uccise da solo e la presenza di terzi, non essendo stata trovata traccia di altri mentre ci sono tracce dei due, e’ ipotesi che non tiene. Perche’ i terzi avrebbero dovuto simulare un furto o camminare scalzi o pulire bagno e camere e corridoio che infatti furono sommariamente lavati come si capisce da molti elementi tra cui le strisciate di acqua e sangue rimaste sugli interni delle porte lavate?

Chiunque volesse approfondire la faccenda (direi che per quanto riguarda me siamo andati pure troppo oltre) Luigi invita a leggere le carte del processo tutte rintracciabili in rete. Nel commento successivo a quello che ho riportato, sempre sotto lo stesso post, indica quali.
Non dovrebbe mai capitare che i processi finiscano in un nebbioso mare di interrogativi. Questo è a mio avviso il punto dolente della faccenda: la non-chiarezza, il dolore della famiglia della vittima che non ha modo di aggrapparsi a nulla, che non trova una risposta alla domanda: Chi ha ucciso Meredith? È evidente che quella fornita dal tribunale non soddisfa, al contrario alimenta i sospetti (e fa anche un po’ ridere).
Certo è che, qualora fossero davvero innocenti, nessuna cifra potrà mai risarcirli di 4 anni di detenzione (per i quali entrambi hanno già ricevuto 850mila euro), neppure i 5 milioni di dollari che Amanda percepirà per i diritti editoriali dei diari che ha scritto in galera. No, la sofferenza non può essere stimata… quanti?! Oh porca zozzetta!

Gli aquilani più pericolosi dei black bloc

Le immagini di Roma devastata dagli incappucciati mi hanno fatto pensare. Pensieri superficiali, poco informati. Pensieri a sensazione. Ho visto gente tentare di dire senza far male, manifestare dissenso, voglia di cambiamento in modo civile. Quella gente dovremmo essere noi che, come dice Madre, non avremo neanche una pensione. Ho visto pochi barbari rovinare tutto, come al solito.
Mi ha riportato alla mente la protesta organizzata dagli aquilani a Roma, soltanto per dire che no, non ce la facciamo a restituire le tasse con le modalità previste dal governo. Mica siamo andati lì a lanciare bombe. Per quanto mi risulta nemmeno armati, sempre che voci, striscioni e megafoni non debbano essere considerati pericolosi ordigni da disinnescare. Eppure all’improvviso 4 poliziotti deficienti hanno preso a tirar mazzate con quei loro manganelli del piffero che io gli infilerei su per una parte anatomica con un buco elastico adatto allo scopo. Quelli che chiamano manifestanti che pare tanto simile a hooligans, erano e sono soltanto ragazzi per la maggior parte neanche trentenni, in qualche caso appena maggiorenni, che amano la loro città martoriata, la difendono dall’indifferenza e dall’ingiustizia, vogliono dare una speranza ai loro concittadini che non ci credono più che ci rialzeremo da questa botta, perché non ci aiutano, né da lontano né da vicino, intendiamoci. La nostra amministrazione sta diventando una barzelletta internazionale, ma questo è un altro discorso. Eppure nessuno ne ha parlato di quei 4 deficienti in divisa blu. O meglio, ne hanno scritto, fotografato le facce insanguinate degli aquilani bastonati, ma come per dire: Li abbiamo messi a tacere. Che credevano di fare ‘sti poveri terremotati sfigati a Roma?
Niente, in effetti. Volevamo solo dire che no, non ce la facciamo a restituire i soldi che non ci hanno regalato, come molti pensano, ma solo prestato e che adesso ci richiedono pretendendoli tutti assieme o quasi, sommati a quelli che abbiamo ripreso a pagare come tutti. Quindi diventa normale che arrivino bollette di 1000 e passa euro, capite? Comunque pericolosità della nostra manifestazione direi vicina allo zero.
Di oltre 500 black bloc “in tenuta da guerriglia a scatenare la violenza a colpi di spranghe” non se n’era accorto nessuno finché non si sono messi a sfasciare le vetrine e a gettare molotov nelle abitazioni. I poliziotti non sono riusciti a fare molto se non a evitare il morto, facciamogli un applauso! I giornali e le tv gridano allo scandalo (giustamente!), all’inciviltà (giustamente!), all’indignazione (giustamente!), alla mancata libertà di espressione e pensiero pacifico (giustamente eh!). Sì, molto molto giustamente. Però. Perché, se a bastonare la folla è la polizia con la stessa tenuta da guerriglia, al massimo dalle fattezze un po’ più eleganti, allora i violenti sono gli altri, per esempio gli aquilani, 2 dei quali, fra l’altro, sono stati persino denunciati?
Certo che la violenza la condanno sempre e comunque, ma voglio andare oltre, se no è un discorso troppo facile. Voglio riflettere sulla differenza di valore e interpretazione della stessa violenza che, come ho scritto 3 righe più su, dovrebbe essere tutta ugualmente condannata. Così come dovremmo essere tutti uguali davanti alla legge, ma qualcuno è sempre un po’ più uguale degli altri, allo stesso modo persino la violenza, che arriva agli occhi con una chiarezza abbagliante, riusciamo a vederla diversamente da quel che è, stravolgere le cose al punto di (far finta di) confondere protagonisti e gregari, vittime e carnefici.
Mi spiace che ancora una volta sia stata tappata la bocca a un pensiero che meritava la voce e che si proponeva semplicemente di dire. Per farlo, naturalmente, ci son volute le mazzate. È complicato se non impossibile bloccare una voce di giustizia con un’altra voce e basta. Non esiste una voce che possa avere la meglio su una voce di giustizia. Sarebbe una guerra ad armi pari persa in partenza. A noi essi umani le guerre ad armi pari non sono mai piaciute, quel che importa è avere la meglio, costi quel che costi. Un tempo erano i barbari, adesso si chiamano black bloc, polizia, manifestanti… Per quanto ci illudiamo è cambiato poco.
I Romani chiamavano barbari tutti quei popoli che vivevano al di fuori dei loro confini, questi popoli venivano considerati incivili e rozzi. Oltre il Reno c’erano i Vandali, i Franchi e i Burgundi. Oltre il Danubio c’erano i Visigoti, gli Unni e gli Ostrogoti. In Abruzzo gli Aquilani. Ai Romani però sfugge un piccolo dettaglio, che loro i black bloc ce l’hanno in casa propria, perché questi non è che siano venuti da chissà dove, no. Erano tutti romani, molto più che incivili e rozzi. Disumani, vergognosi, schifosi, indegni con fra le fila il signor Travaglio che li giustifica in nome di un ridicolo diritto all’odio.