Il ritorno di Stefany

La mia macchina aziendale

La mia macchina aziendale

Stefany dell’agenzia interinale Adecco è la mia nuova stalker personale. Mi telefona più lei che Madre. (Ehi Madre, sono io! Il tuo primogenito rifiutato, ricordi? Sono qui, a Firenze, da solo, in una straniera città. Non ti viene voglia di sapere come sto, che faccio, se sono vivo… mai?) Torniamo a Stefany di Adecco. Si è messa in mente che sarò proprio io il responsabile che stanno cercando in una nota catena di ristoranti. Non faccio il nome, ma sono i soliti molto fast che stanno nei centri commerciali.
Lei è perfetto, Matteo. Non sa quanto ho dovuto faticare per trovarla nella nostra banca dati Adecco. Povera! Quasi mi pare di sentire lo sgocciolio del sudore a terra. E’ l’unico su Firenze, Prato e Pistoia ad avere certe caratteristiche, conclude in procinto di un orgasmo. Le caratteristiche in questione sono riassumibili nell’aver lavorato per cinque anni in un McDonald’s. Chi ci riesce a stare cinque anni dentro a un McDonald’s? si sarà domandata la Stefany. Lancia gridolini al telefono, è estasiata dalla mia esistenza, e io lì per lì non me la  sento di contraddirla. Vado a fare il colloquio.
Il ristorante si trova all’interno di un gigantesco centro commerciale molto fuori città – in un’altra città, per essere precisi – raggiungibile soltanto in taxi. L’autista Marcello mi bombarda di domande. Mi chiede pure qual è il titolo del mio ultimo romanzo. (La domanda precedente era: Ma non fai niente nella vita oltre a cercare lavoro? E allora gliel’ho dovuto dire per forza che scrivo. Mica potevo lasciare a Marcello la sensazione di aver parlato con un perditempo!) Ma gli scrittori non è gente ricca? mi domanda. Qualcuno sì. Gli altri sono condannati a morire di stenti. Io sono uno di quelli degli stenti, rispondo, ben sapendo che la sua parlantina fa parte di un subdolo piano per distrarre il passeggero e allungare il tragitto più del dovuto. Vorrei anche consigliare a Marcello di non iniziare mai una frase con ma. Poi penso che io lo faccio spesso, e allora sto zitto. Mi saluta con un commovente: Ricordati che la cultura non è acqua! e io, per l’appunto, mi commuovo. Finalmente qualcuno che si accorge della mia cultura così evidente, penso. Lo saluto, chiudo lo sportello. Ehi, i soldi bello!, esclama lui dal finestrino. Gli allungo 15 euro, se ne va. Mi volto e mi sento triste davanti a questo gigantesco centro commerciale con le vetrate luminose immerso non so dove in un buio di niente.
L’unico colloquio che desideravo intimamente andasse male invece va benissimo. Sono entusiasti di me. Tutto dipende da te. Siamo certi che diventerai un grande manager. Ti si legge negli occhi, mi caricano, mi esaltano. Faccio per dirgli che io me ne sono andato dal McDonald’s anche per questo. Io non voglio diventare manager di niente, non voglio comandare nessuno, non voglio essere odiato nella vita. E poi una vita la vorrei, ecco, invece quel lavoro te la toglie. Poi penso a Stefany di Adecco che ci tiene tanto che io venga assunto, che mi ha telefonato quattro volte in un giorno, pure per sapere se avessi trovato un taxi, e se il taxi che avevo trovato mi avesse condotto nel luogo giusto. Allora costruisco il mio sguardo onnipotente e cinico. Facciamo finta che sia un gioco, e io lo voglio vincere, mi convinco. Racconto di episodi al McDonald’s partoriti dalla mia fervida fantasia, tutti caratterizzati dal fatto che a un certo punto arrivavo io e risolvevo le questioni brillantemente. Con le buone, ma soprattutto con le cattive. Il capoarea pende dalle mie labbra. Io annuisco quando lui parla, assecondandolo. Sto andando benissimo, penso.
Ma cosa sto facendo? Sto interpretando un personaggio che non mi appartiene per farmi assumere per un lavoro che non mi interessa? Allora mollo la presa, mi limito ad ascoltare, rispondo con sufficienza; sono stanco di questa pagliacciata. Ma ormai non posso stravolgere l’idea che si son fatti di me. (Esempio di frase che inizia con ma.) E’ troppo tardi. Loro mi amano. Me lo dice Stefany un paio di giorni dopo: Desidero restituirti il feedback dell’azienda, come ti esprimi bene Stefany!
Le spiego che otto ore spezzate in due turni, a quaranta minuti di treno da casa, non sono fattibili. Se fossero state consecutive, magari… E’ lo spezzato il problema, ho la brillante idea di sottolineare. Stefany al telefono ha un tono colpito, ma non affondato. Anzi, dalla cornetta mi arriva una specie di sibilo di vendetta. Stefany ha un piano B, penso.
Due giorni dopo mi telefona una donna. Matteo, mi chiamo Adoriana, sono la responsabile regionale della catena di ristoranti Chisaitu. Ha fatto una così buona impressione ai miei… subalterni, che ci tenevo a scambiare quattro chiacchiere con lei. Mi ha dato il suo numero Stefany di Adecco. Lo sapevo, lo sapevo! Potrebbe spiegarmi come mai non vuol provare a entrare nel nostro staff?
Si è scomodata addirittura la responsabile regionale. La ringrazio per cotanta premura. Vorrei essere sincero con Adoriana, dirle che mi sono fatto un mazzo tanto per laurearmi in Informatica. Che me ne sono andato da L’Aquila, ho lasciato il vecchio lavoro, analogo a quello che lei mi stava offrendo con tanto ardore, perché non stavo bene, non ero felice. Sono venuto a stare a Firenze per cercare qualcosa che sia più vicino alle mie inclinazioni. A queste parole che non le dico vorrei anche aggiungere che dentro a una specie di fast food non ci metto piede neanche più per mangiare, ma no. Mi limito a ripeterle la storia dello spezzato, con l’ingenua certezza che in un ristorante che fra il pranzo e la cena chiude non sia davvero possibile fare otto ore consecutive. C’è qualcosa che mi dice che mi sbaglio. Una sensazione sottile come il piano B di Stefany. Mi aggrappo all’irrisolvibilità del problema logistico del doppio turno, e Adoriana mi frega. Bene Matteo, le prometto che cercherò di capire se è possibile farle fare un full time senza spezzarle il turno. La farò richiamare da Stefany di Adecco appena avrò notizie al riguardo.
In attesa della chiamata di Stefany – arriverà, lo so – quel che è certo è che devo procurarmi una macchina. Ogni colloquio diventa un’avventura, e le avventure possono anche trasformarsi in disavventure. Oggi si è sentita male una signora con un bigodino, e Trenitalia, nella figura del personale a bordo, ha pensato di fermare il treno ed evacuarlo. Cioè di buttare fuori tutti i passeggeri tranne la moribonda, che hanno fatto stendere nell’ampio spazio fra un vagone e l’altro, per terra e con le gambe all’insù sulla porta, in attesa del 118. Non sarebbe stato più logico il contrario? Non dico di abbandonarla sui binari, per carità, ma trovarle una collocazione confortevole in stazione senza dover bloccare un treno pieno. Con tutto il rispetto per la moribonda eh.
Quindi, cari amici miei, o mi regalate un’auto a km 0 – cercatela pure qui, può andar bene la Ferrari dell’immagine – oppure sarò costretto a recuperare il mio scassone dal garage di villa Madre, a L’Aquila, e condurlo di fronte casa mia, l’unica zona di Firenze dove striscia blu sta per: Parcheggia tanto qua i vigili non passano mai.

Voglio segnalarvi due cosine letterarie, tanto per rimarcare che io con l’editoria c’entro comunque qualcosa. Ho letto “Come vivevano i felici” di Massimiliano Governi, una favola nera dove i soldi contano più degli affetti. Mi è così piaciuto che l’ho recensito su SoloLibri, qui. E poi ho intervistato nientepopodimenoche – rullo di folcloristici tamburelli – Matteo B. Bianchi, autore del romanzo supercult “Generation of love” e di molti altri, ma non solo. Ad esempio, lo sapevate che è stato fra gli autori di “Victor Victoria” su La7 e “Quelli che il calcio” su Rai2? L’intervista la trovate qui.