[Madre Philadelphia]

Per la celeberrima serie: Gli spassionati consigli di Matteo Grimaldi, va in onda il primo episodio del 2012: Compratevi un Kindle proprio mo’!
Voglio parlarvene da una settimana. Oggi me lo sarò ripetuto 1001 volte.
“Matteo, devi scriverci un post!” “Lo farò, stai calmo eh!” mi rispondevo, senza neppure aver bisogno di uno specchio, in un continuo conflitto fra il me che dimentica e il me che ricorda. Sono tornato a casa proprio con questo buon proposito, sopravvissuto a ore di sorrisi da paralisi facciale speranzosi di ottenere cose, in una domenica in cui pure i gatti dormono. Il mio buono stato di salute serale è un particolare affatto scontato, che non riflette le reali sensazioni di morte per accoltellamento da cazzate acuminate, provate ora dopo ora. Un bombardamento di stancanti inutilità, a cominciare dal lavoro, per finire pure al centro commerciale, delle quali me ne fregava tanto quanto Maria De Filippi potrebbe sentirsi eccitata in un talk show dal tema scottante La femminilità oggi.
Finalmente a casa, ho affrontato con la dovuta cautela l’esperimento culinario di Madre. Lei sa bene che ho scelto la strada della dieta dissociata come rimedio all’ingolfamento natalizio. Consiste in un pasto in semi-digiuno e l’altro che compensa con un’abboffata vergognosa. Di solito funziona e nel giro di qualche settimana mi sgonfio. Madre dice che sto ottenendo ottimi risultati.
“Ti si sta dissociando il cervello a vista d’occhio!”
Oggi insalatina per pranzo e a cena 4 involtini preceduti da un aperitivo ipercalorico. E che involtini! Ogni volta che Madre incappa nella nuova pubblicità della Philadelphia, dice ad alta voce: “Domani li faccio!”. Uno spera sempre che quel domani non arrivi mai, e invece è arrivato ed è diventato l’oggi. L’unico problema è che le sfuggiva qualche dettaglio su come bisognasse tagliare le zucchine, e sulla salvia, se andasse all’interno oppure sulla superficie e in quale quantità. La pubblicità non è più passata. Alla fine ha dovuto fare di testa sua, dopo aver maledetto più volte la tivvù che parla e straparla sempre, tranne quando dovrebbe (perché interessa a lei). Ma, si sa, a Madre non manca certo la fantasia e a me lo spirito di adattamento, né quello di sopravvivenza. Gli involtini con Philadelphia, anche detti alla Madre maniera, mi aspettavano cadaveri nel piatto, cotti e mangiati (citazione dotta).
“Come hai risolto poi con le zucchine?” domando fissando la cremina verdognola su cui stanno adagiati 4 rotoli di carne infilzati da uno stuzzicadenti. A prima vista mi paiono… sì, insomma, amputati! Ci siamo capiti. La signora Bobbitt ci sarebbe andata a nozze.
“Le ho tagliate a cubi, solo che forse dovevo farli poco poco più piccoli.”
Proprio in quell’istante avverto un brivido al palato. Un pezzo di zucchina duro e gelido s’incastra nel dente del giudizio destro dell’arcata superiore. Cerco di mandare la lingua in fondo, nel tentativo di rimuovere il blocco d’ortaggio. Madre interpreta la mia espressione fra il concentrato e l’atterrito. Pensa che le voglia dire con gli occhi che i suoi involtini fanno schifo, che non abbia il coraggio di farlo con le parole. Invece sto solo tentando di staccare dal dente quella stalagmite verde dalla quale irradiano brividi inarrestabili che mi percorrono il corpo provocandomi delle micro-convulsioni ravvicinate.
“Non sputare nel piatto, per favore! È una cosa che odio.”
“No voio spuare…” questa maledetta zucchina glaciale mi sta uccidendo e non riesco neanche a parlare.
“E comunque non l’ho ideata io la ricetta, e lo sai.” Prepara la sua auto-difesa.
“No, ma infatti. Però forse ueste zucchi… si sarebbero otte mejo se e aessi taiate iù iccoe!”
Senza far storie ingoio tutti i pezzi di zucchine contenuti nei 4 involtini di pollo e ripulisco il piatto asciugando la cremina con una fetta di pane. Madre sa bene che le zucchine non andavano tagliate così, però deve dire qualcosa che la scagioni completamente dall’ennesimo fallimento ai fornelli.
“Strano che Rosanna non abbia scelto questi involtini alla Philadelphia con zucchine, fra le sue ricette consigliate. Si vede che sapeva benissimo che non sarebbero stati ‘sto gran che.”
Parla della Lambertucci e del suo magazine Più sani Più belli col ricettario Mangiare Benissimo del quale si è fatta mettere da parte dall’edicolante tutti i numeri. La chiama solo per nome. Ormai sono diventate amiche.
“Mamma, anche avesse voluto, penso che non avrebbe potuto fare pubblicità a Philadelphia!”
“E perché? Di pubblicità ne fanno tante!”
“Sì, ma sono pagati per parlar bene di questo e di quello, mica lo fanno per dare consigli a te e agli spettatori, perché gli state simpatici!”
“Beh, si faccia pagare da Philadelphia!” È tutto così semplice per lei.  “Senti, ti sono piaciuti i miei involtini?” sbotta decisa.
Al mio tentennante: “Sì…” socchiude gli occhi sospettosa e allora mi correggo: “So, cioè… ni… insomma non erano male però…”
Madre: “Facevano schifo. Schifo, schifo. Non comprerò mai più una scatoletta di Philadelphia in vita mia”. A qualcuno o qualcosa doveva pur darla la colpa!
Per agevolare la digestione mi sono buttato con tuffo a bomba sul letto, pronto a scrivervi del Kindle. Poi mi è tornata in mente Becky Bloomwood  e sono tornato alle pagine (virtuali) di ‘I love shopping con mia sorella’, il quarto episodio della serie. L’ho pagato 3.99 euro sul Kindle Store di Amazon.it assieme ad altri 16 libri presi in 6 giorni, per un totale di 21.86 euro, più di 2 euro in meno del prezzo di copertina dell’ultimo romanzo di Stephen King ‘22/11/63’ (23.90 euro), tanto per fare un esempio. Vorrei leggerlo, perché tutti ne parlano e ne scrivono bene. Pare che il Re sia tornato all’antico splendore narrativo. Pure Licia Troisi me l’ha consigliato su Twitter. Lo prenderò non appena uscirà la versione digitale. Insomma, il Kindle è bello e ve ne parlerò, così, per dare un senso di chiusura e completezza al post.

Quando un maleducato vi offende, lasciate parlare il demone che è in voi

I camini di tutto il mondo (tranne il mio) si sono risvegliati appesantiti da calze puzzolenti gonfie di dolciumi (il massimo dell’igiene proprio). Una vecchia notevolmente brutta – se fossi stato di buonumore, avrei detto diversamente bella – persevera nonostante l’età che, a parer mio, sarebbe sufficiente a farle meritare un sacrosanto riposo senile. Per via della manovra del professor Monti, sarà costretta a volare al vento gelido di gennaio, culo in sella alla sua scopa, per molti anni ancora. È inutile che dite che a 60anni si è stanchi, debilitati, perché non è così. A 60anni siete nel pieno del vostro vigore, convincetevene, quindi dovete lavorare duro e più di prima. E pure a 70 e a 7mila. Capito Befana?
Si avverte la mia sottile inquietudine? Non è per la calza mancata, credetemi! (Al primo che mi offre una caramella gli rispondo che se la può infilare su per il solito buco.) È per ciò che mi è capitato ieri e che merita di essere condiviso, nonostante desideri da giorni parlarvi del mio nuovo Kindle. Ero al lavoro. Il mio è un lavoro di fatica e basta, non molta, ma non di testa. Pensate a un part-time in un ristorante in cui devi fare più o meno la stessa cosa per 5 ore al giorno, a orari variabili. Ci sono dei responsabili che coordinano il turno. Un tempo ero uno di quelli. Poi, per mia decisione, sono tornato un umile operaio. In particolare per:
– Le ore lavorative giornaliere del responsabile. Di base 8, possono arrivare anche a 10. Se serve, devi andare a lavoro quando avresti riposo. Ore che fra l’altro non corrispondono alle ore pagate: sempre e solo 8. Se sei un responsabile, gli straordinari non esistono perché: “Dovete imparare a gestire il vostro tempo e riuscire a fare tutto nelle 8 ore in cui siete pagati”. Sì, poi saluti e vai via quando è ora e ti guardano storto: “Sei peggio di uno statale!”.
– La paga di un responsabile. Coincide con quella di un operaio + circa 200 euro. Cioè, se io a 5 ore prendo 820 barra 850 nette, loro, a 8 barra 10 ore, ne prendono 1000 e qualche spicciolo, raramente 1100.
Fare il responsabile e ambire a salire la gerarchia dell’impero (vice-direttore, direttore) sotto certi punti di vista può anche essere interessante, ma non faceva per me. Ho avuto un’opportunità e, per inseguirla con qualche speranza di raggiungerla, avevo bisogno di maggiore tempo libero. Questo, unito ai 2 aspetti pocanzi analizzati e preceduti da una lineetta, mi ha fatto fare un passo indietro. Continuo a considerare la scelta di auto-declassarmi come una delle più azzeccate mai fatte. Bene. Sento i vostri Machissenefotte! tuonare nell’aria e li comprendo. Questa piccola finestra sulla mia vita, dal grado intrinseco di interesse vicino a meno infinito, è funzionale perché possiate comprendere l’episodio di ieri sera. Il momento in cui un responsabile, per il quale provo una stima pari al grado di interesse della piccola finestra sulla mia vita, si è rivolto a me con queste parole: “Tu pensa a passare la scopa!”.
Non che passare la scopa sia degradante. Lo faccio tutti i giorni col sorriso. Il modo in cui l’ha detto, però, non mi è piaciuto, e sto usando un eufemismo. Il suo tono, evidentemente mirato a umiliarmi, ha risvegliato il mio amico demone sornione. Vive dentro di me, come l’alieno nel cuore della signora bionda, spesso ospite del buon vecchio Maurizio Costanzo (ex-Show). Nel mio caso il demone dorme per il 93 per 100 del tempo. Quando qualcuno mi offende, lui si risveglia. In quel caso non sono più io a parlare, ma lui per bocca mia. È che io davanti alla maleducazione perdo il controllo (ma mai l’educazione) e rispondo. Così ho fatto ieri. Non ho ancora capito se a una persona maleducata, che ti offende, bisogna rispondere con la stessa o simile moneta, oppure fregarsene in virtù di una superiorità evidente a tutti. Se non avessi il piacere di ospitare Demo (non Morselli, ma il demone), mi verrebbe facilissimo scegliere il silenzio, magari il sorriso freddo e l’indifferenza. Poi mi ci trovo e continuo a credere che ci sono cose nella vita che si risolvono solo con un vaffanculo.

Se nessun editore vi pubblica, forse è perché

Dopo aver commentato l’ultimo articolo della coraggiosa Michela Murgia, pronta a prendersi anche gli insulti pur di dire la sua sugli autori che si auto-producono (argomento che mi fa sempre molto incazzare), scrivo per raccontarvi del mio Kindle. Anzi, fatemi tornare un attimo solo sulla questione, per favore perché non ce la faccio a tacere.
Io capisco tutta la fatica, le attese insostenibili, le non-risposte, i rifiuti editoriali prestampati, le sensazioni di impotenza e inadeguatezza. Giuro che capisco tutto, non foss’altro che per il viverle quotidianamente, però a differenza di coloro i quali paiono proprio non riuscire ad andare oltre la convinzione: “Se non ti raccomanda nessuno, sappi che l’unico modo per pubblicare è versare 3mila euro all’editore (vampiro)!”, sono convinto che se un manoscritto ha dignità di pubblicazione, prima o poi qualcuno lo noterà e quindi lo porterà in libreria.
Se ciò non dovesse accadere, è vero che ci sono le (solite) attenuanti:
I grandi editori fanno fatica a leggere per bene i manoscritti che ricevono (figuriamoci i piccoli). Il perché è semplice. Per valutare centinaia di manoscritti al mese, ci vogliono risorse a sufficienza e non è pensabile pagare centinaia di lettori. Oppure voi, lamentosi autori emergenti, leggereste forse gratis decine di (quasi sempre) brutti libri altrui al mese? No, perché io non lo farei. Prima di arrivare alla decisione di pubblicare un testo, bisogna leggerlo per bene e pure più volte. Non è detto che si debba analizzarlo dalla prima all’ultima sillaba, almeno nella valutazione preliminare che quasi nessun manoscritto supera. Per capire se può valer la pena valutarlo attentamente, bastano una quarantina di righe prese a caso, e quelle vi garantisco che qualcuno le legge prima di buttarlo nel secchio. Se non lo butta subito, magari ne legge un altro po’ e a quel punto tutto può essere. Pure che appaia Maria (De Filippi) e vi chieda di scrivere il nuovo libro di Amici, a 4 mani con Luca Zanforlin.
Non avere un agente significa partire svantaggiati. Gli autori rappresentati da un buon agente letterario hanno qualche possibilità in più di raggiungere la meta rispetto a chi si ostina a spedire il proprio romanzo, di 1450 pagine di struggente amore medievale, pure all’indirizzo di Tv Sorrisi & Canzoni. Non è che i buoni agenti letterari si trovino per strada, né trovarlo significa essere raccomandati. Da chi, dall’agente? Chiariamo pure questo, se no sembra che l’agente sia il pappone delle veline. L’agente decide di rappresentare un autore se ritiene che il suo manoscritto valga la pena. Quando vale la pena? Vale la pena se l’agente pensa di riuscire a piazzarlo presso un buon editore e magari di guadagnarci pure un po’, visto che il compenso di un buon agente è dato da una percentuale sui diritti spettanti all’autore. Un buon agente non può stare a perder tempo con tutti coloro i quali bramano la pubblicazione, ma deve lui stesso operare una severa selezione per potersi dedicare soltanto a quei manoscritti e autori che a fine mese gli porteranno in tasca qualcosa, sperabilmente tanto. Immaginate un agente che se ne va in giro per editori a proporre una schifezza. Perderebbe di credibilità e perderebbe tempo perché, nonostante lui sia un bravo agente, è difficile che l’editore deciderà di pubblicare il libro-schifezza. Un buon agente non può permettersi di perdere tempo, tantomeno credibilità, quindi se un autore riesce a trovare un buon agente, è perché se lo merita. La ripetizione fino alla nausea di buon prima di agente non è casuale; occhio che cascate male!
Il manoscritto è finito per sbaglio nel tritacarte. La redattrice necessitava di un blocchetto per gli appunti e ha inavvertitamente scambiato il vostro malloppo di fogli capovolto per l’oggetto dei suoi desideri. La postina ha scoperto che siete aspiranti scrittori; da quel momento apre tutti i pacchi in partenza da casa vostra verso le sedi delle case editrici italiane. L’ha fatto di nuovo, impadronendosi stavolta proprio del manoscritto destinato all’unico editore che vi avrebbe detto Sì.
Insomma, tolti inconvenienti di rara probabilità, ai quali aggiungerei anche l’iniziativa di qualche noto autore di pubblicare a suo nome il vostro romanzo, del quale è venuto in possesso per caso e, tanto che ci stiamo, pure i rapimenti alieni, mi sento di dire che, se il benedetto manoscritto è stato rifiutato, anche solo col silenzio eterno di tutti, beh, provate almeno a vagliare l’ipotesi che quello che avete scritto non sia all’altezza. No che vi vendete al primo stronzo che chiede danaro in cambio di una brutta edizione che non comprerà nessuno, perché nessuno ne verrà mai a conoscenza. Buon per voi, mi vien da dire.
Io non so perché ho scritto questo post che vi giuro non volevo scrivere. Non mi volevo arrabbiare e volevo parlarvi del mio nuovo Kindle. Mi sono arrabbiato e non vi ho parlato del mio Kindle. Ma come fai a non arrabbiarti quando leggi commenti così fuori dal mondo? (Clicca qui!) Sostegno da parte mia a Michela Murgia, che è una che non le manda a dire.

21/12/2012 – un post per capire come erano fatte le agendine dei Maya

Col countdown di Barbara D’Urso si apre ufficialmente l’ultimo anno dell’era che il calendario inventato dai Maya chiama dell’oro, la cui conclusione cade, come ben sapete tutti, il 21 dicembre prossimo. Naturalmente, il solo fatto che il calendario finisca non prova che il mondo o la vita finiranno. Scrivere un post sui Maya mi alletta giusto un pelino di più che scriverlo su Fabio Volo. Volevo capirci qualcosa pure io su come erano fatte le agendine maya, quindi eccoci qua. Mente aperta e occhio vigile, tuffiamoci nel meraviglioso oceano del mistero, della magia, della scienza (delle puttanate. Ehm) e vediamo dove andremo a finire.
Intanto di previsioni catastrofiche sulla fine della nostra umanità ne sono state fatte millemila. S’è sbizzarrito pure Gesù Cristo che esclamò: “1000 e non più di 1000!”. Ricordate? Sono parole dell’Apocalisse, in cui a un certo punto si dice: “Dopo 1000 anni Satana sarà disciolto” che vuol dire liberato. Bene, siamo al 2012 eppure di Satana qua, eccezion fatta per il Berlu e la Vanna Marchi, ancora non se ne vedono all’orizzonte. Non che ne sentiamo la mancanza, per carità, però se ha toppato Gesù Cristo in persona, è presumibile che possano farlo a breve pure i Maya, posto che intendessero far corrispondere il termine del loro complicatissimo calendario con quello della permanenza dell’uomo sulla Terra. Capire se questa della fine del mondo è una teoria percorribile, oppure se si tratta della solita credenza amplificata dal vociare popolare e da chi ci vede danaro zampillare, come acqua da una sorgente miracolosa, non è cosa facile. Vi anticipo subito che non ci riusciremo. Quello che il post si prefigge è fornire qualche informazione in più per ragionare da soli, senza dover ricorrere al solito gioco del telefono senza fili.
Intanto ripassiamoci la definizione di calendario, che non è il conto alla rovescia fino alla fine del mondo, ma un sistema adottato dall’uomo per suddividere, calcolare e dare un nome ai vari periodi di tempo che sono appunto le date del calendario. Il calendario Maya, chiamato anche calendario Azteco, a livello di concetto non è molto diverso dal nostro detto Gregoriano, né da quello di qualunque popolazione che intenda misurare il tempo e dare un nome ai giorni. Il nostro arriva al 31 dicembre e poi ricomincia, quello Maya è basato su più cicli di durata diversa.
– Il ciclo Tzolkin aveva una durata di 260 giorni ed era un calendario religioso.
– Il ciclo Haab aveva una durata di 360 giorni, più i 5 giorni fuori dal tempo. Era un calendario civile legato alle stagioni che per durata corrisponde al nostro singolo anno, con la differenza che il loro era composto da 18 mesi di 20 giorni dai nomi fantasiosi. A questi si aggiungevano 5 giorni chiamati Uayeb, con i quali si raggiungeva la durata di 365 giorni. Questi 5 giorni erano considerati particolarmente sfortunati perché non appartenevano a nessuno dei mesi del calendario.
– Il Lungo computo indicava il numero di giorni dall’inizio dell’era Maya.
È proprio l’interpretazione di questo Lungo computo ad aver causato la nascita della sventurata previsione. I giorni sono numerati con uno strano sistema. Invece di scrivere i numeri come facciamo noi, con ciascun posto che rappresenta un multiplo di 10, i Maya avevano a disposizione solo 5 posizioni. La prima registrava un numero da 0 a 20. A sinistra, il secondo posto poteva avere un intervallo tra 0 e 17; il terzo da 0 a 19; il quarto da 0 a 19 e l’ultimo da 1 a 13. I numeri erano scritti da destra a sinistra, come nel nostro sistema, separati da un punto. Invece di multipli di 10, la prima posizione aveva multipli di 1 (come il nostro sistema); la seconda posizione aveva un multiplo di 20; la terza posizione un multiplo di 360; la quarta un multiplo di 7200 e la quinta un multiplo di 144000.
Quindi un numero del Lungo computo ad esempio poteva essere scritto come 4.12.5.9.0 e sarebbe stato calcolato come segue:
(4 x 144000) + (12 x 7200) + (5 x 360) + (9 x 20) + (0 + 1) che corrisponde a un lungo conto di 664391 giorni, cioè circa 1820 anni.
Non è difficile realizzare che il massimo numero che può essere registrato in questo modo sarebbe 13.19.19.17.20. Questo ammonta a un numero di lungo conto di 1.872.000 giorni o 5125.36 anni dei nostri moderni calcoli. Attraverso gli anni, gli archeologi hanno trovato monumenti scolpiti che registravano il lungo conto per date conosciute nella storia Maya. Una volta che una data veniva fissata nel tempo, era semplice determinare quale fosse il giorno 1, che risulta l’11 agosto 3114 a.C. Ed era anche semplice calcolare la data in cui il calendario sarebbe finito: il 21 dicembre 2012. Naturalmente il solo fatto che il calendario finisca non prova che quel tempo, o il mondo, o la vita pure finiranno.
Secondo i Maya, ciascun ciclo del Lungo computo corrisponde ad un’era del mondo; il passaggio da un’era all’altra è segnata dunque da un cambiamento positivo preceduto da eventi più o meno significativi. Ho detto prima che il numero più a sinistra va da 1 a 13: questo significa che, quando per effetto dei riporti precedenti questo numero supera il valore 1, deve fare wrap around e ritornare ad 1 invece di continuare con 14, 15, ecc. Detto questo, il giorno successivo al 12.19.19.17.19, se ho fatto bene le elementari, sarà semplicemente 1.0.0.0.0. Cosa facevano i Maya quando la cifra più a sinistra cambiava? Festeggiavano, dato che per loro era come una specie di Capodanno.
Il 21 dicembre insomma si resetterà un intero ciclo. Ebbene, vedete voi una connessione tra questo evento e la presunta fine del mondo? Io no, poi boh. Magari scoppia la Terra, che ne so.

[Madre 2012]

Alle 7 AM in punto facevo una cosa seduto comodo sulla tazza del cesso azzurro del primo piano di Villa Madre, quello destinato ai maschietti. Mentre eseguo quella cosa lì, ne devo sempre trovare un’altra da fare contemporaneamente per distrarmi. Se no, se mi concentro troppo, accade che, ciò che è per natura preposto all’espulsione, invece rimane dentro per dispetto. Visto che stamattina mi sono destato in modalità moderatamente anno-nuovo-vita-nuova, comunque molto invernale, sempre mentre il corpo si dedicava alla spinta, ho esplorato lo shop del mio Nokia 33 trentini, risalente all’epoca della storica nevicata del ’56, e ho scaricato un tema in linea con l’umore nevoso. Non so se l’hanno sparata pure sul monitor del mio telefono, come stanno facendo con gli impianti sciistici di mezza Italia, fatto sta che l’immagine dello sfondo adesso è semicoperta dall’effetto soffocante della neve. Al di là del suono, nessun segno di esistenza di nuovi messaggi e chiamate. La bustina lampeggiante posso soltanto immaginarla, perché è sepolta dal bianco candor.
Nonostante i seguenti 3 problemini tecnici…
– Leggo soltanto l’ultima cifra dei minuti e io non ho mai avuto un orologio da polso. La data mi sforzo di ricordarla; se non sbaglio dovrebbe rimanere la stessa per l’intera giornata. In compenso c’è la neve.
– Mi accorgo di un messaggio almeno 3 ore dopo, idem per le chiamate perse; il telefono di squillare non lo sento mai perché penso che non è mai il mio. In compenso c’è la neve.
– Dal momento in cui l’istallazione del tema invernale è andata a buon fine, ogni volta che prendo il telefono fra le mani vengo attraversato da un oggettivo brivido di freddo. Ne sono certo, per questo ho specificato oggettivo. In compenso c’è la neve. BRRR!
… mi garba. Quando cambio qualche impostazione grafica, ne ricevo un beneficio psicologico enorme al punto di convincermi di ciò che in effetti proprio non è. Ho chiamato il mio telefono iPhone, per dire. Può capitare per il troppo entusiasmo. Quando gli ho chiesto un caffè doppio in tazza grande, mi sono reso conto che no, non è un iPhone. Ieri sera guardavo l’iPhone (vero) di Niccolò appoggiato sul tavolo, poi gli occhi cadevano sul mio e mi veniva da vomitare.  Ieri ho festeggiato il mio personalissimo Capodanno con una sera di anticipo. Non era programmato che fossimo così in tanti. Quella che doveva essere una piccola gita fuoriporta per riabbracciare un amico, ché senza gli amici proprio non vale la pena secondo me, si è trasformata in una cena mega. Per la maggior parte ci siamo conosciuti a tavola. Abbiamo mangiato e brindato a volontà con dell’ottimo vino rosso che più andava giù e più il bicchiere si riempiva. Un antipasto di bruschette, salumi, pizze fritte e prosciutto e formaggio fritto che così mai nella vita e poi arrosticini e vino a non finire; hanno dovuto legarmi le mani alla sedia. Perdo il senso della misura toccando la condizione del pesce rosso, che più mangime gli butti nell’acqua e più lui mangia, finché a un certo punto esplode. Io stavo per esplodere. In viaggio per L’Aquila ho riflettuto su quanto poco serva a fare tanto, per me e per qualcuno, se fa piacere, se c’è unione. Mi accorgo che il segreto di un’amicizia durevole nel tempo infinito sta nella capacità di dirsi: Ti voglio bene.
L’ADSL è tornata come per magia, a ora di pranzo del 31/12, poi mi dicono che non devo credere alle apparizioni di Medjugorje. Paolo Brosio ha tutta la mia stima, e ne avrà ancora di più se riuscirà a ottenere da Mary Altissima che l’ADSL rimanga sulla terra di casa mia per tutti i secoli dei secoli, o almeno finché non sarò costretto a dipartire anch’io.
Intanto, col panettone ripieno di gelato ancora per molto sullo stomaco, sono arrivato alla fine di questo ultimo post dell’anno. Fra poco, fuori la finestra esploderà la gioia, più roboante del solito vista la voglia di buttarsi questi mesi alle spalle sperando in giorni un po’ migliori. Vado a brindare con Madre che, poco dopo il dolce, ha affrontato uno degli argomenti a lei più cari: la fine del mondo.
“Fra meno di un anno tutto il mondo finirà tranne in uno sperduto paesino della Francia. L’hanno detto Voyager e Toni Capuozzo.”
“Ancora non inizia il nuovo anno e già deve finire tutto?”
“Finirà e pure male!”
“Ah, e come mai? Ci saranno violentissimi terremoti? Erutteranno i vulcani di tutto il mondo? Precipiteranno meteore grandi come continenti?”
“No, la Terra farà un movimento diverso e poi si scatenerà l’inferno.”
“Ma la Terra fa gli stessi identici movimenti da milioni di anni!”
Madre: “Eh, si vede che si sarà rotta e ne farà uno diverso.”
Nell’attesa di scoprire quale sarà il passo di danza scelto dal nostro pianeta per concludere lo spettacolo fra gli applausi, proviamo a vivere quest’anno facendo tesoro degli errori passati. Lavoriamo sul nostro carattere per arrotondare gli spigoli, per riempire le mancanze, per dire: Ti voglio bene (Madre) un po’ di più. Ecco sì, quest’anno glielo voglio dire almeno una volta.
Aggiornamento delle 00.15
: Madre non ha potuto bere neppure un millilitro di spumante. Ha mangiato così tanto che una sola particella di gas potrebbe farla esplodere. Il suo primo proposito, dalla madre-poltrona: “Basta! L’anno prossimo voglio andare su una montagna e fare il cenone di Capodanno solo con radici ed erbacce lesse. Chi vuole mi segue”. Io mi prendo una decina di mesi per pensarci. Intanto buon 2012 a tutti!