L’Aquila – Ma quale fiore dall’asfalto?!

Nove persone fra progettisti, collaudatori, direttori di cantiere e direttori dei lavori sono state raggiunte da avvisi di garanzia emessi dalla Procura della repubblica dell’Aquila, per il crollo della sede della facoltà di Ingegneria nella frazione di Roio. L’ipotesi di reato è: disastro colposo.
“Nella facoltà di Ingegneria è crollata una parete che avrebbe potuto costituire, se a quell’ora fossero stati presenti studenti, un rischio di morte per duemila persone.”
È questa, secondo il procuratore della repubblica dell’Aquila, Alfredo Rossini, una delle ragioni principali per cui sono stati emessi gli avvisi di garanzia. I nomi e le responsabilità di queste persone sono e devono essere pubblicamente detti. Mauro Irti, direttore del cantiere e rappresentante della Irti Costruzioni, impresa poi fallita, che faceva parte dell’Ati (associazione temporanea di imprese) che ha realizzato l’opera; Alessandro Fracassi e Carmine Benedetto, anche loro direttori di cantiere; Gianludovico Rolli, Giulio Fioravanti e Massimo Calda, progettisti; Sergio Basile e Giovanni Cecere, collaudatori; Ernesto Papale, direttore dei lavori. Complessivamente, nell’ambito dei primi tre filoni della maxi inchiesta sul terremoto di aprile, sono 26 le persone raggiunte da avvisi di garanzia. Oltre all’Università, i filoni riguardano la Casa dello Studente e il Convitto nazionale, dove sono morti rispettivamente otto e tre giovani. In questi ultimi due filoni i capi di imputazione contestati sono omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose.
Penso a quel numero spropositato. Duemila solo a Ingegneria. Il terremoto è stato benevolo. Sarebbero bastate poche ore in più, sarebbe bastato il sole del lunedì a trasformare quella che certamente è stata una tragedia dolorosissima in una vera ecatombe dalle dimensioni raccapriccianti. Questa gente deve pagare a caro prezzo le proprie colpe. Intanto per chi la vita ce l’ha lasciata, sotto le macerie, e poi per chi è stato salvato dalla sorte, dall’intervento dei vigili del fuoco o da una circostanza fortunosa, dalla notte. Per chi il giorno dopo sarebbe dovuto andare a lezione, per esempio.
Il 17 ottobre ha riaperto al traffico via XX Settembre, rimasta chiusa per oltre sei mesi. La strada maledetta, quella della Casa dello Studente, la via in cui si è registrato il maggior numero di morti. Io ci sono passato ieri e ho sentito il cuore fermarsi mentre dal finestrino contemplavo la fine di ogni cosa. In quella strada è finito tutto. La distruzione che non si può descrivere. Palazzi interi spariti che aprono la vista a tutto quello che prima stava dietro. E quel maledetto silenzio. L’assenza di persone, l’assenza di corpi che passeggiano chiacchierando per raggiungere il centro, l’assenza di automobili parcheggiate sui bordi della strada, quelle che mi facevano incazzare da matti perché bloccavano il traffico. Ora c’è il vuoto stretto da impalcature e puntellamenti di legno. Il vuoto totale. Non ci sarà il solito fiore a spuntare dall’asfalto, stavolta e in quella strada no. La fine di tutto tranne che del pianto.

FOR

Fuori piove. È  un brusio delicato che fa da sfondo alla fine di tre settimane assordanti e massacranti e pure sconcertanti, giusto per dirne un’altra in anti, in preparazione alla visita della supervisora, mercoledì e giovedì scorso. Il Mc Donald’s è un evidente esempio di realtà in costante collisione con la comune immaginazione. Non biasimo tutti coloro che hanno la ferma convinzione che nella cucina dei Mc Donald’s si consumino le peggiori porcate possibili e immaginabili. Ne ero certo anch’io prima di ritrovarmici invischiato. Qualcuno mi raccontava che nei corridoi dei Mc Donald’s passeggiano topolini più o meno grossi e dalle colorazioni variegate, pure tendenti al nero e con la coda dura. Oppure che i crew (i ragazzi con la maglietta arancione) talvolta sputano sul pane o che, se cade una carne a terra, loro la raccolgono e la rimettono nel panino. Ebbene, la realtà è molto diversa. La realtà è che la pulizia maniacale che vedo quotidianamente ricercare e applicare lì dentro non l’ho vista da nessuna parte. Neanche alla trattoria casereccia in cui lavoravo prima del supermercato in cui lavoravo prima del Mc Donald’s. Non fatevi mai ingannare dalle apparenze di una realtà casalinga, familiare. Solo perché il piatto tipico sono le fettuccine al sugo fatto in casa non significa che i pomodori con cui l’hanno preparato, per esempio, non possano essere stati mezzi marci e usati ugualmente, per dirvi. Il Mc Donald’s è soggetto a una serie di controlli rigidissimi, uno di questi si concretizza nella FOR che sta per Full Operation Review. Due giorni pieni in compagnia della suddetta supervisora, questa ragazza dall’apparenza amicale e dalla sostanza spietata che controlla ogni minima cosa. Ogni significa tutto, tutti, tutte. A partire dalle scadenze, alle procedure per rimuovere la carne o per salare il filetto, per passare alla pulizia del locale e pulizia non è uno sguardo così, andante e superficiale. No, lei indossa un guantino candido e lo passa sotto le superfici più impensate. Gli angoli più interni, nascosti e irraggiungibili lei li raggiunge, verifica se c’è anche solo un leggerissimo velo di polvere e sottrae punti al risultato finale. Poi prende i tempi di servizio. Il cliente non può aspettare troppo e allora è tutta una corsa con gli occhi di lei che si dividono fra le tue mani e il cronometro. Ci sono volute tre settimane per dodici ore al giorno: le nove ore del turno più due o tre per dedicarci alle pulizie straordinarie, ad approfondire procedure non chiarissime, a fare in modo che tutto vada bene per superare la visita al meglio. È andata e avrei bisogno di andare pure io, sì, quattro o cinque anni in ferie per riprendermi. Chissà perché penso che la mia vicedirettrice non sarebbe d’accordo, però, per fortuna, una settimanella a metà novembre me la sono guadagnata. È già qualcosa.
E che farò in quella settimana? Forse comincerò a raccogliere il materiale per la tesi che il professore aspetta di vedere da settembre? Manco per niente, ho un racconto da finire (dopo magari averlo iniziato) e da inviare entro metà dicembre, poi c’è Supermarket24 e tutto il suo mondo intorno, che gira ogni giorno e che per un’ora d’amore non so cosa darei. Ah, no quella è un’altra. Sarà un lapsus per via dell’astinenza. Freud c’aveva visto lungo.

Capita a tutti, prima o poi, di ammazzare qualcuno

Ho distrutto la fiancata della di mio padre automobile. Tornavo da Pescara, dal mare, con in tasca tre quarti di spiaggia che poi ho riversato per tutta la casa, giusto per far sentire mia madre in vacanza, lei che il mare non lo vede almeno da nove o dieci anni. Subito una buona notizia: sono vivo. Ero piuttosto stanco, piuttosto significa stanco come un cadavere, però ho deciso di andare ugualmente. Questo perché non penso mai a quei quattro (centomila) capelli bianchi che si moltiplicano sopra le orecchie, riuscendo ancora abbastanza a mimetizzarsi, devo con orgoglio affermare, però ci sono e significano non che sia diventato vecchio, per carità, ma che a ventotto anni, dopo dieci ore di lavoro, quando ti sei svegliato alle cinque perché c’era da aprire alle sei e mezza di mattina, non puoi, caro Matteo, partire e metterti a viaggiare fra strade buie piene di curve e strabenedetti guardrail. Benedetti sì perché, se non ci fosse stato il guardrail, 1. non mi sarei risvegliato, e quando dico che non mi sarei risvegliato intendo per tutti i secoli dei secoli, 2. non avrei rimesso la macchina in carreggiata e 3. sarei finito a rotolare in un crepaccio sperimentando l’eccitante sensazione di un tuffo carpiato fra i sassi, difficoltà 10, e il punto 1. sarebbe stata la naturale conseguenza di tale tuffo. Nell’istante della botta ho riaperto gli occhi e non mi sono più riaddormentato per i successivi tre giorni. In questi casi bisogna elaborare le parole giuste per comunicare la sciagura e visto che le parole giuste non arrivavano mai mi son dovuto inventare uno stratagemma per nascondere agli occhi dei miei lo sfacelo. Ho studiato ai minimi dettagli il parcheggio perfetto. Quello, cioè, che grazie a un millimetrico gioco di luci e ombre, dovuto al muretto e alla siepe che lo sovrasta e all’albero di castagne pazze che sta marcendo dietro la ringhiera, impediva a qualunque umano occhio la vista della verità. Come se, parcheggiandola in quel modo, fossi riuscito a creare un ologramma che riproduceva l’immagine della Hyundai Getz di mio padre nuova fuori casa mia. Tutto quadrava. Mio padre usa sempre la Bravo di mia madre, mia madre usa sempre la Matiz mia che mia sorella ha ridotto a un catorcio, mia sorella non usa niente perché è risultata positiva al test dei cannabinoidi e la patente la rivede col nuovo millennio. Il trucco è stato svelato da una nefasta concomitanza di eventi. Il posto davanti al cancello era occupato dalla Matiz e allora mio padre ha parcheggiato la Bravo attaccata al muretto, proprio a quello del gioco di luci e ombre, e io mi son ritrovato a dover abbandonare la Gets in pasto agli occhi di tutti, firmando così il mio suicidio.
“Hai sbattuto con la macchina?” “No, era già così!” Mio padre mi guarda confuso. “Dai, sì, ho sbattuto, ma ho già trovato chi me l’aggiusta a un prezzo umano.”
Questo signor carrozziere segue un altro signor carrozziere a cui mi sono rivolto che, prima m’impolpetta l’esistenza a suon di robe del tipo: “I veri artigiani non ci sono più. I giovani d’oggi pensano solo ai soldi…” e poi mi chiede mille euro. Io, che ignoro i costi, ho dato uno sguardo alla fiancata e ho pensato: Beh, se questo vecchietto coi baffi e gli occhi affidabili e appassionati al suo mestiere mi chiede mille euro, vorrà dire che ci vorranno mille euro. Poi, per scrupolo, la faccio vedere a un altro che per lo stesso lavoro e per cambiare gli stessi pezzi mi chiede quattrocentosettantacinque euro e penso: Ma tu guarda quel vecchio bastardo, voleva ciularmi cinquecento euro pulite pulite. Martedì dovrebbe essere pronta e la prima cosa che farò sarà recarmi dal vecchio appassionato (ai soldi) e riempirlo di improperi fino a fargli prendere un infarto. Capita a tutti, prima o poi, di ammazzare qualcuno.

Supermarket24 e… quant’altro

In questi  mesi di presenza/assenza, di morte apparente e resurrezione, apparente pure quella, del blog, di dieci ore al giorno di patatine fritte, cuor di brie e flurry m&m, di notti non dormite e giorni ciondolanti, non tutto è rimasto fermo. Nei rimasugli di ore, seppur stravolto e con la testa carica di puzza di fritto, voci, problemi e il fegato gonfio – certi giorni veramente mi vien voglia di prendere a calci qualche porta e a pugni un albero o una delle gigantesche emme gialle nel piazzale del Mc Donald’s, pur di non farlo con la faccia di qualcuno – ho messo in moto un meccanismo stradifettoso, ma pieno zeppo di energie multiformi e sincere, che fanno di oggi il momento per comunicarvi lo strabiliante risultato raggiunto. Supermarket24 uscirà prestissimo, pubblicato da Camelopardus di Sara Saorin.
Per star certi e non alimentare false illusioni in chi lo aspetta da mesi, me compreso, diciamo che uscirà per Natale, che non significa esattamente a Natale, ma intorno a Natale, per regalarlo magari a Natale, se vorrete, e quindi necessariamente prima di Natale per darvi tempo di andare in una libreria e costringere l’essere umano che la gestisce a procurarsene una copia prima della messa di mezzanotte. Insomma, la data ufficiale non esiste ancora, quella con il giorno per capirci. Il mese e l’anno sì, almeno si spera, e pure la copertina che illumina questo sito come un verde sole.
L’autore è sempre lui Pino superstar, colui che ha curato anche la copertina di Non farmi male e poi la grafica di questo blog e poi le locandine di Non farmi male e quelle di Supermarket24 e ancora cose che voi umani non potete immaginare, per ora almeno. Ho aggiornato anche la sidebar (ho capito che si chiama così quando Pino mi ha chiesto se volevo mettere la copertina nella sidebar, appunto, e io ho ipotizzato che volesse incollare centinaia di locandine nelle vetrine polverose dei baretti periferici della provincia. Invece lui intendeva la colonna del blog dove sono scritte tutte le cosine, i link, le recensioni e… quant’altro, come dice la mia vicedirettrice quando, agli sgoccioli di un lungo elenco, di fronte alla numerosa folla con gli occhi puntati su di lei, improvvisamente il buio copre tutto e non le viene da aggiungere altro di diverso da un poco convincente quant’altro. E allora, considerato che c’è ancora molto da raccontarvi e che quello che seguirà l’uscita del libro sarà un periodo incredibilmente eccitante, direi di fare un pausa caffè e risentirci più in là. Intanto col caffè gustatevi biscottini, torroncini, cioccolatini e… quant’altro offerto da me medesimo che trovate sul tavolinetto della Stanza.

Neanche il salice piange più

Quello che penso ora dell’amore mi fa spavento come l’idea del suicidio. Quello che sono io oggi – e lo sono diventato, perché non ero affatto così – m’intristisce. È un procedere fino a un tempo e un luogo non chiari, da un preciso punto in cui s’è spento tutto, con la consapevolezza che non ci saranno fremiti come allora, più vivi, più o meno, almeno. Da quell’istante in poi non è esistito un più, un meno, neanche quando pensavo di aver trovato uno specchio d’acqua limpida, proprio al limite della sete. Questo è il passato e appena un attimo di presente, e quel momento, che ha fatto da spartiacque, non è rilevante né so identificarlo se non con un poco definito prima. È come quando piove fino a un certo punto della città, o della provincia e dopo il cavalcavia non piove più. In corrispondenza di quale colonna o passo di cemento o ramo di salice piangente l’aria ha ripreso ad asciugarsi? Ecco, non lo so, però so che è tutto troppo asciutto ora che avrei bisogno di piangere un po’. La mancanza di lacrime mi preoccupa, è come se si fosse asciugata pure la mia personalissima e un tempo zampillante, sorgente di emozioni. Nel futuro non vedo cambiamenti e, se al tempo dei sussulti del cuore avevo la forza di proiettarmi in convincenti buoni propositi sempre pronti a salvare la storia della mia vita, con nuove promesse a me stesso, adesso neanche più quelli. Questo garantisce la paralisi. Già gli eventi fanno una gran fatica a trasformarsi quando i protagonisti sarebbero persino pronti a rinunciare a tutta la loro libertà, dedicare ore ed ore e talvolta tutte le ore, a fatiche per niente gratificanti pur di poter un giorno strappare i copioni e reinventarli da zero, figuriamoci se la rassegnazione possa aiutare a scrivere un altro, più luminoso finale. Un finale che preveda la voce amata, per chi ce l’ha almeno avuta, e quella voce non l’ha più scordata. Un finale che prenda spunto da un sorriso, per chi non ride da un po’, ma che prima rideva ogni minuto. Io l’amore lo ricordo, perché certe immagini passate sono più vive delle foglie secche di questi giorni, che neanche fanno rumore schiacciate dalla suola delle scarpe di chi mi passa sopra indifferente A ridere rido ancora e spesso, ma sono risa sintetiche, risa divertite, ma che non possono dimenticare come ridevo prima, e grazie a chi. Non sia mai, dimenticare. Ecco, grazie a chi. Intanto mi sgretolo.