Cambio bar

L’ho rivista ieri pomeriggio (sempre lei). “Caffè?” E fin qua ci siamo, solo che ti manca il dettaglio fondamentale: macchiato. Ma perché non te lo ricordi mai? Entra una signora brutta (non me ne voglia, è solo per caratterizzare il personaggio). “Cara signora, come va?” Perché a me caro e come va non lo dici mai? “Mi dai anche un bicchiere d’acqua?” Mi versa l’acqua senza rispondere, e m’invia uno sguardo irritato, come se l’avessi disturbata. “Dove sei stata che non t’ho vista più?” “Sono tornata l’altro ieri da Modena” “E tu che mi dici di bello?” “Niente di che, sempre dentro a ‘sto bar…” Meno male, così almeno so dove trovarti. Però parla pure con me ogni tanto, no?! “Ah, stasera ho un appuntamento!” Alla parola appuntamento una piccola goccina di caffè macchiato caldo a cinquantasette gradi si sofferma sulla trachea e mi perfora il respiro come un acido bollente. “Con un ragazzo?” Eh, no con un chihuahua! “Sì, sono un po’ agitata perché questo tipo mi piaceva da un po’ e lo osservavo ogni volta che veniva al bar. E secondo me mi osservava pure lui. Poi ieri m’ha chiesto se avevo voglia di andarci a fare un giro una sera.” “Che carino che è stato!” “Infatti. È bello che esistano ancora ragazzi così romantici.” Sì, un altro ce l’hai vicino che sta facendo finta di bere il suo caffè finito da un quarto d’ora pur di cogliere gli ultimi dettagli della tua massacrante rivelazione. “Beh, io vado. In bocca al lupo per stasera!” “Ciao signora, grazie!” A ‘sto punto vado pure io. “Ciao grazie!” Un passo, due passi… “Ciao grazie!” ripeto con un tono di voce un tantino più alto; non mi avrà sentito salutare. Tre passi, quattro passi, e quando sono ormai arrivato alla porta non mi controllo più, mi volto verso di lei e scocciato e quasi gridando: “Ciao eh!”. No, il saluto lo pretendo. “Oh, ciao! Scusa è che ho un po’ la testa fra le nuvole.” Chiudo la porta ed esco. Spero che l’appuntamento sia andato malissimo, comunque io… cambio bar.

Il bello è sempre che ci siete voi

Sono tornato. Non starò a parlarvi della presentazione che anche grazie a tutti i vostri in bocca al lupo è andata bene. Quello che voglio raccontarvi è ciò che si prova a rivedere determinate persone. Perché in fondo la presentazione era solo un pretesto, una scusa per stare di nuovo insieme. Parlo di Alex, Marta, Gogan e Jerome. È una sensazione carica di energia, indefinibile in modo diverso da felicità. Giornate come questa sono la dimostrazione che il tempo materiale è vero che ha la sua importanza, e le distanze è vero che incidono nei rapporti, ma è evidente che tutto questo non è assoluto. Considerato che ho incontrato Jerome due volte, Gogan tre o quattro, Alex e Marta qualcuna in più, dovrei pensarli quasi degli sconosciuti; invece quello che sento per loro è un bene fortissimo. Da cosa dipende? Ho imparato a rispondere alle domande con gli occhi di un bambino. La vita se la prendi così, e la vivi così, oltre ad apparire meno complicata riscalda molto di più. E allora l’unica risposta possibile è che loro sono persone speciali e che le loro peculiarità arrivano a me fino a travolgermi. Devo molto alla Stanza, in particolare l’avermi regalato amicizie per caso. Come può non esser definito caso finire in un blog e commentarlo, e tornarci, e scoprire che l’autore è simpatico, e conoscerlo, e trovarsi in un bar di Termini a chiacchierare come se fossimo tutti amici da sempre. E ora voglio parlarvi della sensazione dell’opposto, l’estremo finale che si prova quando sei costretto a salutare. Prima Gogan, vicino Cinecittà (ho capito bene?). Eravamo lì, fuori casa tua e alla fine sei dovuto salire, altrimenti saremmo rimasti altre due ore. Poi Jerome così gentile a traghettarci per tutta Roma. Grazie veramente, mi ha fatto un piacere immenso che tu sia venuto. E poi Alex e Marta, stamattina sulla metro B. Vorresti prenderti tutto il tempo del mondo per salutarli al meglio, ma tutto il tempo del mondo non ce l’hai. Al massimo istanti piccolissimi perché la metropolitana non sta lì ad aspettare i convenevoli. Così devi scendere perché sei arrivato a Tiburtina, mentre Alex e Marta proseguiranno per qualche fermata ancora. Allora provi a dire loro semplicemente grazie, che è una delle parole più belle che conosca, e anche se non riesci a spiegare quanto è stato bello rivederli e quanto devi loro, sai che loro in fondo al cuore lo sanno. Così abbandoni la metro con un sorriso, che svanisce salendo le scale che ti riporteranno all’aria aperta, perché ti dispiace tanto. Svanisce insieme al treno che è già lontanissimo. Beh, Alex, tu che all’amicizia continui a non sperarci, che hai beccato delusioni grosse come grattacieli, devi credermi quando ti dico che per me sei un Amico, per tutto quello che mi hai sempre dimostrato e per il bene che ti voglio.

Quindi grazie ancora ragazzi, siete fantastici, ma questo lo sapevate già da soli. Spero davvero di rivedervi prestissimo. Magari la prossima volta mi porto un cuscino così non sarò costretto a dormire su una federa riempita di maglie, jeans, asciugamani, e tutto quello che può fare volume. Grazie anche per il tè alla vaniglia e i cornetti caldi preparati da Marta rinominata Aggressiva come il pupazzo di Jerome. Gogan mi hai fatto troppo ridere quando Monia, mentre scattavi foto con la tua macchinetta super professional, ti ha chiesto: “Per quale testata?” e tu: “La Stanza del Matto!”. Poi magari ne postiamo qualcuna appena me le passi.

Seguono alcuni drammi toccati con mano di cui il nuovo governo Berlusconi mi auguro si occuperà al più presto:

Un Magnum alle mandorle: 1.95 euro.

Una pagnotta di pane e un etto e mezzo di prosciutto: 9.10 euro.

Una bruschetta a Trastevere: 3 euro.

Una Margherita alla stessa pizzeria di Trastevere 2 euro. (?) Vi giuro! (Solo che poi fregano un coperto.)

Vi saluto chiudendo ufficialmente il televoto per il primo conto alla rovescia che è andato. Da oggi potete televotare (?) per gli altri due che vi ricordo:

-9 alla presentazione di Non farmi male alla Nuova Editrice a L’Aquila.

-13 all’uscita di Durante di Andrea De Carlo.

Ora vado a farmi una doccia, ché puzzo di Roma.

Tutti a Roma!

Il primo conto alla rovescia è arrivato al suo meno uno barra zero, e quindi io domani sarò a Roma per la presentazione di Oltre… l’antologia del premio che ho vinto insieme ad altri quindici autori pubblicati con me. Per l’occasione ho comprato un jeansino scuro e una camicia a righine molto yeah; devo ricordarmi di chiedere a Luca se mi presta la cinta nera. Comunque ci vediamo tutti qua domani (martedì) alle 18.30:

locandina_oltre_definitiva - Copia
Tra l’altro ho scoperto che Garbatella è dove girano I Cesaroni (che non ho mai visto) e la cosa mi ha messo addosso una certa ansia. Tanto che ci stiamo, aggiorniamo pure i nostri conti alla rovescia ancora attivi (tutti):
-1/0 Presentazione di Oltre… a Roma.
-11 Presentazione di Non farmi male a L’Aquila.
-16 Uscita di Durante di Andrea De Carlo.
Per la serie incontri ravvicinati del sesto, ma pure settimo, tipo:
“Mattè, non puoi immaginare. XXX ha visto il tuo libro esposto in una libreria di Avezzano!”
“Oddio, e non è fuggito a gambe levate?”
Ah, è inutile che continuate a chiedermi tutti qual è il bar dove lavora lei, non ve lo dirò mai. Piuttosto andate a dare un’occhiata nella Terra dei Cachi, dove un parlamento esiste già e l’avete scelto voi. Non oso immaginare cosa potrà accadere con tutti quei tipi là al governo. Certo meglio di chi reggerà l’Italia, chiunque esso sia.
Ok, allora ci aggiorniamo direttamente a mercoledì. Un abbraccio grande, e cercate di tenere la Stanza in ordine in mia assenza; non facciamo che torno e trovo il letto disfatto, la maionese sulle tende, bottiglie vuote di gin dappertutto e profilattici usati qua e là. Siate educati e rispettosi ché io non vi faccio pagare neanche l’affitto. Cercate di farvi meno docce possibili, e date da mangiare alle mie due tartarughe d’acqua giganti e al mio cagnone. Per quanto riguarda il telefono non ci pensate neanche! Ho chiamato la Telecom e ho fatto sospendere la linea ché con voi non si può mai sapere. Comunque vi ho lasciato un promemoria attaccato al frigo.
Ciao.

I know

Non è piacevole guardare l’azione dalla prospettiva del futuro. È come far finta che un film già visto nove volte ci stia appassionando per la decima; star lì col batticuore, seduti sul letto e gli occhi puntati sullo schermo, a mostrare suspense per un finale ormai imparato a memoria. Che poi non è che sia proprio lo stesso film: cambiano gli attori (tutti tranne me), cambia la location, cambiano i caratteri e i modi di fare dei protagonisti, ma il regista è sempre lui e carente d’ispirazione. Così, dopo il grande successo dell’esordio, si ostina a riproporre facsimili e scene-fotocopia. Il risultato è una stanchezza nelle membra e nella testa, dovuta al dover recitare sempre la stessa parte. Ho provato a chiedergli di cambiarmela, ma lui no, dice che sono perfetto per questa e, visto che la paga non è male, io continuo a recitare, ma dentro so bene qual è la realtà e, soprattutto, come andrà a finire. Così mi fingo sorpreso e adulato da certe parole che segnano chi non sa, invece non lo sono per niente, perché conosco tutti i fini che le hanno condotte da me. Così mi fingo coinvolto, intraprendente, desideroso di nuove emozioni, lo sarei anche, mica no, è solo che quelle emozioni non sono affatto nuove e, quel che è peggio, non sono emozioni perché, seppure con le parole ci sai fare, io sono molto, ma molto più bravo di te. Ricorda che io quel film l’ho recitato già. Lo dico per te, non per me. La prima, la seconda, e anche la terza volta c’ho creduto (un po’ meno la terza, ma sì, perché io la possibilità di sorprendermi alla vita gliela concedo comunque) ma la nona no. So in anteprima cosa accadrà; lo so prima che le scene vengano girate, prima addirittura di leggere il copione, tanto con quel regista non puoi sbagliarti. Non è cattiveria il mio tono gelido e appena sufficiente, non è cattiveria il non guardarti mentre, deciso, continuo a chiederti quale sia il senso che gli dai. Non è cattiveria l’andarmene senza salutarti, senza concederti troppe parole. Il mio tempo è prezioso, io sono prezioso; e tu?
Ma cosa sto qua a farneticare, domani giriamo la scena finale. Sarà un domani breve, cosa vuoi che siano pochi mesi? Ieri sono stato bravo. Ieri non ho parlato. Parlerò poi, o forse neanche alla fine. Perché certe volte il silenzio, oltre ad essere chiaro a chi ha voglia di capire, è indispensabile per risparmiare le ultime parole: il grano che occorre per la nuova semina.

Anzi, non mi aspettare proprio!

Dopo la matta telecronaca del Festival di Sanremo, sottotitolo: come non l’avete mai visto (e non sia mai che decidiate di guardarlo!), in cui di tutto abbiamo parlato tranne che di musica (quale musica?), mi è giunta l’insistente richiesta dell’amico blogger Lorenzo, di occuparmi di una partecipante nella categoria giovani (ormai lo sanno tutti che essere nominati nella Stanza può cambiare la vita. Spero che quella giovane vecchia, o vecchia giovane, non l’ho ancora capito, vorrà (economicamente) ringraziarmi quando, da domani, inizierà a vendere un milione di copie al giorno) della cui esistenza io, sinceramente, non m’ero neanche accorto, di nome Giua. Intanto anticipo subito a Lorenzo che il mio avvocato (Taormina, bella località eh?!) sta redigendo una formale denuncia contro di lui con tanto di richiesta di danni morali (e io quando mi muovo non è che lo faccio per pizza e fichi!) perché ho impiegato mezzora a cercare ‘sta Giua scritta Jua, e Google ha cominciato a bombardarmi con una mitragliata incontrollabile di siti giapponesi che, alleandosi alle rosse finestre lampeggianti dell’antivirus, unico mezzo di comunicazione tra me e Avast, che tentava di avvertirmi della presenza di carogne pronte a cibarsi del mio hard disk, mi hanno impallato il pc, che s’è ripreso dopo tre riavvii. Quando finalmente credevo di averla trovata (non sono uno che si dà per vinto, io) clicco sul sito ufficiale di Jua e si apre la pagina di un certo Giovanni, cantastorie napoletano, per gli amici Juanni o Juà, e allora ho capito che forse non era quello il nome giusto da cercare. Comunque, per la cronaca, si chiama Giua con la g, ed è già qualcosa. Ho provato a spulciare nella sua biografia per capire se poteva esistere un qualche legame parentale col blogger Lorenzo, così da evitare commenti spudorati e offensivi, e magari si scopre poi che è la cugina. Pare via libera e allora, tanto per rendervi consapevoli, (se no di che stiamo a parlare?), questo è il video della sua prima (e ultima) esibizione televisiva. Ascoltate (povere orecchie!) e guardate con attenzione, così poi lo commentiamo insieme.

 

“Brava Giua, brava Giua Giua Giua Giua (Pippooo!) … ciao!”

Ecco sì, ciao!

Provo a fare un supremo sforzo di analisi che va contro la mia idea di giudizio di un artista, e cioè a fermarmi alla canzone, estrapolata dal contesto e da lei che la canta. La canzone non è male (calma!) e considerato che c’è il suo nome tra quelli degli autori va detto che ‘sta ragazza ha delle buone potenzialità autoriali. Il testo è non banale, un po’ ripetitivo (l’abbiamo capito che non ci vai!), però almeno ci risparmia dai soliti sole amore miele cuore dolore fetore (ogni riferimento a Gigggi e Ana (non le calza a pennello? La rappresenta molto più di Anna con due enne, non trovate?) è puramente casuale; sì sì!). E quindi diciamo che se a cantarla fosse stata ad esempio Giorgia, che non è che si distingua per la profondità dei suoi pezzi (e come un girasole giro intorno a te… e mangio troppa cioccolata…), avrei addirittura accennato uno stentato applauso con impercettibile movimento di labbra simil sorriso. Ma a interpretarla è una, come avrete potuto ben sentire, dalla voce stridula e, soprattutto, più stonata di Francesco Facchinetti (e la musica batte sempre sul dueee! Sì, peccato che la gente cambi canale!) con quella chitarrina da rocker poco convincente che non m’ha convinto (appunto) perché una rocker non porta i capelli come La Venere del Botticelli appena sveglia. Quindi esame non passato per Giua, che vedrei bene a cantare tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguuuri a te-e, tanti auguri aaa teee! alle feste di compleanno nelle terze elementari oppure, che so, a fare la dog sitter.

Chiudo con un appello a Giua: “Tesoro, se dovessi capitare da queste parti per un concerto, mi raccomando aspettami, che io non vengo!”. 

 

Ah, visto che siamo in tempo di elezioni, vorrei lasciarvi con l’esternazione di una signora che ieri mattina ingurgitava un hot dog da Peppe e che, con quei codini platinati e l’abitino alla marinara, secondo me era la nonna di Sailor Moon; magari vi schiarirà le idee: “Berlusconi, altro che voto. Io quello, se lo vedo, lo sparo!”

Trentasette(mila) caffè

Quanti caffè occorrono perché quella splendida barista (i miei amici non sono d’accordo (dio Niccolò che faccia schifata che avevi!), ma i gusti sono gusti) mi doni non dico il suo numero di cellulare, ma almeno un minimo di considerazione? Mi accontenterei di un ciao più carino del solito, un ciao diverso, un ciao con l’occhietto (sbril)luccicoso (l’utilizzo di questo termine fa parte di una decisione aziendale ponderata con attenzione, volta ad estendere il mio bacino di lettori anche alle grezze fan di Moccia che, dopo questa parentesi esplicativa, naturalmente, smetteranno di leggermi) e un accenno di sorriso, per la serie: E’ bello che sei venuto a prenderti il tuo trentasettesimo caffè del giorno solo perché io mi accorga di te. Insomma, più carino di quello che riserva ai bavosi che affollano il bar la mattina, poco prima di andare a fregare la gente nei loro rispettivi posti di lavoro; e la guardano, e la immaginano senza camicetta, e ridono mentre la fissano, e si confidano le loro fantasie perverse sottovoce, con le mogli a casa che si dilettano a realizzare l’ennesimo copricesso a uncinetto, per poi confrontarli tutti ed eleggere il più carino che vincerà la fascia di Copricesso a uncinetto 2008. Non mi sembra di chiedere tanto.

Qualche segnale comincio a intravederlo, però. Quando mi vede entrare mi fa: “Caffè?” e vi pare poco? Dev’essere un genio una che dopo trentasei caffè nell’arco di tre orette riesce a prevedere la mia trentasettesima richiesta. Peccato che i precedenti non erano proprio caffè semplici e allora mi tocca sempre aggiungere: “Macchiato grazie!”. (Niente, proprio non si ricorda di me!)

Devo architettare qualcosa per restarle impresso. Vi assicuro che non è facile perché, quando alza gli occhi e in quei pochi istanti incrocia i miei, tutto vorrei tranne che essere lì; mi verrebbe quasi da tuffarmi nel nero caffè bollente e sparire sul fondo della tazzina. Non lo faccio intanto perché nel nero caffè bollente buttatevici voi! Al massimo io mi tuffo in una piscina (possibilmente diversa da Verde Aqua (lo so che manca la c, andate a spiegarlo a chi l’ha chiamata così. Diciamo che L’Aquila è una città alternativa che considera l’Italiano un dettaglio poco importante se paragonato ad esempio a quanto formaggio riesci a produrre quest’anno nonostante metà del tuo gregge di pecore sia stata sterminata da un branco di faine mannare) che una volta (bei tempi quando mi auto illudevo di nuotare e fare attività fisica!), mentre turbinavo in uno stile (molto) libero, ma travolgente, sono andato a sbattere col cadavere galleggiante di un gigantesco ragno peloso che oscillava sul pelo dell’acqua, e un’altra ancora con un cerotto insanguinato che nuotava a farfalla nella mia stessa corsia) oppure nell’azzurro mare (non) pieno di pesciolini e limpido (per via dei depuratori) di Alba Adriatica. Questa era l’argomentazione del primo motivo per il quale non mi tufferò nel nero caffè bollente quando lo sguardo della bar woman punterà di nuovo il mio. Il secondo è ancor più ovvio. Pensate che nascondendomi nella tazzina passerei inosservato? Vorrei evitare la figura di merda che faceva il mio gatto ogni volta che lo cercavo. Metteva la testa sotto il cuscino ignaro del fatto che tutto il suo culo nero fosse all’aria, con tanto di grossa coda pelosa in bella vista. Un’immagine comica e ridicola, e non credo questo sia il modo migliore di presentarmi.

Riuscirò a trovare l’idea giusta per chiederle qualcosa a caso, cercando di non ripetere la triste scena di qualche giorno fa. “Mi dai anche un bicchiere d’acqua?” “Sì, prego!” “Grazie!” Finisco il caffè e me ne vado senza berne un goccio. Me ne sono reso conto quando ormai ero quasi arrivato alla macchina. Volevo tornare indietro a bere, ma dubito che la cosa sarebbe risultata credibile, così sono sparito. Per caso s’è capito che il bicchiere d’acqua era solo una scusa per rivolgerle la parola?  

Oggi ci torno. Magari le offro un caffè, o magari no.

Secondo Voi

Non so se avete presente Secondo Voi: il microspaccato televisivo in cui Paolo Del Debbio, attraverso piccole interviste nelle piazze italiane, affronta di giorno in giorno i drammi della nostra Italia, esponendoli al pubblico canalecinquesco come se avesse davanti una platea di decerebrati. L’ho scoperto mentre aspettavo Aspettando Beautiful; nell’attesa di attendere, insomma. Può essere utile osservare in quei soli (per fortuna!) cinque minuti il pensiero della gente comune, per notare che, nella maggior parte dei casi (umani), gli intervistati non comprendono o non conoscono l’argomento in questione, e allora fioccano i classici interventi che io chiamo a scoreggia. Anche quando pare abbiano intuito il tema, non riescono comunque ad articolare un’opinione, non dico grammaticalmente corretta (sarebbe chiedere troppo), ma che sia almeno esplicativa del pensiero che difendono. Suggerirei a Del Debbio di fare una puntata su come si risponde alle domande di Del Debbio. Qualche giorno fa si parlava dell’inadeguatezza dei servizi nelle pubbliche amministrazioni, qualcosa di cui non si parla mai, insomma.

“Ma sentiamo cosa ne pensa la gente da L’Aquila!”

Uhmadonna! Il panico s’aggrappa al cuore e lo blocca all’istante. La terrificante sensazione che non sarebbero state interviste proprio edificanti per la reputazione della città (la mia? No, non credo) e della gente che la popola (prendo le distanze. Io non ho mai avuto niente a che vedere con nessun appartenente alla mia terra natia) domina gli istanti dell’inquadratura del primo volto parlante (purtroppo!) che alla domanda: Secondo lei (le domande, visto il nome della trasmissione, non possono che iniziare tutte così) da cosa dipende il mal servizio che governa le pubbliche amministrazioni? replica che per lui le pubbliche amministrazioni fanno schifo e che basta! perché lui vuole dire solo questo prima di fare ciao ciao alla telecamera con la manina e andarsene. E da lì una valanga di risposte sgrammaticate, proferite tra l’altro da facce orrende (e scusate, ma anche l’occhio vuole la sua parte. Possibile che nei collegamenti con le altre città tutti bei faccini, arriva L’Aquila e sembra il casting per Non aprire quella porta 7?!), finché l’opinionista Del Debbio (così lo definiscono) riprende la parola, visibilmente sconvolto dalla sagra degli orrori a cui ha appena presenziato e, con voce ancora tremolante, saluta il suo pubblico e dà appuntamento al giorno dopo.  

Da sottolineare il minuto quattro abbondante, quando giacevo ormai abbattuto sulla mia di legno sedia. Accade che una vecchia biondona col caschetto si conquista l’inquadratura (va bene che il tempo passa per tutti, ma lei è troppo grassa per essere Caterina Caselli) e spara una risposta che ricarica all’istante la mia stima, facendomi addirittura sentire fiero di essere aquilano e di fare lo scrittore.

“Penso che non è proprio possibbbile che a me mi tocca farmi la fila al ticket di tre ore ogni meno di un mese perché c’ho certi controlli alla tiroide che mi devo controllà per un sacco di problemi miei personali che c’ho.”

Sono con lei, signora. Veramente!

Cos’è questa puzza di cavoli? Ah, sei tu!

Spesso accuso qualcuno di essere maleducato, o di essersi comportato in modo maleducato, che è meglio, di non aver detto una parola in più, di aver detto solo quelle sbagliate, o anche quelle sbagliate, che andrebbero taciute, altrimenti non penseremmo che fossero tali. Spesso critico un atteggiamento (che mi appare) menefreghista, una telefonata mancata, un invito di circostanza, un invito perché, se vengo io viene anche lui che si porta quell’altro, e stai a vedere che era solo l’altro quello desiderato. M’infastidiscono modi di fare preconfezionati, a cui, se non rispondi con tono altrettanto natalizio, passi per quello che vuole fare l’alternativo, quello che vuole fare il vero, quello che dice di non avere limiti e paletti perché lui è così: underground. Vaglielo a spiegare che invece sei solo uno che non respira più in mezzo a tanta finzione! Perché la finzione puzza di pesce andato a male, di uova marce, di cavoli, di stabbio (volevo usare merda, ma mi sembrava una parola poco carina). Solo che poi accade che, passeggiando per la città, incrocio il Re delle farse, e mi scopro a precederlo rovinandogli il tanto atteso inutile e ormai banale, diciamolo, suo saluto, suo invito, suo tempo (sprecato a priori e, anche se non lo fosse, dichiaro ufficialmente che non ne ho per lui), sue parole, suo sorriso (Dio (maiuscolo) credimi quando dico che gli tirerei un calcio in faccia!) suo tutto. Resta a bocca semiaperta con gli occhi calanti (sì, ce l’ha così) increduli, di fronte alle mie due o tre frasi di plastica, che lo salutano senza curarsi delle attenzioni che si aspetta. Trasformazione completata. Mi sono addirittura superato in tutto quello che ho sempre schifato. La differenza però è fondamentale: che io, così, lo sono solo se lo voglio, lo divento insomma, qualcun altro non saprà mai essere limpido, neanche se lo volesse con tutto se stesso.

Che qualche pia anima che ci tiene (se esiste, ed esiste purtroppo) trovi il modo di dirgli che non è bello andare in giro con quella puzza di cavoli addosso, e non è con una doccia, o con due, che se ne sbarazzerà.

Non farmi male su Kiamarsi

Sul primo numero di Kiamarsi, rivista letteraria che trovate in giro per le librerie, Salvina Alba scrive di Non farmi male.

 

Se è vero, come sostiene Giulio Mozzi, che “ogni tentativo di raccontare una storia, è un tentativo di inventare il mondo”, non si può certo dire che il mondo inventato da Matteo Grimaldi nella sua opera prima Non farmi male (ed. Kimerik, euro 10) sia particolarmente attraente e consolatorio.

Si tratta infatti di sette racconti che tratteggiano una realtà spietatamente drammatica, priva di luce, di speranza, di spiragli di salvezza; una realtà in cui l’umanità, volente o nolente, appare irrimediabilmente condannata ad un destino di violenza e sopraffazione a volte inflitta, a volte subita, comunque necessaria.

Matteo Grimaldi tratteggia questo universo da incubo con uno stile molto personale e sicuro, senza sbavature, con una maturità narrativa davvero sorprendente e una padronanza linguistica che gli consente di adattare di volta in volta il linguaggio all’io narrante di questi racconti originali e mai banali, intensi e talvolta visionari, evocativi e coinvolgenti, capaci di commuoverci e farci riflettere. La morte, fisica o spirituale, sembra essere il comune denominatore di queste storie, da quella causata da paradisi artificiali a quelle provocate da abusi e violenze sessuali, dall’abbandono o da incidenti stradali. Un briciolo d’ottimismo s’intravede nel bellissimo racconto Passione da cani nel quale l’autore sembra volerci suggerire che l’unica scappatoia possibile, per sfuggire al destino crudele  che accomuna tutti gli uomini, è quella di imitare gli animali, infinitamente più saggi degli umani, rifugiarci nell’amore e nella passione, e non arrenderci mai.

 

Ringrazio Salvina Alba e la rivista Kiamarsi per l’interessamento e la bella recensione al mio libro. A proposito di libro, qua c’è da aggiornare il contatore che, alla velocità di Bee Bep, procede a ritroso fino allo zero di tre appuntamenti importantissimi.

-9 alla presentazione dell’antologia del premio letterario Oltre… a Roma. Chi volesse sapere dove e quando trova tutti i dettagli su www.myspace.com/matteogrimaldi.

-19 alla presentazione di Non farmi male a L’Aquila.

-24 all’uscita di Durante di Andrea De Carlo.

 

Una buonissima domenica matta a tutti!

Io, mia madre e mia figlia Matiz

Esco dalla Stanza e mia madre mi accoglie così: “Tesoro cosa vuoi mangiare?”. Tesoro?! Faccio finta di niente e nel frattempo mi autoimposto in modalità protetta: allarme giallo. “Va bene se ti preparo un piatto unico: mais, pomodoro e tonno, e pure una frittatina?” Oddio, quando usa i diminutivi la situazione è davvero gravissima. Di solito non è che sta lì a dirmi: vuoi questo o quello; mi fa trovare una mozzarella e un paio di fette di pane, io posso mangiare o non mangiare e, visto che io sono uno che ha solitamente fame, scelgo la prima ipotesi, abbinando al misero pasto un secondo spuntino verso mezzanotte e mezza, poco prima della dichiarata tazza di latte del post precedente.

Mentre gusto il piatto unico che ha il sapore di un gigante tramezzino: “In garage c’è la coca cola, aspetta che vado a prenderla!” e sparisce oltre le scale. È addirittura scesa giù a prendere la coca cola. Comincio a tremare terrorizzato. Non può essere la stessa donna che mi ha concepito e cresciuto per (quasi) ventisette anni; quella che, a cena, usa abbandonarsi esanime sulla sua rossa poltrona a guardare Chi l’ha visto e Stranamore perdendo i sensi quattro minuti dopo non aver capito la storia in questione. Torna con la coca cola e, mentre mi riempie il bicchiere (Ma che gl’ha preso?), con tono di voce discreto: “potresti contribuire un minimo al pagamento dell’assicurazione?”. Ecco che si spiega tutto! “L’assicurazione di cosa?” “Della tua macchina!” “Io non ho una macchina!” Cioè ce l’ho, nel senso che esiste una macchina che mi appartiene legalmente perché è a me intestata, che sto pagando e continuerò a pagare per i prossimi quattro anni, precisamente una Matiz verdina, però non è più mia. Forse lo è stata, ma ho provveduto a disconoscerla dopo che mia sorella ha cominciato ad apportare piccole, inconsapevoli e non, modifiche all’aspetto interno ed esterno. Ogni giorno una novità. Prima un bozzetto dietro, poi un bozzetto allo sportello destro, poi anche al sinistro (pareva brutto farlo sentire un emarginato), poi il cerchione piegato, poi l’anabbagliante bruciato, poi la prima, che per farla entrare devo invocare l’incredibile Hulk che è in me. Per non parlare della puzza di fumo che è ormai il nuovo Arbre Magique delle automobili della famiglia Grimaldi, e della cenere in tutti gli interstizi; alzi il finestrino e un’ondata di cenere ti assale, abbassi il finestrino e l’ondata torna, la cenere sul cambio, nel volante (sì, proprio dentro!), sui tappetini e persino tra i CD. E quel mostro sarebbe la mia macchina?

“Non ne voglio più sapere nulla finché non la farete tornare quella di una volta!” “Faccela tornare tu, visto che è la tua!” “Certo, lei la distrugge e io la riparo, così magari lei, tanto che c’è, la ridistrugge? E poi, se hai notato, io non ho più facoltà di guidarla visto che non è mai disponibile, visto che tua figlia, nonché mia sorella, non c’è mai!” “Sì, ma guidi quella di tuo padre, vuoi pagare l’assicurazione di quella (che è quasi il doppio (proposizione sottintesa) ) ?” Colpo basso. Decido di mollare la presa prima che sia tardi. “Quant’è arrivato di assicurazione?” “231 euro.” “E quanto dovrei mettere?”  Tento un disperato patteggiamento.  Almeno i duecento, il resto lo pago io.” Alla faccia dell’almeno, e del contribuire un attimo!

E sia! Provvederò al mantenimento della vettura, ma non voglio né vederla né sentirla più, almeno finché non mi farà scrivere da C’è posta per te per riabbracciare il suo amato papà (che sarei io).