Di come ho trovato lavoro, e di quanto è stato bello quel giorno

Mi ero messo in testa di aprire una libreria. Non una comune libreria – a fine mese non ci avrei tirato fuori neanche i soldi per una confezione di gallette di riso di Lidl. (Proprio sicuri che sia riso?!)
La mia libreria sarebbe stata speciale, un luogo dove chiunque avrebbe potuto leggere gustando introvabili dolcetti al cioccolato. Si sarebbe chiamata Stoner, in onore del più bel romanzo che abbia mai letto.
(Beccatevi questo consiglio di lettura gratuito!)
Come molti di voi immagineranno, non è che un locale si apra così da un giorno all’altro, sebbene spuntino come funghi di bosco.
Bisogna informarsi, cercare, capire, ingegnarsi. Tutte cose che hanno a che fare con la pazienza: qualità della quale di certo non posso dichiararmi un campione del mondo.
Io volevo svegliarmi, fare una doccia, e andare ad aprire Stoner. Intrattenermi con tutti coloro che, come ogni mattina, erano da me per la mia rinomata colazione dolcissima. E invece non esisteva nessuna caffetteria zuccherosa, non mia almeno.
Era solo un’idea, e le idee vanno strutturate e sviluppate, prima ancora che capite.
Così ero stato alla Camera di Commercio, avevo parlato praticamente con tutti gli impiegati dell’ufficio Nuove Imprese. Mi ero informato sulle normative, i finanziamenti, su quali banche aderissero alle agevolazioni della Regione Toscana (quali agevolazioni?!), sull’affitto dei fondi della metratura di cui avevo bisogno, i costi di arredamento e allestimento, le zone più indicate, di passaggio e dove non ci fossero già caffè letterari simili al mio.

Risultato: Matte’, lascia proprio perde!

Ero totalmente fuori di testa, capite? Ma così fuori che non me ne importava niente dell’evidente impossibilità del mio progetto. Dovevo trovare un lavoro al più presto. E, visto che non c’era, dovevo inventarmelo.
Il mio umore era schizofrenico. Giorni di estrema contentezza, immotivata perlopiù, lasciavano il posto ad altri in cui restavo a casa, da solo, a pensare (in una stanzina stretta stretta). E poi di nuovo felicità chimica e abbattimento in una staffetta continua.
Tremendo!
Questi sono gli effetti di quando cambi città per cambiare vita, stai mesi in cerca di un lavoro – mica quello sognato. Ne basterebbe uno che vada più o meno bene per questa fase della tua vita – trascorri le giornate ad abbellire il curriculum  – pure il template dev’essere piacevole! – e nessuno ti risponde, neanche per dirti qualcosa del tipo: carino il font che hai usato per il nome e cognome.

Quel giorno avevo appuntamento con un tipo che vendeva il 49% della società di un caffè letterario conosciuto in città, in una zona di Firenze molto attiva culturalmente.
Camminavo a passo svelto, ero in ritardo. A un tratto il mio corpo ha fatto una brusca frenata, e non per mia volontà. Un cartello attaccato al vetro della libreria Giunti di Via Guicciardini mi ha arpionato gli occhi e aggrappato al terreno come un’àncora. Diceva più o meno (se mi ricordo bene, ma non mi ricordo bene):

Cercasi persona fra i venti e i quarant’anni, con precedenti esperienze in aziende strutturate, sincera passione per il mondo dei libri e predisposizione al contatto col pubblico.

Cioè… sono io!

Sono entrato e ho lasciato il mio curriculum editoriale. Ce l’avevo sempre dietro. Prima di uscire, il controllo chiavi/cellulare/portafogli si era arricchito di un elemento diventando: chiavi/cellulare/portafogli/curriculum.  L’occasione, anche se non la vedete, è spesso dietro qualche angolo. Vietato farsi cogliere impreparati!
Avevo messo in evidenza le mie pubblicazioni, le collaborazioni con i vari uffici stampa, il lavoro redazionale per SoloLibri.net. Perciò dico curriculum editoriale.
Altro piccolo consiglio gratuito. Diversificate le esperienze che avete fatto nel corso della vostra vita, e selezionate solo quelle di maggiore interesse per l’azienda alla quale state chiedendo un colloquio. Senza inventare nulla, per carità, puntate il faro su ciò che volete – e si spera sappiate – fare davvero, che fa di voi un valore aggiunto, un profilo da approfondire. Tagliate via tutto quello che non c’entra niente e che ci avete buttato dentro nella convinzione che tutto fa brodo. Non è vero!
Per dire, a un’azienda farmaceutica non frega niente se voi d’estate portate a passeggio i cagnolini del vicinato, e per questo vi retribuiscono anche lautamente, o vi siete comprati un chiosco con le ruote e vendete abusivamente limonate ai bambini del parchetto. Magari queste cose fatele presente alla vicina di casa che cerca un babysitter con esprienza quinquennale.
Lasciando solo l’essenziale, eliminerete il fattore confusione, principale forza che muove la mano che strappa e getta nel cestino, e aumenterete le probabilità di destare un interesse.
Da qui a dire che vi arriverà la telefonata per un colloquio ci passa un oceano. (Qual è il più grande oceano dell’Universo? Eh, quello ci passa!)

Comunque.
Sono uscito dalla Giunti e ho continuato verso l’appuntamento.
Il proprietario della quota mi ha offerto un caffè, e ha cominciato a illustrarmi tutto quello che avrei potuto fare con la mia futura parte del mio futuro locale. Ma io continuavo a pensare alla Giunti.
Nei giorni è diventato un pensiero fisso. L’unico colloquio che m’importasse davvero fare.
Avevo stabilito che dal curriculum alla telefonata, qualora fosse arrivata, sarebbero trascorsi al massimo quindici giorni.
Non so perché lo faccio, ma lo faccio sempre con tutto quello che aspetto. Forse per dare dei tempi ragionevoli alle mie speranze, oltre i quali cercare nuove speranze da adottare.
Il tredicesimo giorno ho iniziato a demoralizzarmi. Il quattordicesimo non era ancora l’ultimo. A mezzanotte del quindicesimo mi sono detto: non è andata nemmeno questa.
Mi hanno chiamato il giorno dopo per un colloquio.
– Se per te va bene, stasera alle 19.
Avevo 37 e 7 di febbre, la voce bassa. Dovevo fare i piatti, stendere i panni, farmi una doccia, la barba, scegliere una camicia decente, tornare alla vita sociale, capire come raggiungere il luogo del colloquio.
Ero così felice che non sapevo da dove cominciare. A un certo punto mi sono anche detto: fanculo i piedi per terra e tutte quelle storie lì. Il colloquio andrà bene e mi prenderanno alla Giunti. Concedersi di volare così in alto è un rischio pericoloso, perché se poi non va, la botta rischia di farti rompere qualche osso.
Sono arrivato con due ore di anticipo. Non tanto per dire, veramente due ore!
A ripensarci mi viene da ridere.
Sono rimasto seduto su una panchina a leggere i volantini di un centro commerciale che mi svolazzavano attorno. Due ore.
Al momento di andare, conoscevo a memoria tutte le offerte del MediaWorld e della Coop. Camminavo col peso dei decimi di febbre sugli occhi. Ogni due passi provavo la voce con qualche colpetto di tosse.

Il colloquio è andato bene, ho pensato uscendo, ma non ho dato il meglio di me.
Questo mi dispiaceva molto. Pesava. Perché di persona ne cercavano una sola. Il fatto è che io non ero al meglio, quindi credo di aver dato il massimo per come stavo quel giorno.
La voce l’ho persa del tutto quando, dopo un paio di giorni, mi è arrivata la telefonata.
– La Giunti ha scelto te.
E io mi sono sentito… non lo so. E’ stato bellissimo. Ero in giro, pioveva. Ho telefonato a tutti i miei amici. Ai miei genitori. A quasi tutti i numeri in rubrica. Ho esaurito i minuti e pure i soldi sulla sim.
Alla fine ero bagnato fradicio. Mi ero dimenticato di aprire l’ombrello.
E quello che ho pensato è stato: me lo merito.

Una strada si apre agli occhi all’improvviso, mentre ne stai percorrendo una che va da tutt’altra parte.
Be’, quella strada ti permetterà di avvicinarti un po’ alla meta, la tua.

[Filippo, un bambino decisamente coraggioso. Sì!]

Un’altra ottima giornata in libreria. Obiettivi centrati, si va avanti bene. Cammino verso la macchina con l’espressione tronfia di un uomo d’affari che ha appena chiuso un accordo molto vantaggioso.
A interrompere la mia contentezza – soddisfazione più che altro – è la corsa di un bambino che avrà avuto quattro o cinque anni, inseguito da quello che immagino il papà. Lo raggiunge e lo acchiappa per la maglietta.
– Lasciami, lasciami! – urla lui in un pianto straziante.
– Smettila! Abbiamo comprato solo cose per te.
– Ma io ne volevo di più! Io volevo tutto, tutto!
Intanto arriva la madre.
– Filippo, che cos’è questa scena? Non ti sono bastati i pupazzi, il gioco Sapientino e gli album da colorare?
– No! E voi sete du butti stonzi!
Oh mio dio. Di colpo mi manca il fiato. Sento il sangue arrestare il suo perenne viaggio all’interno del mio corpo. E mi vengono in mente quei poveri globuli rossi di Esplorando il corpo umano che passano le giornate (e le nottate) a camminare per le arterie carichi di bolle d’ossigeno, e non ce la fanno, e non si possono riposare. In questo momento i miei si sono seduti tutti insieme, sincronizzati.
Due brutti stronzi, ho capito bene? Filippo, mi sa che l’hai detta grossa, penso mentre il padre lo scuote come una scatola di cereali per far cadere nella tazza di latte anche gli ultimi rimasti incastrati fra le pieghe della carta.
– Che cosa?! Filippo, ripeti quello che hai detto, se hai il corag…
Il papà non fa neanche in tempo a completare la parola coraggio, che parla Filippo.
– Due butti stonzi. Stonzi, stonzi, stonzi!

[Madre Segreteria Telefonica]

Un SMS mi notifica un nuovo messaggio in segreteria.
Chiamo il numero per ascoltarlo.
Ha un nuovo messaggio.
Sarà come al solito mia nonna che vuole sapere se i rituali magici che mette in atto nella sua camera da letto, in collaborazione con le più potenti entità amiche sue, stanno sortendo un qualche effetto benefico sulla mia vita altrove.
Nuovo messaggio da 340…
Oh mio… Dio! Non è lei.
Il respiro si azzera già alla terza cifra.
o… o… 3…
A ogni numero che la voce scandisce sento scivolare via dal mio corpo linfa vitale. E’ Madre. Non ci sentiamo da diversi giorni. Stranamente.
Ecco. Sento il fruscio dall’altra parte. La televisione in lontananza. Riconosco l’atmosfera della cucinetta aquilana. Starà sfruttando la pubblicità di qualcuna delle sue trasmissioni preferite per parlare col primogenito, in attesa della notizia straordinaria del ritrovamento di un cadavere in diretta.
– Matteo? Matteooo? – urla, come se alzando il tono di voce potesse coprire una distanza maggiore.
Silenzio. Aspetta una risposta da me che non può arrivare. E poi un interrogativo che pone a se stessa, e una drammatica conclusione immortalata dalla mia segreteria telefonica.
– Questo non risponde. Fosse morto?… Va be’ – dice e riaggancia.
Fine del messaggio. Per riascoltarlo digiti…
Fosse morto? Va be’?!

[L’onnipotenza del libraio Matteo, veramente bravissimo]

Telefono alla cliente per tre libri che tardavano ad arrivare – finalmente arrivati – e a cui lei tiene molto, moltissimo. A tal punto che dopo l’ordine è passata in libreria due volte. La prima perché non si ricordava se aveva lasciato il suo recapito telefonico. Ovviamente sì; senza contatto io non avrei potuto chiudere l’ordine. E la seconda per accertarsi che non avessi sbagliato a scrivere qualche cifra del suo numero, visto che ancora non aveva ricevuto telefonate.
– Tiziana – sussurro il suo nome e faccio una pausa. – Ce l’abbiamo fatta. Sono riuscito a rintracciare la spedizione dei tuoi libri. Cinquanta sfumature di grigio, di nero e di rosso arriveranno fra domani e lunedì – dico col tono del Gladiatore che si congratula con i pochi superstiti del suo esercito dopo l’ultima battaglia vinta.
– Oh, grazie! – esclama lei. – Grazie!!! – dice ancora, stavolta con la voce più soave, indirizzata in un altrove sopra di noi, come se si rivolgesse alla Madonna che le ha fatto il miracolo, o a Paolo Brosio. Poi  sospira, manda finalmente giù il groppo in gola di una terribile ansia. L’ansia di non sentire mai il telefono squillare, di non ricevere i libri desiderati, di non poterli leggere, di non sopravvivere a questo.
– Sei stato veramente bravissimo.

[La filosofia del lavavetri]

Mancano una decina di minuti all’apertura della libreria.
I raggi del sole fanno risaltare le sagome delle manine di tutti quei bimbi che si divertono a lanciarsi contro il vetro, neanche fosse lo specchio d’acqua di una piscinetta gonfiabile. Di alcune distinguo le impronte digitali.
Mi armo di Pronto Multi-Surface Polish e di un panno morbido e pulito. Con movimenti circolari disintegro gli aloni.
Con la coda dell’occhio osservo la mia vicina di negozio fare lo stesso. Ma lei non ha Pronto Multi-Surface Polish. Tiene in mano uno straccio secco. Lo stringe con pugno arrabbiato. Qualche brandello si stacca a ogni passata. Suda visibilmente, mentre io scivolo sulla superficie come Alberto Tomba sulle piste nere ai tempi d’oro. Non l’hanno dotata di mezzi adeguati, penso. E’ pure anziana, poraccia!
– Scusa – mi sento chiamare, ma sono ancora sovrappensiero a riflettere sulle nostre condizioni lavorative così distanti. – Scusamiii!!!
– (Sì, oddio, calma!) Oh, buongiorno… cara vicina.
Dico cara vicina perché non so neanche come si chiama.
– Mi presteresti uno spruzzo del tuo… prodotto?
Che cosa?! Con mezza spruzzata di Pronto Multi-Surface Polish io ci faccio scintillare tutta la vetrina e tu ne vorresti uno spruzzo… intero?!
– Scusami, ma…
– Ti prego, sto facendo una fatica pazzesca. Non vedi come sgocciolo?
Sì, in effetti… ma non vale vincere suscitando l’atrui pietà. Non è corretto. Lei con me ci riesce.
– Ok, vada per uno spruzzo – dico lasciando in sospeso il tono mentre il suo volto si apre a un sorriso salvifico. – Ma giura che me lo ridai!
– Te lo giuro. Sarò in debito con te finché non ti avrò restituito lo spruzzo.
Dopo sette minuti, esattamente due minuti dopo l’apertura, un infernale acquazzone si abbatte su di noi. Sui nostri negozi, sulle nostre vetrine, sulla nostra fatica.
La vedo entrare in libreria con un ghigno stampato in faccia. Non riesco a staccare gli occhi dai suoi… capelli – chiamiamoli così – appiccicati alla fronte da un misto di acqua piovana e sudore. Ha deciso di sfidare le intemperie pur di dirmi quello che sta per dirmi.
– Hai visto caro mio? Nella vita non conta che tu il vetro lo pulisca con un prodotto all’ultimo grido o con un umile panno (secco, e chissà quante vetrate avrà lucidato quel tuo panno, cara signora), tanto poi arriva un uragano, e sotto l’uragano siamo tutti uguali.
– …

Come fossi solo

Oltre che scrittore di successo, paziente e insostituibile nonché dolcissimo e sorridente alto libraio di ottima presenza – ci tengo a sottolineare insostituibile, perciò lo sottolineo: insostituibile –  ricordo al gentile pubblico che sono anche uno che legge i libri, li recensisce e intervista gli autori su SoloLibri.net. (Applauso, grazie!)
Questa intro appena appena autoreferenziale, da sfigato insomma, mi è utile per segnalarvi la recensione che ho scritto di Come fossi solo, il romanzo di Marco Magini pubblicato da Giunti e candidato al prossimo Premio Strega (qui) e l’intervista che ho fatto all’autore (invece qui).

[Onlus onli onlo onlum onle onlo]

In questo giorno di festa, ma anche di pensieri responsabili e di impegno attivo, mi preme ricordare un indimenticabile momento generosità vissuto in libreria qualche giorno fa.
Una donna dolcissima. Lo si capisce anche dal suo acquisto: il corso completo per preparare gustosi dolcetti al cioccolato.
Il nostro incontro è gioioso. In cassa i sorrisi si sprecano, ci scappa pure una battuta sul tempo pazzerello, e una sulla mia altezza.
– Almeno non hai problemi con gli scaffali alti… AHAHAHAH!
Un’ironia fantasiosa e trascinante la sua, ma soprattutto fantasiosa.
So che ci aiuterà e così le domando.
– Vuol contribuire alla raccolta fondi che stiamo facendo per la nostra onlus?
Sgrana lo sguardo fino al limite massimo concesso dalla sua apertura oculare. Come se fosse stata trapassata a tradimento da un paletto di frassino per ammazzare i vampiri. Si prende qualche istante in cui osservarmi con questa sua nuova espressione scioccata e per niente rassicurante. Mi guardo intorno. Siamo solo io, lei e Peppa Pig. Per un attimo ho paura. Poi parla.
– Onlus… – dice, e si ferma qualche altro istante. Come se avesse bisogno di tempo per elaborare qualcosa, una specie di lutto interiore. E poi aggiunge.
– Scusa, scusi… ma io…
– (Ah, siamo tornati al lei? Più distanti di due punti agli estremi dell’universo?)
– Ma io… non sono… io non credo… di sapere il latino.
– …

[La dama nera stanca, ben vestita e maleducata]

Mi trovavo a cena con i miei cari amici in una pizzeria molto nota a Firenze. La considerano fra le più buone, e noi non ci eravamo mai stati.
– Fra le 21 e 45 e le 22 – dice il ragazzo al telefono quando chiamiamo per prenotare. – Non prima che siamo pieni.
Davanti la porta c’è un nugolo di persone che chiacchierano in attesa che qualcuno le faccia sedere. Attesa lunga, capisco quando, un quarto d’ora dopo, uno di questi si avvicina al cameriere.
– Scusa, se non c’è posto andiamo via.
Chissà da quanto aspettano, penso. E chissà quanto aspetteremo noi, penso anche. Ma sono tranquillo. Mi ci sento davvero. Il mio animo vulcanico è stato domato da mesi e mesi di lavoro su me stesso, con l’obiettivo di limare il mio congenito impulso alla polemica pubblica, a dire quello che penso a voce alta in mezzo alla gente. Il cameriere fa sedere i ragazzi prima di noi.
E’ passata già mezz’ora da quando siamo entrati. Avremmo dovuto sederci più di venti minuti fa secondo quanto ci aveva detto al telefono, penso. Ma sempre senza rancore.
Qualche minuto dopo, ignorati e talvolta schivati come merde di mucca fresche, decidiamo di fare la stessa parte dei ragazzi che ci hanno preceduto, magari funziona.
– Scusaci, è mezz’ora che aspettiamo. Se non c’è posto noi andiamo via.
– Stanno pagando. Il tempo di sistemarvi il tavolo.
Mi volto verso la cassa e non c’è nessuno che sta pagando. Intanto penso al suo tono. E’ evidente che non gliene frega niente se restiamo o andiamo. D’altronde, perché dovrebbe?! Lui è soltanto un cameriere, mica è suo il locale. E non dev’essere stata una serata facile. Ci ho lavorato in pizzeria e in locali assaliti nel weekend. So com’è avere a che fare con un branco di animali selvatici affamati, e non è bello. Per questi motivi decido di soprassedere al tono. E poi io sono un uomo nuovo, fiorentino d’adozione, sereno nell’animo. Aspetto ancora, e sorrido pure.
Finalmente scorgo movimenti rassicuranti da un tavolinetto da quattro. Osservo i signori mentre si alzano, si rimettono le giacche, si scambiano reciproci sorrisi, si aspettano a vicenda e finalmente se ne vanno. E’ in quel preciso istante, quando pensi che ce l’hai fatta, che sei riuscito a raggiungere il tuo obiettivo con stile, che qualcosa, anzi qualcuno, rovina tutto.
Entrano mano nella mano. Lei vestita di raso nero, i capelli platinati raccolti in uno chignon perfetto, gioielli vari ed eventuali addosso. Con una mano si regge l’abito, con l’altra tiene la mano del suo accompagnatore in smoking. Riflettendola, ha più anni di quanti gliene avevo dati a prima vista, e lui dev’essere molto più giovane di lei. Comunque, sembrano due persone di classe. Questo per dirvi che io non parto prevenuto.
La dama nera richiama l’attenzione del cameriere, lo stesso del tono sufficiente di poco prima. Mentre la raggiunge, lei trascina a piccoli passi il pinguino accompagnatore fino a quello che stava per diventare il nostro tavolino.  Il mio sangue mi avverte del pericolo toccando improvvisamente i 650mila gradi fahrenheit.
– Possiamo qui? – domanda la dama nera al cameriere offrendosi con una serie di moine, quasi a porgergli una parte a scelta del suo bel corpo in cambio del posto a sedere.
Quel tavolo è nostro. Il cameriere lo sa ed è in evidente difficoltà. Le parla e ci indica. Lei fa spallucce e insiste. E, senza avere il permesso di nessuno, si siede.
SI SIEDE, MIODDIO!
Affanculo l’autocontrollo. Parto nella loro direzione. Non so cosa avrei detto e fatto di lì a qualche istante, ma cammino con gli occhi accecati da tanta maleducazione.
– Senti – dico al cameriere che stava tentando di schivarmi con una manovra funambolica interrotta dal mio braccio sul suo. – Come mai quei due sono entrati e si sono seduti, mentre noi continuiamo ad aspettare un tavolo da quarantacinque minuti?
– Si è seduta da sola.
– L’ho visto. Perché non l’hai fatta rialzare?
– Sentite, il tavolo c’è – dice con gli occhi illuminati dalla visione di un altro tavolinetto che per sua fortuna immensa, sfacciata, quasi miracolosa, si libera e gli salva la vita dalla mia ira funestissima. – Se lo volete bene, se no…
Se lo volete bene, se no?!
Ma con chi pensa di avere a che fare questo stronzo di cameriere che non sa neanche dire a una stronza rivestita di aspettare cinque minuti?
– Fanculo! – esclamo mentre ci andiamo a sedere.
Al caso piace prendersi gioco di noi, perciò fra tutti i tavoli della pizzeria, tantissimi, quale si va a liberare? Quello adiacente alla dama+pinguino cenanti.
La nostra vicinanza mi permette di cogliere dettagli ulteriori. Fra cui l’acidità negli occhi. Non mi riferisco all’acidità di un momento, quella può capitare. Parlo di quel tipo di acidità congenita onnipresente sul volto in tutte le espressioni più comuni. Aggravata dal fatto che ce l’ha con me. Mi guarda e scuote la testa. Qualche ciuffo si scompone e ricade disordinato sulla sua fronte sudaticcia. Dice al pinguino qualcosa agitando le mani come le pale di un ventilatore. E mi guarda ancora.  Quella brutta cafona attempata che si siede a un tavolo non suo sta dicendo male di me soltanto perché ho fatto notare al cameriere quanto è maleducata. Capite? Giuro che le avrei rovesciato la brocca di birra sul suo bell’abito. E poi fa una cosa. Attira di nuovo l’attenzione del cameriere muovendo il polso e lasciando ondeggiare la mano stanca per inerzia.
– Possiamo cambiare tavolo che qui… non stiamo bene?
Il cameriere gli cambia il tavolo. Si allontanano e con loro anche il fastidio dovuto alla loro esistenza che ha incrociato la mia.
La maleducazione è quasi sempre direttamente proporzionale al ben vestire.

[Là non c’ho guardato]

Osservo con curiosità una donna che trascina per mano il figlio da una parte all’altra della libreria.
Cerca qualcosa di preciso. Lo testimoniano gli occhialetti quasi sulla punta del naso che non sembrano della giusta gradazione, visto che si avvicina alle copertine che quasi ci sbatte la fronte.
– Non c’è… qua non c’è… qua neanche – continua a dire. Non sta parlando col figlioletto, ma con un’altra sé.
Viene verso di me. Io abbasso gli occhi sul computer e inalo quintali di ossigeno. Mi preparo.
– Ce l’avete Geronimo, il sesto?
– Di Geronimo abbiamo…
– Ho guardato dappertutto, ma non c’è!
– No, infatti abbiamo solo…
– Pure alla vetrina ho guardato, pure al reparto dei ragazzi, a quello dei bambini, alla parete dei libri di cucina!
– No, be’, là di sicuro non…
– Ma che ne sai che qualcuno non cambia idea all’ultimo e non lo lascia vicino alla Clerici?
– Sì può darsi, comunque…
– Mio figlio lo vuole. Vuole solo questo. Geronimo è l’unico modo per farlo stare zitto.
Ma come fa costei a parlare così veloce? Chissà da chi avrà ripreso questo figlio parlerino, che in mia presenza comunque non dice una parola.
– Capisco che piacciano. In effetti sono libri molto curati, c’è una grande attenzione ai gusti del bambino, ma…
– Nemmeno una copia che ne so… dietro gli album da colorare? – e con uno scatto di lancia verso l’espositore con tutti gli album delle principesse, dei pirati e dei dinosauri.
– Di Geronimo c’è solo l’ultimo, il sette. Ma do un’occhiata se ne è rimasta una copia in magazzino.
– Ecco sì, là non c’ho guardato.
– …

Il mio giardino silenzioso

Sono tornato dal lavoro, ho piazzato un sedia in giardino, di quelle bianche di plastica, quelle da cucina dell’Ikea, e mi son messo lì, in questo giardinetto che abbiamo, a leggere Cime tempestose. Finché la tempesta non è arrivata davvero e sono rientrato. Sta diluviando, e mi viene da ridere perché Firenze mi piace pure con l’uragano.
Dal primo momento in cui ho messo piede sulla terra arida oltre la finestra della cucina, proprio il giorno dello scorso settembre che ho risposto all’annuncio di questa casa, l’ennesima che andavo a vedere, e l’ho subito presa, ho pensato che quel giardinetto aveva qualcosa che attraeva la mia attenzione.
Me lo ricordo benissimo quel giorno. Ero triste, di quella tristezza che non riesci neanche tanto a condividere. Che ti rimane attaccata addosso come il caldo umido di agosto. Perché quel giorno mi sono svegliato e per la prima volta, da quando avevo deciso di lasciare L’Aquila e partire per Firenze, per la prima volta mi sono domandato se non stessi facendo una cazzata grande come il mondo. Non tanto perché fosse sbagliata come idea, quanto perché io forse non ero all’altezza dei miei grandi progetti. Mettevo per la prima volta in dubbio me stesso. Non riuscivo neanche a trovare una stanza che mi piacesse un po’, e continuavo a camminare per chilometri con le mie scarpe di tela azzurre consumate, e la strada che grattava sotto la pianta del piede. Ma dove volevo andare io, abituato alla mia piccola vita di provincia?
E poi sono entrato in questo palazzo con la facciata logora. Ma non ho pensato: che brutta facciata! Sono entrato nell’appartamento, ho visto la stanzina in affitto, il bagnetto nuovo, la cucina nuova, il giardino. Sono uscito, ho fatto qualche passo, c’erano le erbacce altissime, e l’ho avvertito chiaramente. Ero arrivato dove dovevo arrivare. Così ho detto: – La prendo!
Com’ero felice! Non era l’aver trovato una casa il motivo della mia felicità, ma l’aver trovato un modo per iniziare a costruire il mio palazzo di sogni, da solo, senza certezze, qui, proprio dove volevo. Anzi, una certezza improvvisamente l’avevo trovata: quel giardino speciale.
Non che fossi un esperto di giardini, né si può dire che questo si distinguesse per magnificenza, cura, o altro. Eppure il pensiero che fosse un luogo particolare – più una sensazione che un pensiero – è rimasto latente per tutti i mesi che sono trascorsi da allora. Finché un giorno ho capito: il silenzio.
E’ così strano sentire quel silenzio, a un passo dallo stadio, dalla stazione di Campo di Marte, dai viali. Che poi non è proprio un silenzio totale, quello mi inquieterebbe. E’ come se tutt’attorno fosse calata una specie di cupola filtrante, che lascia passare solo il suono del vento, degli uccelli e dei tuoni. Come se non ci fosse la città.
Ho sempre trovato il silenzio una caratteristica rara, nei luoghi e nelle persone. Da ammirare e invidiare, per me che parlo e parlo. Un dono da abbracciare con la mente, quando appartiene a qualcuno che, senza parlare, sa starti accanto. Un dono da preservare e di cui godere, quando sei in un luogo immune ai rumori.
Ecco, tipo il mio giardino.Dove sentire la mia voce interiore, quella sincera. Non ha molto senso mentire qui, tanto siamo solo noi due. A chi la dobbiamo far credere? Ascoltarmi e capirmi di più.
Domandarmi come va? e rispondermi alla grande!