La normalità aquilana, con l’apostrofo però e tutto attaccato

Ieri sera, poco dopo le 11, un’altra scossetta ha fatto tremare il didietro agli aquilani. L’avrete sentito al TG di Rai1 e forse anche in altri, a seconda di quanto accade nel mondo e del grado di berlusconismo rilevato nel plasma di chi prepara i telegiornali al momento della scelta delle notizie da dare. In sostanza parlano dell’Aquila quando non sanno di che altra ceppa parlare. L’intensità registrata è di 3.3 e l’epicentro è ovviamente sotto casa mia. Non si capisce perché l’epicentro delle ultime 50mila scosse si localizza in un’area rettangolare di 500 metri quadrati al cui incrocio delle diagonali si piazza casa mia. Per fortuna a quell’ora mi trovavo dall’altra parte della città preso da faccende che mi hanno impedito di avvertirla a pieno, perché esse stesse piuttosto movimentate, e delle quali tacerò ulteriori specificazioni. Il corsivo è dovuto all’idea di città che ho io e mi sento di dire appartenente a chiunque, che non corrisponde nemmeno un po’ a quello che è L’Aquila da 2 anni e mezzo a questa parte, né a quello che sarà nei prossimi 100(mila) secoli. L’ottimismo c’entra poco. Io a L’Aquila ci vivo e lo so. Lo vedo tutti i giorni quello che fanno, o meglio dovrei dire: quello che non fanno per questa città. Per colpa di chi, per colpa di cosa, per colpa delle tasche piene di banconote, m’interessa relativamente, però mi scoccia quando sento dire che a L’Aquila è tornato tutto alla normalità.
Ma quale normalità?!  L’anormalità, forse.
Veniteci a vivere voi in questa sottospecie di Bronx di alcolizzati che non sanno più che inventarsi per vedere le loro giornate arrivare al tramonto e allora bevono e si drogano e si menano per le strade. Io esco poco e niente, perché qua i motivi per uscire te li fanno passare. La mia vita è piena zeppa di diversivi, opportunità, voci amate che la riempiono; fosse stato solo per la città, mi sarei sparato un colpo in testa da un bel pezzo.
Comunque, per rassicurare coloro i quali guardano la televisione e si allarmano, ieri sera tutto sotto controllo. 3.3 si avverte bene, ma non fa rotolar giù neppure una biglia da una mensolina.
Però ne parlano i TG. Dei 4 mesi di scosse in alcuni casi molto più intense, non se ne parlava. Quello pure era normale, anzi eravamo arrivati al punto di credere che fosse una gran fortuna. Qualche esperto ribadiva continuamente, con parole sempre diverse, ma il concetto non cambiava di una virgola: “Meglio che sfoga in un tempo lungo che in una botta unica”. Che culo eh?!
Peccato che non fosse quello il significato degli strani mesi, dei quali mi è rimasta in mente soprattutto la sensazione di confusione. Nessuno ci capiva niente e noi ci sentivamo rassicurati da stronzate basate su teorie inesistenti. Col senno di poi è facile parlare, so anche questo, ma non ci riesco proprio a lasciar perdere. Ho trovato il modo per liberarmi della rabbia, quella dopo un po’ si scoccia e ci lascia stare, vale per tutti i dolori. Questo però non impedisce alle mie parole di essere affilate come un tempo, perché è come se il tempo si fosse fermato.
Ci ho pensato, a questa cosa del tempo immobile, qualche settimana fa. Camminavo su una strada male illuminata per arrivare su un’altra dove avevo parcheggiato. Pensavo alla cena, a cosa potevo inventarmi a quell’ora in cui quasi tutta l’umanità europea era a letto e il mio stomaco non vedeva l’ombra di qualcosa di commestibile dall’una del pranzo. Fra quei pensieri irrilevanti, che potevano essere anche altri, non sarebbe cambiato nulla, ho visto un grande orologio sulla facciata di un palazzo rosso dalla vernice che sapeva di nuovo, evidentemente ristrutturato da poco. 2 gigantesche lancette di metallo segnavano un’ora: 3 e 32. L’ora in cui la notte del 6 aprile è finito il (nostro) mondo. Ho pensato che il simbolo voluto dal proprietario del palazzo per non dimenticare il grande dolore, avesse regione.
Quell’orologio funziona benissimo: segna l’ora in cui sopravviviamo paralizzati da oltre 30 mesi.