[Vivere vivamente]

Non sono certo di possedere gli strumenti necessari a ingabbiare, fra paragrafi di parole, il flusso dei pensieri delle ultime settimane. Ogni giorno perdo un pezzetto d’immortalità. Il tempo che passa significa che ne avrò davanti sempre meno. È così, come l’acqua che al livello del mare va in ebollizione a 100 gradi o la regola della mosca schiacciata: ne arriverà un’altra e un’altra ancora, quindi lascio che m’infastidisca e amen. Questo scorrere inarrestabile dà ai giorni futuri un valore maggiore, direi ogni ora in più.
Sono ancora capace di vivere come un tempo? Vivere vivamente.
La mia piccola età gioiva della vita, l’assorbiva con naturalezza e, con la stessa naturalezza, la riproduceva. Produceva vita dalla vita. La lingua raccoglieva il sugo degli spaghetti aggrappato alle labbra. Neppure una bomba sulla casa del vicino avrebbe potuto disturbare il tempo del godimento. Questo vuol dire godersi la vita, mica fare chissà che. Assaporare il gusto della felicità senza che altri pensieri la sporchino. Non sapevo di riuscirci né sapevo che a un certo punto non ci sarei riuscito più. La felicità è più che raggiungibile. Altro che approdo lontanissimo del quale neppure riusciamo a scorgere la terraferma, a bordo della nostra personalissima zattera in tempesta. La felicità è il sughetto sulle labbra; la sabbia e i sassolini trasportati dall’onda, stritolati da due manine ciccione, mai stanche, per ore sotto il sole; ridere pensando solo a ridere. Una giornata intera passata insieme, coi cellulari spenti e gli abbracci frequenti in una città bellissima. Un pranzo con Madre che spiega dettagliatamente la ricetta del giorno modificata. Il timo e il dragoncello non ce li aveva. Ignorava persino l’esistenza di queste strane spezie.
“Cosa ne vuole capire la Lambertucci di cucina?”
E allora che male c’è a modificarle un po’; Madre sì che sa cucinare. Un film al cinema assieme a tutta la banda del quartiere, gli stessi ai quali ho portato via la palla perché a un certo punto mi sono accorto di non essere più al centro dell’attenzione. La palla è mia, si gioca grazie a me. Non si gioca più visto che. La pizza col prosciutto crudo all’alimentari, meta di una lunga camminata, con la mano nella mano di mio nonno. Quel sapore non l’ho più rincontrato, come pure nonno. Non ci riesce proprio a lasciarmi andare da solo; c’è il suo zampino pure nei brividini di adesso, lo so.
Posto che quella lì e cose così a 10 anni, a 12, a 15, a 18, a 24 erano felicità,  sarò capace di ritrovarla ancora, proprio perché saprò riprodurre quel vivere vivamente? Vivere senza paura, potrei dire. La paura d’altro, di dover soffrire senza sbagliare. A trent’anni ho smesso di assaporare il momento, perché quei pensieri che parevano così lontani adesso sono tanto vicini da appartenermi, mescolati alle cose dei grandi, alle cose brutte dei grandi.
I giochi nel piazzale di casa con “quelli dell’altra parte” son diventati i libri nella camera da letto, da solo. Un libro e la solitudine: il binomio perfetto per dire addio alla purezza e all’innocenza della mancanza di paure. Ho aperto gli occhi dopo una vita di sogni. Ho camminato a piedi scalzi per sentire l’erba solleticarmi; non ho mai pensato ai vetri rotti sparsi da chi o da cosa. Altrimenti sarei rimasto immobile, sul mio quadrato di terra che conosco a memoria, a guardare i giorni con la malinconia di chi sa che non riceverà una sorpresa. Invece sono arrivato al fiume. Mi sono accomodato sulla pietra che immaginavo proprio così, non troppo appuntita e tiepida; ho infilato gradualmente i piedi nell’acqua gelida di novembre.
Adesso.
– Ho paura di morire di freddo.
– Ho paura di morire dissanguato per i vetri.
– Ho paura di morire da solo.
– Ho paura di morire per colpa di un male che non dà sintomi.
– Ho paura di morire senza aver più vissuto vivamente.
– Ho paura di morire pure mentre succhio il ragù di uno spaghetto al dente, come piace a me.
Pensieri d’ospedale. Ci vado a trovare un’amica; c’è finita per un insopportabile dolore allo stomaco che non era un semplice mal di pancia. Dopo 12 giorni passati con un ago infilato nel braccio, a contare le bollicine che dalla sacca scendono attraverso il tubicino trasparente, sta meglio. Ieri ha potuto bere un bicchierone di carta di tè al limone caldo e inzupparci 4 fette biscottate integrali. Ho imparato molto da ieri. Si può essere felici anche solo di un tè al limone e di 4 fette biscottate integrali.