Di come ho trovato lavoro, e di quanto è stato bello quel giorno

Mi ero messo in testa di aprire una libreria. Non una comune libreria – a fine mese non ci avrei tirato fuori neanche i soldi per una confezione di gallette di riso di Lidl. (Proprio sicuri che sia riso?!)
La mia libreria sarebbe stata speciale, un luogo dove chiunque avrebbe potuto leggere gustando introvabili dolcetti al cioccolato. Si sarebbe chiamata Stoner, in onore del più bel romanzo che abbia mai letto.
(Beccatevi questo consiglio di lettura gratuito!)
Come molti di voi immagineranno, non è che un locale si apra così da un giorno all’altro, sebbene spuntino come funghi di bosco.
Bisogna informarsi, cercare, capire, ingegnarsi. Tutte cose che hanno a che fare con la pazienza: qualità della quale di certo non posso dichiararmi un campione del mondo.
Io volevo svegliarmi, fare una doccia, e andare ad aprire Stoner. Intrattenermi con tutti coloro che, come ogni mattina, erano da me per la mia rinomata colazione dolcissima. E invece non esisteva nessuna caffetteria zuccherosa, non mia almeno.
Era solo un’idea, e le idee vanno strutturate e sviluppate, prima ancora che capite.
Così ero stato alla Camera di Commercio, avevo parlato praticamente con tutti gli impiegati dell’ufficio Nuove Imprese. Mi ero informato sulle normative, i finanziamenti, su quali banche aderissero alle agevolazioni della Regione Toscana (quali agevolazioni?!), sull’affitto dei fondi della metratura di cui avevo bisogno, i costi di arredamento e allestimento, le zone più indicate, di passaggio e dove non ci fossero già caffè letterari simili al mio.

Risultato: Matte’, lascia proprio perde!

Ero totalmente fuori di testa, capite? Ma così fuori che non me ne importava niente dell’evidente impossibilità del mio progetto. Dovevo trovare un lavoro al più presto. E, visto che non c’era, dovevo inventarmelo.
Il mio umore era schizofrenico. Giorni di estrema contentezza, immotivata perlopiù, lasciavano il posto ad altri in cui restavo a casa, da solo, a pensare (in una stanzina stretta stretta). E poi di nuovo felicità chimica e abbattimento in una staffetta continua.
Tremendo!
Questi sono gli effetti di quando cambi città per cambiare vita, stai mesi in cerca di un lavoro – mica quello sognato. Ne basterebbe uno che vada più o meno bene per questa fase della tua vita – trascorri le giornate ad abbellire il curriculum  – pure il template dev’essere piacevole! – e nessuno ti risponde, neanche per dirti qualcosa del tipo: carino il font che hai usato per il nome e cognome.

Quel giorno avevo appuntamento con un tipo che vendeva il 49% della società di un caffè letterario conosciuto in città, in una zona di Firenze molto attiva culturalmente.
Camminavo a passo svelto, ero in ritardo. A un tratto il mio corpo ha fatto una brusca frenata, e non per mia volontà. Un cartello attaccato al vetro della libreria Giunti di Via Guicciardini mi ha arpionato gli occhi e aggrappato al terreno come un’àncora. Diceva più o meno (se mi ricordo bene, ma non mi ricordo bene):

Cercasi persona fra i venti e i quarant’anni, con precedenti esperienze in aziende strutturate, sincera passione per il mondo dei libri e predisposizione al contatto col pubblico.

Cioè… sono io!

Sono entrato e ho lasciato il mio curriculum editoriale. Ce l’avevo sempre dietro. Prima di uscire, il controllo chiavi/cellulare/portafogli si era arricchito di un elemento diventando: chiavi/cellulare/portafogli/curriculum.  L’occasione, anche se non la vedete, è spesso dietro qualche angolo. Vietato farsi cogliere impreparati!
Avevo messo in evidenza le mie pubblicazioni, le collaborazioni con i vari uffici stampa, il lavoro redazionale per SoloLibri.net. Perciò dico curriculum editoriale.
Altro piccolo consiglio gratuito. Diversificate le esperienze che avete fatto nel corso della vostra vita, e selezionate solo quelle di maggiore interesse per l’azienda alla quale state chiedendo un colloquio. Senza inventare nulla, per carità, puntate il faro su ciò che volete – e si spera sappiate – fare davvero, che fa di voi un valore aggiunto, un profilo da approfondire. Tagliate via tutto quello che non c’entra niente e che ci avete buttato dentro nella convinzione che tutto fa brodo. Non è vero!
Per dire, a un’azienda farmaceutica non frega niente se voi d’estate portate a passeggio i cagnolini del vicinato, e per questo vi retribuiscono anche lautamente, o vi siete comprati un chiosco con le ruote e vendete abusivamente limonate ai bambini del parchetto. Magari queste cose fatele presente alla vicina di casa che cerca un babysitter con esprienza quinquennale.
Lasciando solo l’essenziale, eliminerete il fattore confusione, principale forza che muove la mano che strappa e getta nel cestino, e aumenterete le probabilità di destare un interesse.
Da qui a dire che vi arriverà la telefonata per un colloquio ci passa un oceano. (Qual è il più grande oceano dell’Universo? Eh, quello ci passa!)

Comunque.
Sono uscito dalla Giunti e ho continuato verso l’appuntamento.
Il proprietario della quota mi ha offerto un caffè, e ha cominciato a illustrarmi tutto quello che avrei potuto fare con la mia futura parte del mio futuro locale. Ma io continuavo a pensare alla Giunti.
Nei giorni è diventato un pensiero fisso. L’unico colloquio che m’importasse davvero fare.
Avevo stabilito che dal curriculum alla telefonata, qualora fosse arrivata, sarebbero trascorsi al massimo quindici giorni.
Non so perché lo faccio, ma lo faccio sempre con tutto quello che aspetto. Forse per dare dei tempi ragionevoli alle mie speranze, oltre i quali cercare nuove speranze da adottare.
Il tredicesimo giorno ho iniziato a demoralizzarmi. Il quattordicesimo non era ancora l’ultimo. A mezzanotte del quindicesimo mi sono detto: non è andata nemmeno questa.
Mi hanno chiamato il giorno dopo per un colloquio.
– Se per te va bene, stasera alle 19.
Avevo 37 e 7 di febbre, la voce bassa. Dovevo fare i piatti, stendere i panni, farmi una doccia, la barba, scegliere una camicia decente, tornare alla vita sociale, capire come raggiungere il luogo del colloquio.
Ero così felice che non sapevo da dove cominciare. A un certo punto mi sono anche detto: fanculo i piedi per terra e tutte quelle storie lì. Il colloquio andrà bene e mi prenderanno alla Giunti. Concedersi di volare così in alto è un rischio pericoloso, perché se poi non va, la botta rischia di farti rompere qualche osso.
Sono arrivato con due ore di anticipo. Non tanto per dire, veramente due ore!
A ripensarci mi viene da ridere.
Sono rimasto seduto su una panchina a leggere i volantini di un centro commerciale che mi svolazzavano attorno. Due ore.
Al momento di andare, conoscevo a memoria tutte le offerte del MediaWorld e della Coop. Camminavo col peso dei decimi di febbre sugli occhi. Ogni due passi provavo la voce con qualche colpetto di tosse.

Il colloquio è andato bene, ho pensato uscendo, ma non ho dato il meglio di me.
Questo mi dispiaceva molto. Pesava. Perché di persona ne cercavano una sola. Il fatto è che io non ero al meglio, quindi credo di aver dato il massimo per come stavo quel giorno.
La voce l’ho persa del tutto quando, dopo un paio di giorni, mi è arrivata la telefonata.
– La Giunti ha scelto te.
E io mi sono sentito… non lo so. E’ stato bellissimo. Ero in giro, pioveva. Ho telefonato a tutti i miei amici. Ai miei genitori. A quasi tutti i numeri in rubrica. Ho esaurito i minuti e pure i soldi sulla sim.
Alla fine ero bagnato fradicio. Mi ero dimenticato di aprire l’ombrello.
E quello che ho pensato è stato: me lo merito.

Una strada si apre agli occhi all’improvviso, mentre ne stai percorrendo una che va da tutt’altra parte.
Be’, quella strada ti permetterà di avvicinarti un po’ alla meta, la tua.

Il mio giardino silenzioso

Sono tornato dal lavoro, ho piazzato un sedia in giardino, di quelle bianche di plastica, quelle da cucina dell’Ikea, e mi son messo lì, in questo giardinetto che abbiamo, a leggere Cime tempestose. Finché la tempesta non è arrivata davvero e sono rientrato. Sta diluviando, e mi viene da ridere perché Firenze mi piace pure con l’uragano.
Dal primo momento in cui ho messo piede sulla terra arida oltre la finestra della cucina, proprio il giorno dello scorso settembre che ho risposto all’annuncio di questa casa, l’ennesima che andavo a vedere, e l’ho subito presa, ho pensato che quel giardinetto aveva qualcosa che attraeva la mia attenzione.
Me lo ricordo benissimo quel giorno. Ero triste, di quella tristezza che non riesci neanche tanto a condividere. Che ti rimane attaccata addosso come il caldo umido di agosto. Perché quel giorno mi sono svegliato e per la prima volta, da quando avevo deciso di lasciare L’Aquila e partire per Firenze, per la prima volta mi sono domandato se non stessi facendo una cazzata grande come il mondo. Non tanto perché fosse sbagliata come idea, quanto perché io forse non ero all’altezza dei miei grandi progetti. Mettevo per la prima volta in dubbio me stesso. Non riuscivo neanche a trovare una stanza che mi piacesse un po’, e continuavo a camminare per chilometri con le mie scarpe di tela azzurre consumate, e la strada che grattava sotto la pianta del piede. Ma dove volevo andare io, abituato alla mia piccola vita di provincia?
E poi sono entrato in questo palazzo con la facciata logora. Ma non ho pensato: che brutta facciata! Sono entrato nell’appartamento, ho visto la stanzina in affitto, il bagnetto nuovo, la cucina nuova, il giardino. Sono uscito, ho fatto qualche passo, c’erano le erbacce altissime, e l’ho avvertito chiaramente. Ero arrivato dove dovevo arrivare. Così ho detto: – La prendo!
Com’ero felice! Non era l’aver trovato una casa il motivo della mia felicità, ma l’aver trovato un modo per iniziare a costruire il mio palazzo di sogni, da solo, senza certezze, qui, proprio dove volevo. Anzi, una certezza improvvisamente l’avevo trovata: quel giardino speciale.
Non che fossi un esperto di giardini, né si può dire che questo si distinguesse per magnificenza, cura, o altro. Eppure il pensiero che fosse un luogo particolare – più una sensazione che un pensiero – è rimasto latente per tutti i mesi che sono trascorsi da allora. Finché un giorno ho capito: il silenzio.
E’ così strano sentire quel silenzio, a un passo dallo stadio, dalla stazione di Campo di Marte, dai viali. Che poi non è proprio un silenzio totale, quello mi inquieterebbe. E’ come se tutt’attorno fosse calata una specie di cupola filtrante, che lascia passare solo il suono del vento, degli uccelli e dei tuoni. Come se non ci fosse la città.
Ho sempre trovato il silenzio una caratteristica rara, nei luoghi e nelle persone. Da ammirare e invidiare, per me che parlo e parlo. Un dono da abbracciare con la mente, quando appartiene a qualcuno che, senza parlare, sa starti accanto. Un dono da preservare e di cui godere, quando sei in un luogo immune ai rumori.
Ecco, tipo il mio giardino.Dove sentire la mia voce interiore, quella sincera. Non ha molto senso mentire qui, tanto siamo solo noi due. A chi la dobbiamo far credere? Ascoltarmi e capirmi di più.
Domandarmi come va? e rispondermi alla grande!

Non piangere perché qualcosa finisce, sorridi perché è accaduta

Ma muoiono davvero quelli come Gabriel Garcia Marquez? (Come se ce ne fossero tanti, poi.)
No, mai.
Perché lasciano un bagaglio di energia vitale incredibile, che si rinnoverà per sempre.
Le parole diventano, fra le sue mani che digitano, venti impetuosi, tempeste di calore, nottate magiche in luoghi straordinari, amori impossibili ed eterni, come tutti gli amori impossibili.
Ecco, se non è vita questa, non so cos’altro possa essere chiamato così. E allora, chi lascia agli altri la vita, chi è capace di questo dono, non muore mai davvero.

Porto queste sue parole tratte da L’amore ai tempi del colera incollate all’anima. Perché io sono uno che ride spesso, piange spesso, ama raramente e non smette di farlo facilmente, qualche volta perdo fiducia in me stesso. Insomma, sono uno come un altro con la paura di non essere all’altezza. Allora rileggo i 13 spunti di Marquez e mi ricordo quanto valgo.

  1. Ti amo non per chi sei ma per chi sono io quando sono con te.
  2. Nessuna persona merita le tue lacrime, e chi le merita sicuramente non ti farà piangere.
  3. Il fatto che una persona non ti ami come tu vorresti non vuol dire che non ti ami con tutta se stessa.
  4. Un vero amico è chi ti prende per la mano e ti tocca il cuore.
  5. Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è esserci seduto accanto e sapere che non l’avrai mai.
  6. Non smettere mai di sorridere, nemmeno quando sei triste, perché non sai chi potrebbe innamorarsi del tuo sorriso.
  7. Forse per il mondo sei solo una persona, ma per qualche persona sei tutto il mondo.
  8. Non passare il tempo con qualcuno che non sia disposto a passarlo con te.
  9. Forse Dio vuole che tu conosca molte persone sbagliate prima di conoscere la persona giusta, in modo che, quando finalmente la conoscerai, tu sappia essere grato.
  10. Non piangere perché qualcosa finisce, sorridi perché è accaduta.
  11. Ci sarà sempre chi ti critica, l’unica cosa da fare è continuare ad avere fiducia, stando attento a chi darai fiducia due volte.
  12. Cambia in una persona migliore e assicurati di sapere bene chi sei prima di conoscere qualcun altro e aspettarti che questa persona sappia chi sei.
  13. Non sforzarti tanto, le cose migliori accadono quando meno te le aspetti.

E quanto vale (non valeva, vale!) Gabriel Garcia Marquez.