• Nell’aria distinguibile l’odore delle prime avvisaglie che precedono una serata avventurosa. Frank, che di solito è sempre in largo anticipo, arriva a casa, per la prima volta nella sua vita, con due minuti di ritardo. Devo prelevare e mettere benzina. Il bancomat di fiducia è fuori servizio. Ne troviamo un altro. Il traffico ci ingabbia. Chiamiamo Papi che ha appena staccato dal lavoro e ci dice che fra dieci minuti ci aspetta fuori assieme a Veru e Fabrice. Dieci minuti sono anche troppi per la distanza che dobbiamo colmare e invece a L’Aquila, per fare duecento metri alle sei del pomeriggio, di minuti ne impieghi quaranta. Qui ormai versano in stato tanto confusionale che si svegliano la mattina e ridisegnano le strade in modo molto creativo. Pieno di benzina e pieno in macchina. In cinque e Veru dice che secondo lei nella mia macchina in tre dietro non si può stare perché è stretta. E questa è la prima di tante cose che nel corso della serata le daranno fastidio. (Veru, loviù!)
    Mangiaparole, il caffè letterario della presentazione, sta a Roma, in via Manlio Capitolino e allora Papi, da brava mamma del navigatore satellitare, seleziona Italia, città: Roma e scrive Via Manlio Capitolino numero civico 7, o almeno è quello che lei dichiara di aver fatto. Che il navigatore non fosse in giornata l’ho capito quando ha tentato di farmi imboccare tutte le uscite possibili e immaginabili della L’Aquila-Roma, pure quelle dei paeselli schifati persino dal nonno di Heidi. Non me ne sono più di tanto preoccupato, a Roma ci so arrivare. Il problema lo affronteremo dal casello in poi, sperando che il navigatore si riprenda. Così non è, le condizioni di quella diavoleria peggiorano al punto che prova a convincermi che mancano sempre due minuti alla destinazione. Lo dice alle 19.00, alle 19.20, alle 19.45, i due minuti sono sempre due minuti, nonostante siano passate due ore. Dopo un’infinita serie di Sto ricalcolando il percorso perché io sbagliavo a imboccare le vie, o lui sbagliava a segnalarmele, o il carro armato che la Papi in una notte di alcool deve aver scelto come icona mobile, si muoveva sul monitor così lento che mi diceva di girare un quarto d’ora dopo che avevo girato, o io non ci capivo niente con quella striscia viola che dovevo seguire, sarà per la tensione che si respirava, le lacrime che rigavano il viso della Papi e io che le dicevo: “Sì, ma tu che lo sai interpretare, che quando sei andata a Firenze ci sei arrivata davanti all’albergo, dimmi che strada devo prendere!” E lei biascicava: “Eh, adesso dice che…” “Dice che?” “Che devi gira’, no…” “Forza che c’è il bivio!” “Non lo so, non lo so!” PE-PEEEEEEEEE! “Aho, te levi da ‘mezzo ai cojoni?” (Comprensivi i guidatori per le strade romane.)
    Fra duecento metri mantenere la destra. Mantengo la destra e… Sei giunto a destinazione. “Miracolo!”
    S’insinua un dubbio. A destinazione sì, ma dov’è Mangiaparole? “Va be’, starà qua vicino” biascica Papi sempre più disperata, perché lei dentro di sé ha capito. Villa Borghese Parking. Io, come trascinato da una forza sovrannaturale, non so ancora bene perché, ci entro dentro. Chiamo Luca Sacchieri, l’altro autore, gli chiedo se Mangiaparole sta vicino al parcheggio di Villa Borghese. Ovviamente è dall’altra parte di Roma, sulla Tuscolana e manca mezz’ora alla presentazione. Dobbiamo uscire da qui. I parcheggi sono come la droga: ci entri gratis e ne esci a caro prezzo, un euro e settanta in cambio della libertà. Mi accosto qualche istante al lato della sbarra alla ricerca del segreto per farla alzare visto che la macchinetta non ha la fessura per inserire il denaro, e un rincoglionito a due chilometri orari mi tampona. Dopo la costatazione molto amichevole culminata con un: “Mi scusi eh, ma questa è l’ennesima prova che dopo i sessant’anni dovrebbero togliere la patente a tutti” riprogrammiamo il navigatore secondo le indicazione di Sacchieri e arriviamo sulla Tuscolana. Tutto questo alle nove passate, da poco però, nonostante qualcuno mi aspettasse da più di un’ora e non perché affetto da una curiosa sindrome della dolce attesa, ma perché gliel’avevo detto io che sarei arrivato un po’ prima per vedere la situazione. Invece sono arrivato un po’ dopo e la situazione era di decine di persone pronte a sbranarmi, non prima di aver finito il buon vino bianco nei calici.
    Ho subito provveduto a farmi fare un doppio Bayliss, l’unico super alcolico in loro possesso, al quale bicchiere ne ho fatto seguire un altro di vino, e puntuale è arrivato il piacevole effetto.
    Il pubblico folto e al loro posto.
    Pronti via.
    Ce la siamo cavata, nonostante fossimo rifiniti a parlare di gggiòòòvani e lavoro, gggiòòòvani e precarietà, i gggiòòòvani e il loro grande cuore. Non potevamo evitarlo visti i protagonisti dei nostri romanzi. C’è stata una bell’intesa e credo sia venuto fuori quello che avevamo l’urgenza di raccontare, quello che ci spinge ogni giorno a buttar giù dita e occhi sui tasti e non fermarci finché si può, quello che vive nei nostri libri. Io c’ho messo l’aspetto della mia personalità che non si abitua mai al contesto e va da sé, pronto a dissacrare le atmosfere seriose e a strappare una risata. Pur provandoci, quello a freno non lo tengo mai.
    Grazie ancora a Luca Sacchieri di aver voluto condividere con me quest’esperienza. Grazie a Frank, Papi, Fabrice e Veru di aver riempito il viaggio di risate. Grazie a Vale e Raffy e poi ai simbiotici Alessandro e Marta, Luigi, Simone, Daniele (Geniale), Dani e la sua amica giornalista che è arrivata alle undici e, come promesso, scriverà del dopo presentazione (ah ah ah!), Andrea, Nicola, Rachele di SoloLibri e suo marito, Stefano Giovinazzo per aver pubblicato Luca, Sara Saorin per aver pubblicato me, Mangiaparole per averci ospitato e tutti coloro che hanno scelto di riempirlo e dedicarci un paio d’ore del loro tempo. Grazie a chi ha acquistato Supermarket24, conoscenti e non che spero mi faranno sapere cosa ne pensano. Tutti costoro sappiano che sono pronto a rimborsarli con gli interessi.
    Questa era certamente l’ultima presentazione di Supermarket24 del 2010 di cui resta un documento video grazie al signor Mangiaparole che ha ripreso tutto e l’ha montato in sei minuti (io sono troppo scemo e il maglioncino è prugna non nero), ma non finisce qua (non finisce mai qua!) e allora ripartiamo il 2011, non so bene quando e da dove, ma so che sarà bello.

    Scrivi un commento →: Resoconto e video dell’avventurosa presentazione romana
  • Quella che pare una normale presentazione letteraria doppia invece nasconde invidie, riti oscuri, istinti omicidi latenti. Queste le scottanti rivelazioni che ho fatto ai microfoni di SoloLibri.net e, se io fossi in Luca Sacchieri, mi preoccuperei!

    Matteo Grimaldi ci segnala la Sua prossima presentazione del libro “Supermarket24” a Roma e ci racconta la lunga strada da aspirante scrittore fino alla pubblicazione di due libri, entrambi rigorosamente senza contributi e con diverse ristampe sulle spalle. Un dietro alle quinte di come sia nata questa presentazione raccontato qui per noi da Matteo…

    - Ciao Matteo. Dopo molte peripezie, il tuo primo romanzo raggiunge anche la capitale! La tua sarà una presentazione doppia con un altro scrittore, che non conosciamo. Che ci puoi dire di lui?

    Venerdì 3 dicembre presenterò a Roma (Caffè Letterario Mangiaparole – Via Manlio Capitolino 7/9 (Metro Furio Camillo) ‘Supermarket24’, insieme allo scrittore Luca Sacchieri che invece parlerà del suo ‘Boing Generation’.

    Di Luca Sacchieri ho un’intera storia da raccontare! Me lo ricordo quando a diciotto anni vinse un concorso letterario col suo primo romanzo ‘Tributo a un ragazzo che come me’. Me lo ricordo perché io di anni ne avevo uno in più e lo invidiavo a morte. Scrivevo storie deliranti, piene di avverbi e paroloni desueti e orrendi, abusandone per convincere lo sfortunato lettore delle mie somme qualità. Non solo nessuno mi premiava, ma qualche amicale editore mi prendeva pure a male parole, invitandomi a cambiare mestiere. Nel frattempo, il ragazzo prodigio Sacchieri pubblicò il secondo romanzo ‘C.H.A.T’ con la Fermento e io continuavo a scrivere di stragi di condominio e a implorare chiunque di leggermi. Niente, non c’era verso di riuscire a farmi pubblicare neanche una parola, una sillaba. C’è mancato poco che realizzassi un bambolotto voodoo con qualche pezza dei suoi jeans o una sua ciocca bionda e sfogassi il mio rancore traforando la spugna con uno spillone… ZAC, ZAC!

    - E poi come è continuato il tuo percorso di aspirante scrittore fino alla pubblicazione del tuo primo libro di racconti?

    Con il tempo le cose cambiarono. Cominciai a pubblicare racconti in antologie, cinque poesie, finché non avvenne il miracolo e nacque ‘Non farmi male’. Grazie all’affetto – più compassione, direi – dei lettori della Stanza del Matto, che allora toccava picchi di contatti giornalieri vertiginosi, il libro raggiunse la terza ristampa. Mollai il monitoraggio silenzioso di Luca Sacchieri per dedicarmi alla scrittura e a tutti i nodi irrisolti della mia vita. Poi c’è stato il terremoto de L’Aquila (dove vivo) e, dopo una travagliata agonia editoriale, riesce ad uscire ‘Supermarket24’.

    - Terminata la fase “invidia”, quado hai ritrovato sulla tua strada Luca Sacchieri?

    Per caso quest’anno, quando scoprii il suo ultimo romanzo ‘Boing generation’ nel catalogo della casa editrice romana ‘Edizioni della Sera’. A caldo mi venne voglia di tirar fuori dal baule degli oggetti dimenticati il bambolotto voodoo, dargli una scrollata dalla polvere e riprendere il rituale, perché lui è sempre un libro avanti a me. Invece, ho avuto modo di conoscerlo e scoprire un bravo scrittore e un ragazzo che ragiona bene, simpatico e stimolante. Quando gli ho raccontato della mia giovanile ossessione nei suoi confronti, si è messo a ridere, non sapendo di aver avuto uno stalker alle calcagna.

    - Come è nata l’idea di una presentazione doppia?

    La buttammo lì: “Facciamo una presentazione insieme a Roma?”. Luca venne a L’Aquila per incontrarmi, parlare di libri, (non soltanto dei nostri, che intanto ci eravamo scambiati), farci venire mezza idea su come realizzare la presentazione (che alla fine non è venuta), e vedere la situazione odierna della mia città. Non si aspettava di trovarla così: ferma, silenziosa, arresa. Fuori di qui dicono che è tutto apposto, che L’Aquila è stata ricostruita. Berlusconi parla di miracolo aquilano e buona parte dell’Italia ci crede finché gli occhi non vedono. Non è possibile modificare le immagini che gli occhi catturano: quelle nessuna campagna mediatica o elettorale, nessun telegiornale, nessun tono di voce può stravolgerle, perché io ai miei occhi ci credo e come me Luca Sacchieri che ha voluto non fidarsi delle parole dei potenti e camminare queste strade obbligate, per poi raccontare attraverso il suo blog (http://lucasacchieri.blogspot.com/), senza filtri, dai suoi occhi.

    - Hai letto “Boing Generation”: dacci un anticipo di cosa ne pensi…

    Leggendo ‘Boing Generation’ scopro che intanto io sto attraversando proprio la fase dei protagonisti del libro. Potrei salire su un’automobile a caso e mettermi in marcia verso il niente, purché sia lontano da qui e da quello che faccio tutti i giorni per necessità. La cosa mi incuriosisce e preoccupa allo stesso tempo: non è detto che a un certo punto non scappi sul serio. Poi scopro che Luca Sognatore, il protagonista del mio ‘Supermarket24’, potrebbe tranquillamente trovarsi in macchina con me, o con i ragazzi della generazione Boing, che si costruiscono una corazza che li difenda dai fallimenti, che saltellano senza mai trovare un pezzo di terra su cui mettere radici, che scappano senza marsupio perché finora non hanno trovato niente di fondamentale da portare con loro.

    - Non ci resta che ripetere tutti i dati per vederti dal vivo e ricevere il tuo invito…!

    L’appuntamento è per Venerdì 3 dicembre alle 21.00 al caffè letterario Mangiaparole, in via Manlio Capitolino 7/9, fermata metro Furio Camillo. Oltre a me, ci saranno Luca e il suo editore Stefano Giovinazzo e, si vocifera, qualcosa di simile ad un aperitivo per tutti i presenti. Siateci pure voi.

    Ecco l’invito all’evento su Facebook: http://www.facebook.com/SoloLibri.n…

    Ringrazio Rachele Landi e l’articolo lo trovate pure laggiù.

    Scrivi un commento →: Attenti a quei due!
  • Mi dico che non posso fargli questo, ma devo anche e soprattutto per chi ama la lettura e la letteratura, che può destinare diciotto euro e cinquanta all’acquisto di tre o quattro tascabili o di un classico o di una stecca di preservativi, ma non all’ultimo romanzo di Andrea De Carlo. Sì, l’ho sempre difeso. Sì, è l’autore dei miei sogni di adolescente scrittore, quello che mi ha fatto commuovere e sognare e poi ancora commuovere e sognare. Finché ha cominciato a tentennare e m’ha fatto piangere, altro che sognare, ma ci arriviamo fra un po’. Da ‘Giro di vento’ ho cominciato ad avvertire avvisaglie preoccupanti. Più che di roboante aria delle montagne mi dava la sensazione di un giro di pagina e un altro ancora e poi subito via alla prossima purché scorresse veloce e indolore e magari sparisse prima che a qualcuno venisse in mente di accostarlo a ‘Due di Due’ per esempio, nonostante a un certo punto mi pare che si fondano per tematiche, descrizioni. Alcuni lettori hanno provato a sostituire un capitolo di uno con uno a caso dell’altro e il risultato era perfettamente coerente. Ripetitivo e dimenticato alla nascita, per fortuna. ‘Mare delle verità’ porta con sé un’unica grande verità, evidenza per tutti meno che per l’autore che, altrimenti, suppongo avrebbe passato il dattiloscritto nel tritacarta invece che consegnarlo alla Bompiani. La verità di cui sopra è lampante e grida: “Lo stiamo perdendo! Defibrillare!” zzzTUM! “Ancora, forza!” zzzTUM! La sequenza di scosse elettriche torna a far battere il cuore restituendo alla sua penna un ispirato e insperato senso di esistenza che permette alla piantina di germogliare e dare il raro frutto, gustoso stavolta e pure colorato. Sugli scaffali delle librerie fa la sua comparsa il rosso tramonto di ‘Durante’ che m’incanta e mi rassicura: Andrea De Carlo è riuscito a lasciarsi alle spalle l’acqua sporca della sua imitazione. E allora ‘Leielui’ me lo vado a prendere con la forza. Mi ricordo il pomeriggio di ottobre quando ho sfoderato davanti al libraio indaffarato il sorriso del bianco dente, capace di ritinteggiare le pareti e pure far brillare la vetrina che neanche Fairy active caps per lavastoviglie, nella quale vetrina – sacrilegio! – mancava proprio ‘Leielui’.
    “Ancora non mi arriva.”
    “Ma è uscito, come non ti arriva?”
    “Quando è uscito?”
    “Oggi.”
    “Eh, allora sarà in uno di quegli scatoloni che mi ha consegnato il distributore stamattina.”
    “Sono le sei di sera e tu non hai ancora aperto gli scatoloni che ti hanno consegnato stamattina?”
    “È stata una giornata impegnativa. Ripassa domani che lo trovi sicuro.”
    “Ma io lo voglio adesso. Non posso tornare a casa col pensiero che il libro sia in uno scatolone chiuso davanti a me. Apriamoli tutti!”
    Morale della favola uscivo eccitato e saltellante come una scolaretta col nuovo disco dei Backstreet Boys quando i Backstreet Boys riempivano i palazzetti e ballavano le coreografie, mica di Garrison però. In macchina non riesco a resistere e guidando leggo o leggendo guido. Il volante lo giro con lo spigolo del libro e guardo la strada solo quando serve; la vita per le prime pagine del nuovo libro di Andrea De Carlo posso anche rischiarla, no?!
    E qui finisce il bello e comincia il duro scontro con la realtà, quella immodificabile delle parole: il nero su bianco che vale, attesta e prova. ‘Leielui’ non è una storia d’amore e neanche una storia di passione e nemmeno di emozioni. ‘Leielui’ non è una storia perché la storia è mancante, non pervenuta, deficiente (non rivolto a te che leggi, ma alla storia), assente, evaporata, mai esistita. Dov’è la trama? Dove sono gli incontri, i sentimenti, il conoscersi, l’amarsi, l’odiarsi, il ritrovarsi, tutto quello che Andrea De Carlo aveva promesso al lettore attraverso i fastidiosi video di dieci secondi con cui ha infestato You Tube come neanche Gemmadelsud aveva osato. Dove?
    Non c’è nulla di quanto detto né di più, punto. Così è, ma questo lo si scopre verso pagina cinquecento. È un libro troppo e inutilmente lungo, non soltanto per il numero di pagine; con descrizioni di quotidianità inutile, di sensazioni inutili, di luoghi inutili, di scene inutili e pure ridicole, di dialoghi irreali e ovviamente inutili. Ha il sapore del brodo di pollo allungato con un litro e mezzo di Rocchetta naturale. Piezzo zeppo di inutilmente, drammaticamente, naturalmente, semplicemente, serenamente, dolcemente, dannatamente, pavoneggiosamente (eddai!) che a un certo punto mi è venuto il cannibalesco istinto di inghiottire i miei stessi occhi pur di non poter leggere più. Per non parlare dei refusi, gettati come semi qua e là e se questo è il risultato della terza rilettura, come De Carlo (un tempo avrei detto Andrea, adesso dico De Carlo) scrive nell’avvincente racconto della genesi di ‘Leielui’ che fa sul blog del suo sito ufficiale, mi astengo dall’immaginare cosa potesse nascondere la prima stesura. Una selva di mostri pronti ad azzannare la lingua italiana, digerirla e ricagarla sottoforma di nere palline di merda di coniglio che si disperdono nell’ambiente, e nessuno si lamenta perché sta diventando normale non saperla parlare. Quando ho letto: la chitarrina che le aveva regalato l’hanno scorso mi sono accasciato a terra KO e avoja a contare fino a dieci, cento, un milione. Neanche un flebile istinto alla vita, niente e non è (tutta) colpa sua. Quel tutta vuole dire che io lo so bene che De Carlo sa che anno solare, inteso come somma di dodici mesi, periodo di tempo composto da trecentosessantacinque giorni, giorno più giorno meno, febbraio bisestile più, febbraio bisestile meno, non vuole l’acca. Come probabilmente sa che un altro non vuole l’apostrofo e che sarebbe carino che non manchino lettere dentro le parole o intere parole nelle frasi e via dicendo. Lo sa, ma può scappare. A lui, ma al correttore di bozze no. Questi signori sono (mal) pagati (ma nessuno li obbliga a fare quel mestiere che come tutti i mestieri andrebbe fatto bene) per scovare la merda ed eliminarla. Se non lo fanno vanno fucilati perché rovinano il libro e non vale il discorso: “Eh, ma ce l’ha infilato De Carlo l’errore”. No, perché a De Carlo può scappare a te no, perché tu sei pagato per non fartelo scappare. Se è vera la diceria che Andrea De Carlo non permette a nessuno di toccare i suoi libri, che per mano del correttore di bozze non ci passano, allora mi rimangio tutto e gli dico: Bravo stronzo!
    Io non voglio dire che ‘Leielui’ (che fatica scriverlo attaccato, ogni volta mi tocca tornare indietro e cancellare gli spazi) è brutto perché accudisce e nutre i refusi. ‘Leielui’ è brutto perché è brutto. Fortuna che De Carlo partecipa alla campagna Scrittori per le foreste, e che per la stampa dei suoi libri non è stato fatto fuori neanche un alberello, se no sarebbe stata una strage doppiamente inutile. È sempre inutile tagliare gli alberi per produrne carta visto che si può ugualmente, lasciando gli alberi lì dove stanno, ma stavolta avrebbe come aggravante la cattiva qualità, una morte per nulla insomma. Il finale non lo voglio proprio commentare, anzi sì. Lui che insegue lei, come fa per tutto il romanzo, fino a Vancouver dove lei era fuggita dopo aver scoperto che lui è un donnaiolo e averlo scoperto proprio dopo aver trovato il coraggio di lasciare Stefano, il ragazzo mummia di quelli che spesso compaiono nella letteratura decarliana (plin plon: neologismo), che vuole sposarla e condividere la vita con lei, ma lei vuole lui che non vuole lei che scappa a Vancouver, capì?! Lui la insegue e senza sapere quale aereo prenderà, dove andrà a vivere, a che ora arriverà, il nome di qualcuno, la via di qualcosa, un cazzo di tutto, lui la ritrova a Vancouver sopra un aliscafo e nella notte si butta in mare urlando il suo nome. Lei lo sente, ferma i motori e si amano per sempre.
    Andrea, ti giuro ho amato quattordici dei diciassette libri che hai scritto e ti ho difeso contro chi festeggiava la tua fine, ma stavolta no. Stavolta no.
    Non escludo che tornerò a leggerti, non escludo neanche che domani esco, compro un Turista per sempre, gratto e vinco tutta quella roba per vent’anni. Ciao Andrea, ti ricorderemo così, fra gli sguardi avventurosi di Guido Laremi, la complicità con Mario, e un ‘Due di due’ lontano anni luce, che non ci credo più che l’hai scritto tu.

    Scrivi un commento →: È morto Andrea De Carlo
  • L’intervista è stata pubblicata sul portale MRS. La trovate, oltre che quaggiù, anche LAGGIù.

    Cosa significa per te essere scrittore?
    Non lo so. A me piace definirmi scrivente, solo uno che scrive, non uno scrittore. Essere scrivente è aver dentro l’urgenza di raccontare, anche senza ricevere niente in cambio. È come una macchina che sa fare solo una cosa: scrivere.

    Cos’è per te un romanzo?
    Un viaggio low cost. Puoi andare in qualsiasi parte del mondo, vivere avventure straordinarie senza aver bisogno di una settimana di ferie e di un mese di stipendio fra voli e alberghi.

    Quando hai sentito di esser stato morso per la prima volta dal talento per la scrittura?
    Ho la sensazione di aver sempre tentato di arrivare più in là di quanto meritasse il mio “talento”. Dalla maggiore età scrivo con costanza. Mi prendo un po’ più sul serio adesso.

    Che percorso hai seguito per arrivare dove sei oggi?
    Ho vinto tre o quattro concorsi letterari con racconti brevi fino alla pubblicazione di Non farmi male, facilitata dal fatto che avessi un blog molto visitato. Poi il vuoto dovuto alla chiusura della casa editrice che doveva pubblicare Supermarket24, il terremoto e il buio che ne è seguito, finché non è arrivata Sara Saorin con la sua Camelopardus edizioni di Este. E luce fu!

    Fisso o precario (come stato mentale, non solo come dato di fatto)?
    Precario (spero) a termine, perché la mia isola felice, quella in cui resterei a tempo indeterminato, è ancora lontana.

    3 aggettivi per definire L’Italia e gli italiani
    Creduloni, chiacchieroni, rustici gli italiani. Ricca, generosa e abusata l’Italia.

    Cosa manca secondo te al nostro paese per essere migliore?
    Nella situazione attuale direi che è più difficile peggiorare. Per migliorare basterebbe un governante che non abbia seconde, terze, quarte entrate di denaro, per esempio.

    Cosa significa avere un figlio nel 2010?
    Anche qua l’esperienza non mi permette di risponderti come vorrei perché io un figlio non ce l’ho. Direi che nel 2010 un figlio non è solo il dono di una Provvidenza generosa, come poteva essere quando di figli se ne facevano pure tredici e si campavano tutti con la fatica e col sorriso, ma il frutto di una decisione che purtroppo dev’essere presa con giudizio e una lunga lista di calcoli che cominciano dallo stipendio e dal lavoro e finiscono alla stabilità della famiglia, all’amore e ai sentimenti che non, si capisce bene perché, si dimostrano sempre meno resistenti al tempo.

    Libro e autore della tua vita?
    Dico Novecento di Baricco, Due di due di Andrea De Carlo, Anna Karenina di Tolstoj e Delitto e castigo di Dostoevskij. Alla fine ne ho detti quattro, ma ce ne sono eh! Tipo Sulla strada di Kerouac o Achille piè veloce di Benni… fermatemi!

    Il tuo rapporto con la politica?
    Una forte e insanabile delusione.

    Il tuo rapporto con la religione?
    Credo in Dio, anche se mi pongo tante domande. La mia religione sta nel comportamento.

    Tg, quotidiano o informazione su internet?
    Internet batte TG televisivo e pure i quotidiani. L’informazione è uno di quei diritti che ci stanno togliendo. Pensate alle tante manifestazioni che noi aquilani stiamo portando avanti animati dalla disperazione, stato che in pochi conoscono. Eppure i TG ci raccontano la vita coniugale di Briatore o quello che alla Canalis non piace di Clooney, ma il desiderio di un popolo intero di riprendersi la normalità che non per colpa sua ha perso, quello no. Esemplare la puntata di Matrix in cui la Nannini, colpevole di aver affrontato l’argomento scomodo del silenzio dei media calato su L’Aquila, è stata zittita in modo brusco dal conduttore Vinci. È informazione questa?

    Legalizzazione delle droghe leggere o no?
    No. Non che serva a qualcosa vietarle, ma la legalizzazione significherebbe una benedizione dall’alto. Che lo Stato pensi ai diritti che ci vediamo tutti i giorni negati prima che a concedere quello di drogarsi liberamente.

    Preferisci lavorare con uomini o donne?
    Ho lavorato quasi solo con donne e mi sono trovato sempre bene.

    Un difetto delle donne di oggi?
    Le donne non hanno difetti e io, come gli asini, volo. No, è che è difficile e antipatico generalizzare, soprattutto se si parla di difetti.

    Un progetto per il futuro?
    In un futuro lontanissimo, di sicuro, spero di avere la possibilità di produrre opere di giovani o meno la cui voce talentuosa è condannata a restare inascoltata.

    Un sogno?
    Lo tengo per me, ma chi mi ama lo sa.

    Una città in cui vivere e lavorare?
    Firenze.

    Un consiglio a chi vuole seguire le tue orme?
    Chiediti all’infinito se lo meriti. Continua a camminare solo se ogni volta ti rispondi di sì e non pubblicare mai a pagamento, sarebbe la dimostrazione del tuo fallimento.

    Chi senti di dover maggiormente ringraziare per la persona e lo scrittore che sei diventato?
    Chi ha fatto del bene alla mia esistenza. I miei amici principalmente e poi la testardaggine di cui Dio mi ha dotato e la buona sorte che mi auguro continuerà a sorridermi.

    Matteo in 3 pregi e in 3 difetti?
    Tra i pregi metterei la tendenza a sdrammatizzare tutto, la sensibilità al mondo e il saper voler bene. I difetti sono così tanti che faccio fatica a sceglierne tre. Ci provo. Sono lunatico, caratteristica dominante del mio segno: il Cancro, non mi accontento mai e mangio troppe caramelle gommose, anche se sto provando a uscirne.

    E ora parliamo un pò del tuo divertentissimo romanzo, “Supermarket24″…
    Comincerei con una domanda facile facile: come e quando ti è venuto in mente di scrivere una storia così originale?

    Ho cominciato a buttar giù i primi capitoli quattro anni fa. Supermarket24 al momento della genesi nella mia testa non doveva essere quello che poi è diventato. Avevo l’intenzione di scrivere un libretto estivo, da spiaggia, di poche pagine di aneddoti, battute, incontri, che facesse ridere e basta. Era di quello che sentivo il bisogno, però poi i personaggi hanno preso vie imprevedibili e io li ho lasciati fare.

    Premettendo che ho trovato il tuo libro dissacrante e geniale, perché hai scelto come ambientazione un supermercato? Hai per caso avuto esperienze lavorative simili a quella del tuo protagonista che ti hanno ispirato?
    Sì, in un supermercato e proprio al reparto frutta. Ci ho lavorato per sette mesi e ho raccolto una tale quantità di esperienze che non potevo non riversarle in una storia. Da questo a dire che è autobiografico ce ne passa. Io non invento quasi mai. Mi servo della realtà e la modello a mio piacimento, al punto che diventa irriconoscibile e pare invenzione.

    Come mai hai deciso di mostrare la realtà in cui Luca vive e lavora rivelando al lettore ogni suo più impietoso pensiero – che non risparmia proprio nessuno – anziché limitarti alla più tradizionale descrizione di fatti e dialoghi?
    Perché la storia la racconta lui, non una voce estranea agli eventi, quindi tutto è filtrato dai suoi occhi. Mi sono divertito a far pensare Luca ad alta voce. Il cinismo estremo che anima i suoi pensieri, i suoi facili giudizi sulla vita degli altri, lo rendono antipatico al lettore e questa si è rivelata la piega del libro. Luca non teme di dire né di giudicare, lo fa senza alcun paletto. Ho voluto portare agli occhi del lettore un personaggio totalmente trasparente, quello che nessuno nella vita riesce ad essere mai. Molti si stupiscono dei pensieri di Luca nonostante ne custodiscano di simili e a volte di ben più scandalosi, però stanno zitti. I pensieri sono silenziosi, tranne quelli di Luca Sognatore.

    Scrivere un libro simile, per te, non ha forse rappresentato anche un piccolo sfogo verso quella nutrita categoria di persone insopportabili che immancabilmente migrano ogni giorno nei supermarket? (Immagino che comunque la stesura debba essere stata molto divertente..!)
    Mi sono divertito molto e mi sono ritrovato spesso a ridere da solo di quello che scrivevo. Ripensavo alle scene che avevo vissuto io, che mi avevano fatto arrabbiare a morte e che, raccontate con gli occhi di Luca, acquisivano una valenza tragicomica. Certe volte è davvero difficile restare calmi di fronte alle pretese assurde di una che vuole il supermercato ai suoi piedi semplicemente perché: “Sono cliente e vengo a fare la spesa tutti i giorni”. Da quando ho cominciato a lavorare al supermercato ho capito quanto può essere dura la vita di un commesso, stanco nel fisico e logorato dal rapporto costretto con un pubblico impietoso.

    All’interno della spassosa carrellata di personaggi che popolano il tuo romanzo, ce n’è uno che preferisci e uno che invece detesti particolarmente?
    Lory, la macellaia, è la mia preferita, perché è una madre vera. Ha tutto della madre. Ha occhi dolci, è di poche parole, come se il magone che tiene in gola gliele togliesse. Ama suo figlio e pur di riprenderselo da un marito che l’ha tradita e lasciata, è pronta anche a uccidere, se necessario. Ho sempre tifato per lei e per l’amore, mentre lo scrivevo. Detesto Sonia, la compagna di reparto di Luca. Una ricciola grassoccia col naso schiacciato che ormai dalla vita non può più avere niente per sé e allora gode degli insuccessi altrui, li favorisce e se ne ciba. Provoca mai paga, e Luca Sognatore la odia almeno quanto me.

    Se decidessero di girare un film tratto dal tuo libro, che attore italiano o straniero ti piacerebbe vedere nei panni di Luca Sognatore? Perché?
    Mi viene in mente Elio Germano che ha la faccia giusta. Ma anche Luca Argentero o Nicolas Vaporidis. Giovani e con gli occhi vispi. La regia la farei fare a Gabriele Muccino che è unico, a patto che non faccia recitare il fratello.

    Grazie a Carlotta Pistone.

    Scrivi un commento →: Se Supermarket24 diventasse un film chi potrebbe interpretare Luca Sognatore? – Intervista di Carlotta Pistone.
  • Quando i rumori non se ne stanno più buoni sullo sfondo e diventano un barbarico frastuono che ostacola i pensieri. Quando il suono dei tuoi passi viene assorbito dallo strombazzare dei clacson delle automobili e dalle urla di donne isteriche che riprendono figli schizzati. Quando gli altri esprimono il giudizio che hanno maturato di te e dei tuoi comportamenti, neanche fossero ospiti d’onore di un talk show di tronisti e corteggiatrici, senza aver mai capito come la pensi. Gli altri, quelli che dicono di conoscerti per quel paio di mesi di giorni nello stesso posto, qualche volta a parlare. Come se non fosse permesso cambiare opinione. Come se scavare non sia sintomo di volontà di capire e non possa magari capitare di scoprire che si è sbagliato a dire e pensare quello che si è pensato e detto. Come se io dovessi giustificare ogni spostamento, ogni risata, ogni serata, ogni bicchiere, ogni idea. Come se ogni azione debba per forza risultare la conseguenza logica di un’intenzione. Tu conosci l’intenzione e conosci l’azione, ma ignori del tutto il segmento di chiarimenti, spiegazioni che hanno determinato la trasformazione dell’intenzione nell’azione diametralmente più imprevedibile. Nella tua ignoranza, inteso come non conoscenza dei fatti, scrivi di me senza fare il mio nome e poi mi saluti, abbracci e baci col sorriso. Non che se lo fossi davvero, incoerente, debba risponderne a qualcuno. Non voglio difendere la mia coerenza, che non ho mai perseguito, solamente delineare l’aria che respirando mi suggerisce di fermare tutto.
    Quando le voci che inviteresti a trasferirsi nel tuo padiglione auricolare le senti di meno. Quando le serate che vorresti vivere sono troppo lontano da dove stai tu. Quando ti guardi allo specchio e nel tuo volto leggi l’invulnerabilità, e allora ridi da solo che non è la più bella delle risate. Quando fuori piove e dentro grandina. Quando hai da mangiare, bere, vestire, un lavoro, un obiettivo grande e uno immenso, eppure ti manca il resto. Quando il filo d’acciaio su cui cammini vibra e tu con le mani ricerchi un volo che ti tenga lassù ogni istante un istante in più. Quando Giuda abbracciava e baciava in modo più convincente di chi lo fa con te. Quando il tempo è sempre più perso e sempre meno. Il tempo non è mai tanto quanto sembrerebbe e io lo sto sprecando pure adesso, che scrivo un post mosso dallo sconcerto di certi piccoli cervelli in azione.
    Quando è autunno e vorresti l’inverno e poi l’inverno non ti basta, la primavera non arriva e l’estate la scongiuri, il tutto per una risposta. Quando la compagnia non è degna di te, o tu di essa – esiste questa eventualità, è quasi sempre un problema di linguaggio e a te ancora nessuno offre il dono di comunicare con gli animali – allora è il momento di ricercare una sacra solitudine.

    Scrivi un commento →: Una sacra solitudine
  • In quel luogo le conversazioni sono tutt’altro che creative. Generano qualcosa sì, ma che è ripetizione di se stessa. Nessuno è interessato a sapere come ti chiami, quanti anni hai, cosa fai nella vita: se studi, lavori, rubi o ti prostituisci, quanto grande è il peso dei tuoi sogni, come sei fatto: se sei alto, magro, muscoloso, obeso, se hai gli occhi azzurri o neri, se ti manca un braccio oppure sei campione nazionale di lancio del disco. Te lo chiedono, ma non è di te che si interessano. Conoscerti è solo un modo per arrivare alla pace dei senssi scalpitanti. Alterno silenzi a sproloqui per emergere dal mucchio ed essere giudicato un fuoriditesta e quando mi va, dopo che sia passato qualche tempo, torno a criticare chi fa lo stesso, in un momento dei tanti in cui la mia luna è spenta. Meravigliosa luna che nel buio non si arrende, che da sola lo vince bagnando il mare nero della paura. Su quel tappeto d’argento vorrei camminare, da solo, nella speranza che non mi porti da nessuna parte. Che sia un infinito moltiplicarsi di chilometri dalla terraferma. Guardo in alto accecato dalla luce fedele a illuminarmi i piedi sull’acqua come Cristo, peccatore come nessuno io.
    Non mi preoccupa il giudizio quando è arte di pecore che si seguono fino al dirupo, che una dopo l’altra sperimentano saltando. Quando cala la giusta notte, su tutto tranne che sulla luna, eviterei pure una risata sconveniente, nonostante il bel suono e la luminosità degli occhi ridenti. Non mi cambio ora che vesto abiti d’acciaio. Mi capisco quasi sempre e non mi piaccio quando cammino con nonchalance su un corpo martoriato dalle parole. Questo non mi impedisce di evitare il massacro né mi porta pentimento, sta tutto qua il perché. Guardo la luna e mi sento bene con lei. Ancora una volta ho scelto per me che voglio al mio fianco chi mi assomiglia, chi non mi sfida, non mette il dito nella piaga. Voglio al mio fianco solo coloro che non perdo mai, che mi salvano pure da lontano, che sorridono e mi stimolano a crescere. Voglio al mio fianco chi crede in me, non nella mia disfatta, chi ce la mette tutta per vedermi sul punto più alto del mondo, non chi scava sotto i miei piedi e mi fa franare nel fondo.
    State lontani voi che mi provocate per ferire, per destare fastidio e sentirvi vincitori di almeno un premio: una caramella gommosa che rilascia in bocca l’amaro dell’ennesima sconfitta, in una non-vita che conducete e che continua a vincere contro.

    Scrivi un commento →: La vostra non-vita
  • Sto ricaricando energie e parole. Sto mettendo benzina nel mio cuore. Voglio vederlo gonfio, sentirlo soffocare dalla pienezza. Sto assorbendo ogni forma di sole, pure quello nero. Sono così potente da saperlo schiarire. Sto in silenzio a guardare tutto e tutti senza vedere nessuno. Sto la notte in un locale a ridere, rotolo a terra abbracciato a chi con prepotenza ha deciso di volermi essere amico, in questa città desolata e desolante. Sto nel letto a ringraziare Dio per avermelo mandato.
    Credi in Dio? Non chiedermelo più.
    Sto tra le pagine del nuovo libro di Andrea De Carlo e ci sto bene. Sto dietro il vetro della finestra, oltre la tenda, a cercare fuori qualcosa che non m’intristisca. Sto su una sedia invisibile, mi metto seduto sul mondo. Sto programmando ogni passo con gli occhi che non colgono le cose vicine, ma riescono a guardare e comprendere l’orizzonte, dove stanno i luoghi che presto o tardi visiterò. Sto cercando di capire se potrò riprendermi quello che mi è stato tolto, che ho lasciato andare io alla corrente degli errori passati. Quando qualcuno riesce a sottrarti ciò a cui tieni è perché ha trovato la porta aperta, che tu gli hai lasciato, ingannato dalle promesse, dalla sua mano, da quel sorriso irresistibile e dalla sua fragilità che con una parola ti annienta. Mi sto rispondendo che sì, riavrò le mie monete una sull’altra. Sto ricostruendo il tessuto delle mie passioni, lasciate in panchina per l’improvvisa richiesta di un castello da tirar su in poco tempo. Il castello è pronto, aspetta che il nuovo padrone decida di scartarlo. Nel frattempo torno al mio villaggio di casupole piccole e carine, di cui nessuno continua ad accorgersi, perché tutti hanno occhi soltanto per il gigantesco pacco al centro del salone. Bramano di sapere che forma abbia, quante torri e se c’è il ponte levatoio sospeso sul fossato coi coccodrilli. Se avranno anche loro una stanza in cui sentirsi importanti oppure se mi basterà un castello per dimenticarli e per dimenticarmi del me che cammina dall’altra parte della strada, in direzione opposta a quella dei miei desideri. Si ferma, mi fissa e sorride, è felice per me. Sorrido pure io, non sono molti coloro che festeggerebbero la mia felciità. Comunque vada, se sarò in me o in lui, se la meta sarà la sua oppure la mia, noi sorridiamo e scriviamo tutti e due. Io in un castello e l’altro me nella casetta di legno di un villaggio dimenticato, con tanto bene che lo abbraccia e coi sogni in cui non crede più, pur sapendo che è solo un momento.

    Scrivi un commento →: Fra le stanze del mio castello
  • Ho preso fra le mani ‘Sulla strada’ di Jack Kerouac quando mi sono sentito sulla strada pure io. Con la mente, il cuore e poco coi piedi. Un viaggio nel tempo perduto, fra i ricordi, le fotografie, il suono delle risate, le serate alcoliche, le feste di laurea a consumazione illimitata, i miei amori stupidi, l’amore della vita, finché non ne arrivava un altro di amore e di vita, le amicizie infinite e quelle che mi dicono ancora ti voglio bene e poi tornano a dimenticarsi di me. Un viaggio nei luoghi che ora non ci sono più, negli odori, nell’umido dell’erba e rametti che pizzicano la schiena nuda, nel calore di un sole fortissimo come non ne ricordo di così, che acceca gli occhi fissi sul volo delle poiane nel cielo terso. Una corsa nella neve che blocca le intenzioni più deboli, con parole che rimbombano ancora e ci manca solo che diano la colpa a me. Ho spostato la lancetta indietro di almeno tre anni e ho messo su carta una felicità non del tutto vera, accompagnato dal rombo della macchina scassata di Sal. Sal Paradise non riesce a resistere all’energia trascinante di Dean Moriarty che lo conquista e diventa il suo amico fraterno con cui cercare il senso di ogni cosa in giro per l’America. Vivono alla giornata rompendo tutti gli ideali di vita programmata. Sono invincibili, insieme riescono a riparare anche alle crisi che nel loro viaggio disturbano quel legame di sangue diverso. Migliaia di chilometri per scoprire il mondo fuori, certo, ma pure quello dentro loro stessi, quello dei sogni, quello dell’amore infinito che Dean sprigiona per tutte le donne che incontra, per tutti i figli che mette al mondo e di cui non si dimentica, pur se lontano, non completamente almeno. La loro è un’amicizia che trasforma l’ingiusto nel giusto se è l’amico a farlo, l’illecito nel difendibile, se è l’amico a compierlo. L’amico diventa una sconfinata riserva di energie per affrontare le disperazioni, la solitudine e pure per combattere contro questo immenso mondo che fa un po’ meno paura se guardato assieme. L’incontro è una luce che si apre, come un tanto atteso lunghissimo sospiro di sollievo, perché da ora in avanti ci sarà lui affianco a tener testa alle sue e pure alle paure dell’amico.
    Tutti dovrebbero avere un Dean Moriarty a cui aggrapparsi per fuggire un paio d’ore, di mesi o una vita intera e tutti i Dean Moriarty del mondo dovrebbero trovare un comprensivo Sal Paradise che li tenga coi piedi per terra, incollati alle responsabilità, sempre pronto a salvarli dalle loro irresistibili follie. Io sono tornato da pochi giorni. Già mentre salivo le scalette del vagone avvertivo il vuoto della fine pure se c’era Dean sotto al treno a salutarmi e a saltellare da un binario all’altro col rischio di essere travolto da un convoglio in arrivo. Era eccitato per tutto quello che insieme avevamo vissuto e che raccontare non ha senso perché nessun racconto saprebbe sfiorare quelle nascoste corde del cuore che vibrano solo al tocco della vita vissuta. Da quando sono tornato e sono costretto a gioire solo di ricordi è come se adesso non avessi più la mia vita, riconquistata attraverso le parole. Questa è la prova che sono stato bravo e non vedo l’ora di mettermi di nuovo sulla strada per rincontrare i miei amici, i miei amori perduti, quello della vita che poi finirà, la mia città, i suoni e la felicità del mio sogno.

    Scrivi un commento →: Sulla (mia) strada
  • Vedere le lacrime sul volto di una donna, che nulla aveva fatto di male per meritarsi i miei toni e le mie parole, prima rinvigorisce e poi annienta la stima che ho di me. Mi fermo un attimo, appena il silenzio mi restituisce una pace dimenticata, e penso. È tutta colpa del mio sorriso che da un anno a questa parte non è più solo un sorriso o un bel sorriso.
    Adesso vuole di più: camuffare i propositi materiali che tirano gli angoli della bocca e fanno emergere l’energia di conquista. Mi fa paura perché è riconoscibile come il peggiore dei miei mali e la più pericolosa delle armi. E ce l’ho io, fra le mani, a illuminarmi il viso che dimostra fiero i segni di un grande dolore divenuto esperienza. Temo il mio sorriso che taglia il cuore in due come una sega elettrica, che attraversa il cuore e non si ferma davanti a niente come un proiettile, che schiaccia il cuore come un pesante sasso lasciato andare da una mano arrabbiata e stanca di comportarsi bene. E quindi mi comporto male. Male come mi insegnano tutti i giorni coloro che hanno aiutato il mio sorriso a nutrirsi nell’ombra e crescere indisturbato.
    Adesso provaci a parlare di me. Provaci a infilare il mio nome in una battuta sgradevole e sorridendo infilerò un chiodo nella carne, centrando il visibile bersaglio rosso al centro della tua fronte. Con la forza delle mani lo spingerò in profondità finché, a un certo punto, smetterai di parlare, perché non si può durare a lungo se un chiodo ti attraversa la testa, e io non avrò sprecato il fiato per neanche una parola.
    In questo preciso momento smetto di domandarmi come hai potuto e come puoi. Un interrogativo che mi ha fatto compagnia un anno e più finché ho dimenticato la forza di un sogno spento da un candido fiocco di neve. Ne è bastata una manciata a farmi sentire più fragile di un gatto inzuppato. I miei occhi adesso non piangono più, nonostante qualcosa cambi posto e destabilizzi l’equilibrio ogni volta che t’incontro. Prima erano colonne portanti, poi mattoni, adesso pezzi di cemento rimasti incollati che non sono mai serviti a niente. Ben venga che si stacchino e cadano per strada dove l’acqua di mille piogge li avvolge e li trascina in rivoli verso la fogna più vicina. Il giusto posto per ospitare tutto quello che appartiene a te e non più a me che non sono mai appartenuto a te. Il chiodo è il mio sorriso che non cambia mentre tu, davanti ai miei occhi lucidi di martini vodka, oltraggi il bel ricordo del passato.
    Avvicinati adesso e vediamo chi vince. Mi dispiace soltanto per chi non c’entra niente e per sbaglio, non volendo, ferisco giornalmente.

    Scrivi un commento →: Il chiodo è il mio sorriso
  • Ho riflettuto domandandomi se andare avanti col racconto della serata luxuriana oppure bypassare e parlarvi del mio vicino che l’altra sera ha avuto una crisi isterica e ha scaraventato i giochi del figlio per tutto il giardino e ha pure dato un calcio a una sedia di plastica. Le promesse vanno mantenute e io ne avevo una con voi che siete il mio fedelissimo gruppo d’ascolto (cinque elementi, quando nonna non sta male). Perciò se scrivo: E chi compare a un certo punto? Ve lo dico nel prossimo post, adesso mi tocca dirvelo. Forse non è politicamente corretto raccontare e associare le mie considerazioni a nomi e cognomi noti. Se non le associo, però, non fanno più ridere pertanto verrebbe a cadere l’unico motivo che mi spinge a raccontarle. Facciamo un esempio: Fabiani Alessia. I più datati la ricorderanno. Quella che faceva ullalla-ullalla-ullallallà su Canale 5, per intenderci. Non si può certo dire che rappresenti l’interesse incarnato in un essere umano. Non sa cantare, non sa ballare, non sa recitare, non sa parlare e da qualche tempo è diventata pure bruttina. Per essere interessanti a prescindere bisogna possedere almeno una qualità. Basterebbe che lei fosse campionessa mondiale di rutti per meritarsi un riconoscimento fra la folla e invece neanche quelli sa fare. Non è una colpa non essere interessanti a prescindere, solo un dato di fatto. Devo però pensare che sia (o sia stata, parlare al passato mi pare più rispondente a verità) interessante per qualcuno, se l’hanno parcheggiata in televisione a fare coccodè davanti alle telecamere e a rincorrere il becchime per i palcoscenici vestita soltanto di un trasparente straccetto avvolgente il culo e trasparente pure quello (il culo). Ebbene, questo post vuol difendere una delle tante vittime che l’ingenuità ha portato a immolarsi alle lame dei mass media e delle cattive compagnie con le quali ha fatto irruzione nella festa tentando di sottrarre i riflettori alla scatenata Vladi che, con costante movimento d’anca ritmico come quello di un pendolo, oscillava sul balconcino scambiandosi occhiate d’intesa con Paola Concia. Il motto di questo post sarà: Restituiamo dignità ad Alessia Fabiani! Sottotitolo: Come se ce l’avesse mai avuta; porterò alla causa valide argomentazioni. Partiamo da un assioma. Io considero Alessia Fabiani una presenza rilevante. Ehi, dove siete finiti tutti? Ho come la sensazione che la pausa di respiro dopo il punto si sia trasformata in un silenzio eterno per il mio gruppo d’ascolto dileguatosi nella nebbia. Prima di cliccare sul bottone rosso con la X in alto a destra fatemi spiegare però! “Spiega spiega, intanto noi ci leggiamo l’ultimo post di Carolina Cutolo. Lei sì che è una vera scrittrice pornoromantica!” C’avete ragione, comunque Alessia è una brava ragazza. Non beve se non acqua liscia e succo al mango e soprattutto non si droga. In effetti è assurdo che sia stata coinvolta nell’inchiesta ribattezzata Vallettopoli, che poi lei mica è una semplice valletta, lei è un’artista della TV quindi anche solo per questo avrebbe meritato di non comparire nell’elenco; addirittura additata come una cocainomane… ma scherziamo? Mica è colpa di qualche sostanza strana o di qualche bibita strana (non ne beve ho detto!) se di tanto in tanto sbandava aggrappandosi a qualcuno o sbatteva alle pareti o si faceva largo fra la gente con violenza scansando i corpi di chi neanche la vedeva compreso quello di un mio gracile amico. Queste della droga sono illazioni in alcun modo giustificabili e poi un po’ di rispetto per una ragazza che ha faticosamente raggiunto il traguardo della laurea in Scienze dei Beni Culturali con una tesi sul balletto russo (vi giuro!) votazione 104/110 quindi sciacquatevi la bocca prima di giudicare una dottoressa! Della sua cultura ne ha dato prova a me personalmente quando dopo aver letto un suo stato di Facebook le ho fatto notare che ‘cagnolini’ si scrive con la gn e non ‘caniolini’ senza g e con la i come l’aveva scritto lei. Dall’alto della sua riconosciuta autoironia prima mi ha rimosso dagli amici (ce l’avevo perché per me è una presenza rilevante, lo ribadisco) e poi mi ha mandato il seguente messaggio privato: “Babbo!” che ancora sto tentando di interpretare e non credo sia legato a un improvviso bisogno paterno. Mi sa che s’è dimenticata una lettera pure qua, va be’. Comunque io sono soltanto uno dei milioni di italiani che la amano e da sempre la sostengono. Giusto per farvi realizzare la portata del fenomeno basta citarvi il momento clou della serata quando lo speaker eccita la folla con un “Qui, solo per vòòòi… Alessia Fabiani!” e la folla risponde con uno sconfinato, ma che dico sconfinato, travolgente, trascinante, irresistibile, quasi violento direi silenzio di tomba. Ho visto uno addirittura ingurgitare alla calata tutti i suoi cento gradi di cocktail pur di mostrarsi impegnato a fare altro e non applaudire. Quello che voglio dire con questo post è che nonostante tutti gli sforzi che abbiano fatto per far sentire noi umili mortali desiderosi e invidiosi del loro mondo dorato, lì sul balconcino inaccessibile ai più, io ho provato una gran pena, mi sono sentito fortunato rispetto a loro che continuano a bruciare ogni giorno di più tutto quello che gli rimane.

    Scrivi un commento →: Alessia Fabiani un po’ bruciata (poco poco)

sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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