• Rinato

    L’ho fatto. Sono stato proprio io. Il ragazzo tanto bravo, tanto educato, (non) tanto bello, quello che la vicina di casa conosce benissimo (senza averci scambiato più che un: “Ciao, salutami a mamma eh!” ogni tanto) e non pensava potesse mai fare una cosa simile. Lui che amava il suo blog verde acido. Ebbene sì, l’ho colpito con un piccone per ripetute ore, forse anche 4 consecutive. Lo confesso e giuro che non fornirò 37 versioni dell’omicidio, che a me di essere psicanalizzato da Morelli frega un ceppo, né erigerò altarini davanti ai quali inginocchiarmi per ricordare e onorare la sua memoria. Se mi guardo indietro veramente non mi riconosco. Tutta quella rabbia in corpo neanche un demone te la dà. Era una comune giornata, non particolarmente buia – il buio dei pensieri intendo – eppure all’improvviso mi sono sentito soffocare e non per via degli ultimi caldi di stagione. (Se sento una forma di vita lamentarsi per il freddo e il vento settembrino di questi giorni… qualche cosa farò, qualche cosa di sicuro io farò.) Piangerò. Come un coccodrillone affamato che si rispetti ho volontariamente masticato e a fatica digerito il mio cucciolo, smembrato a furia di cancellare codice HTML senza controllo. Lo odiavo talmente che godevo nell’aggiornare la pagina ogni volta più sconclusionata. Sparivano le sezioni, si accavallavano le immagini, la colonna laterale persisteva in una disperata agonia, nonostante la furia del dito sul Canc. Non voleva arrendersi alla sparizione. Guardando il risultato ho decifrato la causa: una stanchezza dovuta al passato. All’abitudine al passato, è più corretto. Ti abitui alle cose che vedi tutti i giorni, che un tempo ti entusiasmavano, che hai voluto con tutto te stesso. Non capisci che le stesse sensazioni che hanno acceso la scintilla della nascita sono ora pezzi senza vita, deteriorati e incollati fra loro in un tutt’uno che non riconosci, figuriamoci se può appartenerti. Finché vedi tutto e tutto insieme e ti ritrovi a massacrarlo senza aver paura del sangue, perché l’unica cosa che conta è liberarti in fretta dell’origine del tuo male. Sarà mica lo stesso meccanismo che scatta nella testa di un bravo maritino che da un giorno all’altro si trasforma in un mostro e fa a pezzi la moglie? Tutte quelle parole oltre che troppe erano diventate antiquate, roba di un Matteo che amava circondarsene. All’improvviso quello che faccio, che ho fatto, i libri che ho scritto si sono ribellati chiedendomi un ambiente vuoto, una stanza senza distrazioni, senza TV né poster alle pareti.
    Una stanza bianca e nera d’inchiostro (nulla più) è quello di cui avevo bisogno, non di un luna park pieno di musichette e lucine colorate che attraggono gli occhi del lettore di qua e di là. Come al solito grazie a Pino, il mio grafico di fiducia fin dai tempi di ‘Non farmi male’ (diventa sempre più bravo ‘sto ragazzo), è avvenuto il miracolo della resurrezione, sulla terra però.
    MatteoGrimaldi.com è di nuovo nato, e con esso anch’io.
    Benvenuto a chi vorrà.

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  • Neanche per il Milan durante la finale di Champion’s League del 2005 tifai tanto come per Federica Manzon al premio Campiello la scorsa settimana su Rai1. In quella serataccia di 6 anni fa il terzo goal di Crespo non bastò. In 10 minuti folli il Milan fu prima raggiunto, dal 3 a 0 al 3 pari, e poi superato ai rigori. Non volevo riaprire la piaga di molti tifosi, ma mi piaceva il paragone e mi piace pensare che al mondo ci siano persone che tifano anche per il proprio libro preferito. (Persone era per dire me, che mi piaccio non spesso, ma sì quando per esempio la vespa Bruno annuncia il primo posto momentaneo e io salto dalla poltrona, corro da Madre appisolata sulla sua madre-poltrona rossa, la sveglio e lei non apprezza, ecco.)
    Non sono bastati i 4 voti di vantaggio dopo lo spoglio dei primi 100 su 300 votanti. Andrea Molesini col suo ‘Non tutti i bastardi sono di Vienna’ le stava attaccato alle chiappe (metaforicamente parlando eh!), fino a riprenderla e vincere. Lo scrivo anche se non ci credo. Trovo tuttora inspiegabile non tanto la vittoria di Molesini che mi è anche simpatico, ma la non-vittoria di Tommaso, il protagonista di ‘Di fama e di sventura’. Leggerlo è stata un’esperienza che non mi aspettavo, soprattutto per via dei tanti libri coi quali non m’era più capitato niente di simile. Parlo della personificazione dei personaggi, del sentire la loro voce, del riconoscerne la parlata, del vedere le loro espressioni dubbiose, del partecipare alle loro crisi che diventano le tue. Parlo della rabbia, all’ultima pagina. Visto che su questo romanzo ho molto da dire, segue la prima parte della recensione che ho scritto per Solo Libri.

    Tommaso è figlio di un destino scritto ancor prima della sua nascita, che nessuna volontà sembra poter modificare, neppure l’amore. Abbandono e solitudine sono gli approdi ai quali tutti i suoi rapporti sembrano condurre: Margherita muore dopo averlo messo al mondo; suo padre sparisce per sempre, mai dai suoi pensieri, che non si rassegnano all’idea di poterlo un giorno ritrovare da qualche parte, per caso. Come se il caso esistesse, come se in questa storia non fosse già tutto scritto. A occuparsi di lui nei primi anni è la nonna Vittoria, un personaggio ricco di fascino e mistero, l’unico conto che Tommaso riuscirà a far quadrare nella sua vita. Lo affida all’altra figlia Cristina che, assieme all’inetto marito, chiamato da Tommaso il mollusco, riesce prima a farlo sentire un estraneo in casa, reprimendo con spietato distacco le sue inclinazioni, a partire dalla passione per il cielo e le stelle, e poi lascia al collegio il compito di forgiare il suo carattere. Qui conosce Ariel Fiore, promettente campioncino di nuoto, complice con cui inventare il modo di sfuggire le regole ferree. Fra le stanze del collegio nasce un’amicizia interminabile nonostante il tradimento. Tommaso cresce e con lui l’ambizione e la voglia di riscattare tanta superflua sofferenza.

    Per leggere il resto cliccate qua.

    E poi l’intervista all’autrice che si è concessa alle mie consuete 4 Chiacchiere (contate)…

    Prima chiacchiera: La Mondadori ha imparato a conoscere Federica Manzon come editor prima che come autrice. Molti autori restano incollati al proprio editor, ne riconoscono il valore, sanno quanto della buona riuscita del libro dipenda dai suoi consigli. Altri invece, raggiunta la fama, se ne allontanano decidendo di procedere da soli e spesso arriva la sventura. Com’è il rapporto con i “tuoi” autori italiani? Di quali vai particolarmente fiera al punto da convincerti di essere affetta da Baudite incurabile (“L’ho inventato io!”)? Ce n’è qualcuno con cui è guerra aperta?

    Il lavoro dell’editor per me è ben fatto quando rimane totalmente al servizio del libro e scompare con la sua pubblicazione. Per questo l’ansia di appropriazione che fa dire “Questo l’ho inventato io!” mi sembra assurda e anche pericolosa, perché rischia di far dimenticare che ogni successo, per quanto grande e condiviso dall’intera casa editrice, è prima di tutto il prodotto delle fatiche solitarie dell’autore e il lavoro successivo è tanto più efficace quanto più diventa mimetico e maieutico. Insomma, per me la figura dell’editor dovrebbe sfuggire del tutto la ribalta, e il rapporto d’amicizia che spesso nasce con lo scrittore è cosa da preservare nello spazio privato degli affetti.

    Per le altre 3 chiacchiere, se volete conoscerla meglio, cliccate qua.

    Finisco dando al Caso con la c maiuscola il ruolo determinante che Federica gli attribuisce nella decisione del futuro del suo Tommaso. Capita che la mia casa editrice espone a Libriamo, il festival letterario di Vicenza. Capita che gironzolando sulla rete leggo che Federica Manzon presenta ‘Di fama e di sventura’ a Libriamo. Bombardo la mia editrice di sms implorandola di andar da lei e lasciarle i miei saluti. “Da parte di quel ragazzo che ti ha intervistato per Solo Libri” le dico di dirle, sperando che si ricordi di me. Potete ammirare il risultato in alto a destra del post (fra le mani della Manzon). E ammirate pure la gaudente e rossa Sara Saorin, direttrice editoriale di Camelopardus (lo che non le piace essere così definita, ma tant’è!), al suo fianco.
    A seguire in piccolo l’unica nota negativa della serata campielliana: Bruno Vespa (ma va?!).

    Chiederei a un indomito volontario dal grande coraggio di assaggiare la lingua di Bruno (bzzz bzzz) Vespa, che a inizio trasmissione se n’è uscito così: “E ricostruitela ‘sta città, mannaggia la miseria che i soldi ci stanno e gli aquilani non li sanno spendere”. Secondo me sa di culo di settantacinquenne nano. L’ennesima occasione sprecata per stare zitto. Lui che è aquilano, nonostante parli dei suoi concittadini come se fosse nato in un altro continente.
    Scrivi un commento →: Speciale Federica Manzon, ma speciale veramente
  • [Piccola premessa dall’ingrato compito di indorare la pillola, anche detta Punto 0.]
    Vi ho portato delle pastarelle dolci, ne volete? Potete prenderne anche 2 o 3 a testa, ne ho comprate 500. Dai miei calcoli dovrebbero avanzarne 480, ma non si sa mai che questo post schizzi nelle visite e allora non potevo fare brutta figura coi nuovi lettori appassionati alle mie disavventure che non scriverò. Insomma, quello che sto cercando di dire è che il reportage narrativo del mio trotterellare europeo, pensato e – quel che è peggio – promesso, e le promesse vanno mantenute, sempre (sempre, quasi fino a diventare niente) di un numero variabile di post fra i 35 e i 250 si conclude a 2, cioè a questo. Ancora non atterriamo ad Amsterdam e il mio diario di bordo deborda e finisce così. Ecco, così è se vi pare (anche se non vi pare, pare a me). Non che non abbia voglia di raccontare 15 giorni di vacanza in ogni microscopico dettaglio (masiamopazzi?!). Ma ragazzi, siamo all’8 settembre! La vita ha ripreso il suo inarrestabile incedere e la testa deve mettersi subito in sintonia con i nuovi impegni (nuovi? Ma che stai a di’?!), progetti (ah, ti riferisci alle solite menate?), scritture (ma come fai a scrivere un romanzo all’anno?), insomma quello che c’è sempre stato e che, prima che il sole tramonti sul mio trentunehmehmsimo compleanno, si realizzerà! Se lo dice Malefica: “…ella si pungerà il dito con il fuso di un arcolaio e morrà!” proverei almeno a crederci.
    Metto alla prova il mio talento genetico per la sintesi e trasformo i 250 post previsti, in una manciata di pilloline di saggezza. Voi non perdonatemi lo stesso, mi raccomando. Un pizzico di fermezza nella vita è fondamentale. [Fine Punto 0.]
    Punto 1. Prima di partire per un lungo viaggio, portate con voi la voglia di non tornare più, certo, ma imparate pure l’Inglese. Giusto quel tantinello per evitare situazioni del tipo: “Have you do… no cioè… Have you have a cheesecake?” di cui sono stato protagonista. Desideravo solo una frittella sul fiume Amster. E che diamine! Seguito, il giorno dopo, da: “Can I have tortellini?” ma avevo l’attenuante del ristorante italiano Da Renzo, all’interno del quale va detto che di italiano non c’è neppure Renzo.
    Corollario a) – Punto 1. Vi imbatterete in decine di giovani coppie bisognose del vostro aiuto per farsi immortalare insieme, vicini vicini, che attireranno la vostra attenzione con un: “Eschius mi!” seguito dalla domanda di cortesia: “Chen ju teic a piccer plis?”. In quel momento scatterà in voi un meccanismo repulsivo nei confronti della nazionalità italiana. Un misto di vergogna, senso di fuga e risate all’idea che gli italiani parlino l’Inglese in tal modo ridicolo e purtroppo riconoscibilissimo e allora, nel disperato tentativo di nascondere la vostra reale provenienza, risponderete: “Yes of course!” pregando Gesù che quegli italiani, da voi facilmente individuati, non si accorgano di aver di fronte uno come loro.
    Corollario b) – Punto 1. Se davvero scegliete di andare a pranzo da Renzo, riuscite a ordinare, seppur a fatica, vi accomodate fuori, tirate un sospiro di sollievo per avercela fatta, e dopo mezz’ora nessuno vi porta ancora nulla, non vi allarmate. Il loro forno a microonde è un po’ lento. Questo ci hanno detto per giustificare la lunga attesa per il riscaldamento del piatto precotto. Fatico a mettere insieme microonde e lentezza, ma chi meglio di loro che ci lavorano può conoscere il forno a microonde di Renzo?
    Punto 2. Amsterdam è la città delle biciclette (e di qualche altra cosa non di difficile immaginazione di cui parleremo con una certa discrezione più in là). Affittatene pure una e passateci sopra 11 ore, mica ve lo voglio impedire, ma sappiate che dovrete rinunciare per sempre al vostro culo e a tutte le sue molteplici funzionalità. Ne vale la pena. Certo, dipende comunque dall’uso che facevate del vostro culo prima di salire sulla bici.
    Corollario a) – Punto 2. A meno che non abbiate appena disputato l’ultima edizione del Tour de France, non vi sentirete proprio a vostro agio sul mezzo, non completamente almeno. Quel po’ che basta a farvi scontrare con un altro ciclista spietato: “Ma ando’ cazzo vai?!” e a farvi domandare se per caso, fra la confusione, le voci dei passeggeri, le urla dei dolcissimi fringuelli distruggi-timpani, non avete capito male e l’aereo è stato davvero dirottato non più a Londra, ma a Torpignattara, a Roma.
    Punto 3. Amsterdam è pure la città dei canali (ma non è questa la cosa da affrontare con discrezione, a cui facevo riferimento al punto precedente). Affacciatevi da un ponticello, guardate all’orizzonte e sognate. Poi abbassate lo sguardo sull’acqua e vi capiterà di incontrare qualche bel cigno bianchino, diciamo, sguazzare fra le lattine. Sarà allora che vi chiederete: “Di cosa si nutrono questi graziosi volatili?” Se volete una risposta comprate un bel cartoccio large di patatone fritte (tanto che ci siete non lesinate sulle salse: di base circa mezzo litro di ketchup e 2 di maionese) – non sarà molto complicato individuare il rivenditore autorizzato più vicino, pare che ad Amsterdam campino di quelle! – e lanciateglielo. L’animale vi ringrazierà a modo suo.
    Corollario a) – Punto 3. Nei canali non ci sono solo i cigni, ma altre forme di vita simili all’uomo, ma così diverse da me: i fattoni barcaioli pieni di cucuzze. Se vivi ad Amsterdam e non hai una barca, pure se casca a pezzi va bene, su cui organizzare festicciole con la musica a tutto volume fra i canali dove si beve birra e si spippacchia, nella massima privacy proprio, sappi che non sei nessuno.
    Conclusione: io non sono nessuno.

    To be continued…

    Corollario a) – To be continued. Io c’ho provato a chiuderla qua, ma se continued continued!

    Scrivi un commento →: Tutta la verità su Amsterdam – episodio 2: ‘Chen ju teic a piccer plis?’
  • Tornato dalle vacanze e tornati voi. È inutile che fate i figheiri, quelli che l’estate non finisce mai, quelli che vivono in vacanza da una vita, fra una discesa e una salita, che tanto non vi crederebbe neppure la più devota fan di Giucas Casella. L’estate sta finendo (e un anno se ne va), una nuova invernata è alle porte e tutti noi ci sentiamo ugualmente inadeguati a sostenerla. Questa è la verità.
    “Non ce la posso fare” è la frase più gettonata del momento, ben 3 punti percentuali in più de: “La manovra da 90 miliardi la facessero coi soldi che danno alle puttane, ‘sti porci!”.
    Sappiate che avete tutta la mia comprensione, avvalorata dalla pessima sensazione che ho provato compiendo il salto spazio-temporale del forzato ritorno Stoccolma –> Roma –> L’aquila in 3 ore e mezza + 40 minuti d’attesa + 2 ore di autobus. Come passare dalla vita alla morte, dal paradiso all’inferno, da New York a una landa ghiacciata dell’Antartide, con un’unica abitante però. Ho capito cosa deve aver provato Denver, dopo aver giocato per anni coi suoi amici umani, a tornare nella preistoria grazie al suo frammento di uovo magico e rivedere Mammasaura (ogni riferimento a Madre è puramente casuale).
    Premessa e ben spiegata l’affinità elettiva che lega noi (ex) vacanzieri (ora) disperati, c’è un fatto: il mio Moleskine è pieno di appunti, riflessioni, figure di merda in particolare, vissute da protagonista (come potrebbe essere diversamente?!) in questi 14 giorni a spasso per l’Europa. Così ho pensato di scrivere e argomentare (finché mi va – esiste la possibilità che questo sia il primo e ultimo post sull’argomento, come potrebbe accadere il contrario: che inizio e non la finisco più. Non prendetelo come un impegno, insomma) una manciata di consigli utili a chi parte con una Lonely Planet in borsa e non immagina che quella che ritiene la sua unica sicurezza, capace di salvarlo nel momento del pericolo, sostenerlo nel momento del bisogno e guidarlo quando tutte le strade NON porteranno né a Roma né tantomeno all’ostello, è in verità una spada di Damocle pronta a trapassargli in sequenza capo, collo e palle.
    La prima meta è Amsterdam, e allora partiamo!
    Tutta la verità su Amsterdam (altro che Lonely Planet) – episodio 1: ‘Il volo’.
    Intanto ad Amsterdam bisogna arrivarci, giustamente. È piuttosto naturale che a un certo punto del vostro viaggio vi possiate trovare in un abitacolo sospeso nei cieli, con le nuvole sotto i piedi e la voce di un bimbo urlatore nell’orecchio a conciliarvi il tentato sonno. State tranquilli, è l’aereo. “Vola con Easy Jet, più economico non si può!”
    Per me non esiste(va) al mondo compagnia aerea migliore, non soltanto per il bell’abbinamento cromatico arancione e bianco. Poi il comandante, a più o meno metà del volo, prima in Inglese (dal silenzio generale deduco che nessuno c’abbia capito niente, ovviamente me incluso) poi in Italiano (dalle urla bestemmianti deduco che il messaggio sia arrivato forte e chiaro) comunica con tono sommesso che l’aereo non atterrerà ad Amsterdam, ma SARA’ DIROTTATO a Londra, e io ho cambiato idea su Easy Jet. Da lì (Londra) bisognerà aspettare la disponibilità di un nuovo aereo sul quale poter riprendere il viaggio verso Amsterdam. Questo a causa di UN PROBLEMA AL MEZZO.
    “Non sappiamo quanto tempo ci vorrà. Easy Jet si scusa con i passeggeri del volo e ringrazia per la comprensione.”
    A me, a dir la verità, i passeggeri non sono parsi molto comprensivi: “Ma li mortacci… Va a mori’ ammazzato, brutto fijo de na…” et similia. Dato di fatto: se qualcuno vi dice che sarà necessario cambiare aereo per un problema al mezzo, il culo vi si riempie improvvisamente di cacca liquida. La parola dirottare mi fa sempre pensare alle (ex) Twin Towers. Nella mia testa i due scenari si sono uniti in una fusione apocalittica. Da una parte la catastrofe dovuta al problema all’aereo (che fra pochi minuti comincerà a precipitare. Tanto si sa che né il comandante, né l’assistente di volo, né una qualunque delle hostess ti dirà mai nulla finché non te ne accorgi da solo e invii un sms alla fanciulla che ami da una vita e che neanche in quell’occasione ti cagherà), dall’altra la catastrofe dovuta alla volontà di uomini cattivi di punire la monarchia inglese costringendo il pilota a puntare su Buckingham Palace. Per fortuna, poco dopo, ha fatto seguito un secondo messaggio. Il problema è stato risolto, l’aereo atterrerà come previsto ad Amsterdam. Altrimenti temo che a questo punto sarei ancora a Londra ad aspettare il volo per Amsterdam, dopo essermi dovuto licenziare, naturalmente. O col naso infilato nel buco del culo sodo di Pippa Middleton. Così non è, quindi il nostro viaggio prosegue.

    To be continued… (probably)

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  • Venerdì c’è mancato poco che la mia carriera di giovan(issimo) scrittore andasse a farsi fot… ehm benedire.
    Antefatto. Tempo addietro riflettevo con un’amica sullo stato in cui versa L’Aquila. Non su ricostruzioni, giochi di potere, distruzione sotto gli occhi, non-impegno, non-lavoro, non-tutto (bla bla bla e pure bla), che di questioni così ne abbiamo piene pelle e palle. Per pelle intendo proprio lo strato più superficiale dei corpi umani aquilani, i cui pori non chiacchierano d’altro da due anni e tre mesi, intervallando con previsioni sull’intensità dell’ultima scossa (per palle è chiaro cosa intendo). Parlavamo della nostra vita di sognatori, di un futuro diverso dal presente, possibilmente migliore. Nostra cioè mia, tua e sua. Nostra di gruppo d’amici, aquilani o no c’entra poco. Sognare quello che si ha, trasformare le piccole cose quotidiane nei propri sogni… certo, come no! Cazzate facili a dirsi e impossibili da farsi. Saltiamo tutti i passaggi da psicodramma depressivo parolisico pre-omicidio (neologismo riferito a quell’eroe acutissimo che è Salvatore Parolisi, a cui io consegnerei una laurea honoris causa in Scienze dell’Investigazione). E diciamo che per sentirci anche noi aquilani, giovani ragazzi comuni per una sera (i trent’anni da poco sopraggiunti aumentano esponenzialmente le occorrenze del termine “giovane” riferite a me medesimo da me medesimo. Insicurezza? Shock? Giovane lo sono ancora, vero?!) dobbiamo andar via di qui e viverci una notte da leoni altrove. Direzione Café Les Paillotes – Pescara.
    Fatto. Il calòr, unito alla guida a singulti della Papi, che precipita in picchiata dalla quinta alla prima e poi manda i motori della sua Ka azzurra di Hello Kitty avanti tutta, agiva sulla mia serenità vacillante trasformandosi in una forma di malessere ansiogeno. Se lo manifesto, la mia amica prima mi dice che sono pesante e poi parte alla carica con l’elenco meticoloso di quei due o tre (mila) episodi in cui ho dimostrato di non fare proprio Alonso di cognome.
    “Parli proprio tu che hai fatto inversione in autostrada, oppure vogliamo dire di quando hai sfondato la saracinesca… per non parlare di quella volta in cui sei salito sul marciapiede e hai quasi investito una signora con le buste della spesa.”
    Devo difendermi: “E tu allora, che hai tamponato la tua migliore amica e hai cacciato dal Mc Donald’s una donna moribonda che chiedeva come ultimo desiderio solo di andare al bagno (a fare la cacca)?” (Un giorno questa ve la racconterò.)
    Così mi sono rintanato in un sofferente silenzio, ho appoggiato la mano destra sul bordo del finestrino socchiuso infilando le dita a catturare aria per deviarne pochi soffi all’interno, sul viso, in un modo qualunque nei polmoni.
    In quel preciso momento Papi ha portato a compimento un gesto di una violenza indicibile. Dice di non averlo fatto apposta, ci mancherebbe.
    “Quello spiraglio mi dava fastidio e allora ho chiuso il finestrino!” Con le mie falangi in mezzo. “Apri, apri, apriiii!” urlavo e lei non è stata neanche così tempestiva. Una scena terrificante.
    Quando ha dedotto che stavo bene, che solo per stavolta non l’avrei denunciata, ha cominciato a ridere perdendo il controllo di sé e del veicolo. Un animale coraggioso ha scelto proprio quell’istante per attraversare la carreggiata ed è stato miracolato da Papi che, col senno di poi, si è convinta fosse un pipistrello (che corre a quattro zampe? Va be’…).
    Lunedì mattina mi sono fatto accompagnare da Madre e le ho fatto investire tutti i suoi risparmi di una vita in un’assicurazione milionaria sulle mie (potenzialmente) preziosissime mani. Chi è che si fa avanti per troncarmi un paio di dita con una mannaia fornita dal sottoscritto? Avrò la certezza di campare di rendita e di riempire di soddisfazioni Madre, per un figlio che alla faccia della precarietà, del tasso di disoccupazione in aumento e del prezzo della benzina degno di uno scintillante The Beers (con l’unica differenza che la mia Matiz si ferma dopo cinque chilometri, altro che per sempre) potrà dire di avercela fatta a costruirsi un futuro (senza dita).

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  • Salve ciccifrizzi!
    Brevemente per segnalarvi l’intervista che mi ha fatto Lucia Resta per il suo blog Abbasso Cenerentola, luogo che, prima di me, aveva ospitato soltanto scrittrici (sesso femminile, appunto). Non chiedetemi come ho fatto a conquistarla; certe volte perdo il controllo del mio fascino (ridemus!!!). Magari chiedetelo a lei.
    Prima domanda.

    Matteo, tu hai pubblicato già tre libri, un romanzo e due raccolte di racconti. Cosa è più faticoso scrivere un romanzo o tanti racconti legati tra di loro da un filo conduttore?
    Quando scrivo racconti non penso a un filo che li leghi per farne una raccolta. Quello viene dopo, quando ne ho messi insieme un po’, distanti anche anni, che uno mi fa pensare a un altro, quasi come se i personaggi dovessero conoscersi per raccontarsi esperienze comuni, comuni dolori. E allora li faccio incontrare all’interno dello stesso libro. La scrittura di un romanzo è più faticosa, la fatica della dedizione totale. Non penso ad altro per mesi. Talvolta confondo finzione e realtà. Il racconto è come un sogno breve. Il romanzo è un lungo viaggio fra le strade di una città, nel cuore e nella mente di personaggi che diventano persone in casa tua, amiche, odiate o incomprese, nei loro comportamenti, nei sentimenti che scombinano tutto. È un’esperienza eccitante e stremante al tempo stesso. Spesso fallimentare, quando i meccanismi si inceppano e tutto si paralizza, bloccato in un limbo. Talvolta divina, quando si chiude la storia e sopraggiunge la malinconia dell’ultimo saluto.

    Il resto dell’intervista lo trovate qua. Leggetela e ditemi che ne pensate. Da me o da lei! (Abbastanza ripetitivo coi link?)

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  • Mentre ascolto a palla (oh yeah!) ‘Quante vite avrei voluto’ (quante vite avrei vissuto, quante alternativeee, per chi vive in una vita so-laaa…) di Enry Ruggeri con nella mano destra 5 lamette, una per ogni dito, penso che fra 2 settimane parto con Luca per Amsterdam/Amburgo/Copenaghen/Stoccolma (almeno le mete le ho memorizzate) e non ho neanche un numero sufficiente di mutande presentabili; per non parlare di magliette, maglioncini per la sera, jeans lasciamo perdere. E dove lo infilo tutto ciò che dovrei possedere (sempre in via teorica) in quanto turista vacanziero? La mia unica valigia (di proprietà) è piccola e abbozzata. Sembra che qualcuno l’abbia presa a calci prima di lanciarla da un cavalcavia. E poi deodorante, dentifricio, spazzolino, bagnoschiuma, shampoo, sapone per l’igiene intima (di che vi stupite?), schiuma da barba, talco mentolato per le irritazioni. Devo ricomprare tutto. Non riesco a spiegarmi come faccia la mia roba ad accordarsi per finire la settimana prima di partire. Oggi pure le gomme. Potreste obiettare che le gomme finiscono spesso, sono pacchetti piccoli. Che ci vuole a far fuori una decina di confettini? Voi ignorate, non per colpa vostra, che io sono solito recarmi direttamente al rivenditore autorizzato (ci manca solo che componga il numero verde per scoprire dove si trova quello più vivino a casa mia) e arraffare stecche colossali di sette/dieci pacchetti l’una, che bastano per qualche stagione. La mia vita senza gomme da masticare è come la vita di Garrison senza i suoi demi pliè: è una vita senza senso. Dovrei trovare il coraggio di abbandonare quest’oasi di frescura che è casa mia e tuffarmi nel fuoco infernale che ricopre la città. Ho paura di finire cotto dall’aria, come un Galletto Vallespluga. Mica per ridere. Nemmeno il richiamo dei saldi riesce a calamitarmi fuori di qui. Che ne so io che esco e non muoio rosolato?
    A proposito, pure l’aria condizionata della macchina è finita. L’ho appurato a mezzogiorno della mattinata più calda dell’anno, perché uno mica se ne accorge a gennaio. Troppa grazia. Mi avvicino terrorizzato al forno crematorio con le ruote, con gli occhi accecati dal sole. Il calore pare addirittura uscire dall’automobile. C’è una calotta tremolante che la ricopre, uno scudo protettivo. Quando verrò a contatto con quell’energia mi trasformerò in pochi istanti in una montagna di cenere (grossa montagna, considerata la mia condizione di diversamente alto), penso. Tiro l’ultima boccata d’aria bollente, entro nell’abitacolo e sgrano gli occhi. Mio dio, qui non c’è presenza d’ossigeno, ma devo chiudere tutto. È così che si deve fare. Chiudere e accendere, no?! Sigillo i finestrini e do vita al miracolo che ha dato la morte a me con la sua assenza. Pigio sul pulsante e si attiva la spia verde, ma dalle bocchette non viene fuori neanche un alito. Molto rumore per nulla, potremmo dire visto il ronzare che non sortisce risultati. Aria condizionata, meglio di una coppa da 15 euro di gelato tutto gusto Latte Imperiale del Gran Caffè. Sono andato apposta e non c’era. Che delusione!
    “Son cose che capitano.” “Ho fatto 25 chilometri per il vostro gelato.” “Ce ne sono di gusti! Cioccolato, Crema, Tiramisù… E pure tanti nuovi tipo Variegato alla Nutella…” “Ma, ma ma… Io volevo il Latte Imperiale!” Quasi quasi ricarico il radiatore col gas del frigorifero, più freddo di quello…! O monto le ruote al congelatore e parto, che faccio prima. Ormai dopo la vacanza, e che vacanza! Giorni 15, santissimi, lontano da questa città. Lontano dai suoni di diavolerie friggitrici e toaster maledetti che stanno diventando la mia normalità. Lontano dalle voci che dimenticare no, per carità, ma un po’ di pace, e la pace sta nel silenzio e certe voci non smettono un attimino ino ino di tartassare i miei resistenti (per poco ancora) padiglioni uditivi. Lontano dalla preoccupazione di far quadrare tutto e da quella di non mollare la presa, adesso che così vicino non m’era capitato mai di arrivarci. Voglio prendere aerei, treni, parlare il mio Inglese vergognoso, drogarmi (di allegria, ma che avete capito!) fare tante foto, uscire tutte le sere e cambiare destinazione ogni giorno, passeggiare fra strade ogni volta sconosciute e sotto cieli così diversi. Lontano, con la (ancora non) mia valigia che comprerò forse domani, o più probabilmente neanche mezz’ora prima di partire.

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  • Sabato scorso sono stato a un mostra d’arte contemporanea al Palariviera di San Benedetto del Tronto. Non è stata una mia iniziativa (arte? parola derivante da? dal significato di?), ma di due cari amici che critici d’arte non sono (Vittorio S. era occupato), ma almeno dimostrano interesse. Sentivo una voce che m’incitava: Vai Matte’, fallo per una volta l’esteta, il teorizzatore di bellezza, lo storico d’arte! E allora siamo partiti a bordo della Mini di Daniele, che di mini ha soltanto lo spazio attorno al sedile del passeggero (va bene che sono diversamente alto, però…) perché a 180 km/h ci arriva in 7 secondi, ve lo posso giurare, croce sul cuore. Durante il viaggio ho capito cosa prova una sardina nel corso del lunghissimo processo di inscatolamento, e in più sudavo. A spingere Daniele e Fabiana (più Fabiana, ma pure Daniele) a questa mostra è stata l’idea di incontrare un tipo. Dico un tipo perché Alessandro Baronciani, che ho scoperto essere uno dei più apprezzati fumettisti italiani, intervistati da questo mondo TV e quell’altro, autore di molte copertine per gruppi editoriali faraonici, per me era Baro chi?!
    (Ignoranza capanna!) (Per la cronaca sarebbe il ragazzo al centro della foto. E non dite che non c’ero perché c’ero! Dietro la fotocamera, ma c’ero!) Procediamo con un minimo sindacale di coerenza cronologica per favore.
    Io e Daniele continuavamo a domandarci come mai Fabiana continuasse a domandarsi se quello, proprio quello, fosse il Palariviera. Se una cosa è una cosa, c’è poco da fare. Quello è. “È questo quindi il P-a-l-a…?!” “Sììììììì!” Ah ah. Nella vita bisogna pur aggrapparsi a qualcosa. E la nostra unica certezza su questa Terra, devastata dalla barbarie degli uomini predatori, era l’avere davanti il Palariviera, che poi non è altro che un cinema con al primo piano questi grandi spazi adibiti all’esposizione delle opere e fuori un parcheggio a pagamento.
    È di certo un mio limite, unito all’ignoranza capanna di cui sopra, quello che m’impedisce di apprezzare certe espressioni definite arte contemporanea. Tipo c’era un cimitero fatto di croci dentro ai vasi. Su ogni croce c’era scritto il nome di un grande esponente letterario, o del cinema, o della musica, morto. Che ne so, c’era la croce di Oscar Wilde, quella di Totò, quella di Alda Merini, quella di Dacia Maraini… No, ancora non muore, ma se fosse morta ci sarebbe stata pure Dacia. Io naturalmente vedo e osanno l’arte dei crociati, ma c’è un ma. Perché ficcare una croce di legno dentro a un vaso di terra e incollarci una targhetta con inciso il nome di un grande del passato recente o remoto, e accostarla a un’altra e a un’altra ancora, dovrebbe fare di te un artista?
    “Che ci vuole, possono farlo tutti!” “Ma se lo fai tu non è la stessa cosa!” Eh, ma perché?! Boh!
    La stessa perplessità l’ho provata dinanzi alle opere di una fotografa, tal Chiara Francesconi che ha immortalato una casalinga tutta nuda, mentre assume pose plastiche su un tavolo o sul bancone della cucina, con la tetta che spunta dal grembiule e le bottiglie di olio sullo sfondo. Che dire di Sabrina Muzi che ha favorito la prostituzione di svariati frutti consanguinei, dando luogo a figli deformi e strane mescolanze genetiche. Una patata spinata. Una noce che emerge da un limone. I ciccioli delle patate che spuntano da una melanzana. Un mandarino trafitto da affilati fagiolini. Boh!
    Mentre riflettevo assorto con gli occhi al soffitto e la bocca al calice di spumantino offerto gentilmente dall’organizzazione, capitava che urtassi oggetti qua e là che mi hanno spiegato essere delle istallazioni. Tipo dei sassi colorati buttati con apparente casualità. Arte, logica, istinti, forza d’animo, talento, non casualità. Oppure una scala fatta di ossa. Io cammino guardando l’orizzonte, mica posso immaginare che qualcuno abbia montato una scala di ossa lunga non so quanti metri, al centro della stanza, per il gusto di farmi inciampare, voglio dire.
    Riecheggiava, a pochi passi dalle opere di Baronciani, il fumettista strafamoso, un verso inquietante. Proveniva da un computer aperto sul Mediaplayer che riproduceva il file dal nome ‘verso del saurogallo’. L’ignoranza capanna mi ha spinto al silenzio. Il saurogallo non l’ho mai sentito, questo non vuol dire che io debba mettermi a ridere all’idea di trovarmi in una stanza piena di roba che non comprendo con nelle orecchie il verso di un animale dal nome comico. Mica il tirannosauro, o il triceratopo, ma il saurogallo. Ve lo immaginate un gallo preistorico, magari alto venti metri e con la cresta spinata che all’alba si desta e sveglia tutti i suoi amici dinosauri augurando loro il buondì così: “UUUUHHHHIIIIII! (4, 3, 2, 1…) UUUUHHHHIIIIII… (4,3…)”. A un certo punto il verso s’è fatto uomo. Basito osservavo un ragazzo sui trenta, con la faccia color aragosta impiattata e gli infradito ai piedi. Scolava sudore mentre occupava la sua postazione, comodo comodo su un tavolino sopra all’altro su cui stava il computer, in una costruzione pericolosa e pericolante. È arrivato il saurogallo in persona. Non ci crederete, ma questa creatura dal coraggio eroico, servo dell’artista s’è fatto opera d’arte e, dopo aver preso fiato, con gli occhi fissi nel vuoto, di fronte alla perturbazione scioccata della folla, s’è messo a fare quello stesso verso pocanzi riprodotto dal Mediaplayer. “UUUUHHHHIIIIII, … , UUUUHHHHIIIIII…!”
    Non riuscivo a smettere di ridere. Mi spiace per lui, ma non riuscivo. Vada per il cimitero di artisti, vada per le patate transgeniche, vada pure per la foto della casalinga porca e la scala di ossa, ma un uomo che si accomoda su un tavolino e si mette a fare un verso idiota e ridicolo affermando di essere intanto un’opera d’arte, visto che è in esposizione e non so se pure in vendita, poi un saurogallo, è davvero troppo. Insomma, Baronciani a parte (fatevi un giro nella rete, è proprio bravo, ma magari lo sapete già, perché a differenza di me, non vivete in una capanna di ignoranza), io di arte poca ne ho vista (o capìta, chissà). Poca, ma buona: quella indimenticabile frittura di paranza del ristorante di pesce Il Pescatore di San Benedetto del Tronto, per esempio e chi se la dimentica! Risveglio dei cinque sensi tutti e tutti assieme.

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  • Patrizia Sergio di Malicuvata legge e recensisce Supermarket24.

    Dunque nulla di nuovo ad una prima lettura di questo romanzo imperniato su tematiche postmoderne: il supermercato, in primis, inteso come microcosmo che racchiude tutte le nevrosi dell’uomo moderno, costrutto della spersonalizzazione di cui è vittima la società dei consumi; poi è la volta della provincia e delle sue caricature sociali; il protagonista, giovane disadattato che ripiega su un lavoro qualunque, uno tra i più anonimi, il commesso di un supermercato, semplicemente per tirare su qualche euro che gli permetta di arrivare a fine mese e di guadagnarsi una minima indipendenza dai propri genitori.
    La fauna che popola il mondo di “SpesaPiù” è archetipica delle categorie sociali ampiamente stereotipate e non sorprende quasi nulla di quanto narrato. Anche la scelta di una narrazione in prima persona rispetta tutti i requisiti di questo genere narrativo, così come la parentesi pseudo amorosa che nulla risolve e si consuma in fretta, senza particolari implicazioni.
    Nel corso della narrazione i contorni della realtà si dilatano e il lettore finisce per subire anch’egli l’effetto dell’odiosa luce a neon dei supermercati che crea una dimensione surreale, fittizia e destabilizzante. Così anche il lettore si aggira, come il protagonista, tra i reparti anonimi di un mondo alla David Lynch, in cui si sovrappongono voci distorte e volti che perdono ogni connotazione umana. Così come il protagonista, si resta ingabbiati in questa luccicante quanto mai asettica realtà, a contare le ore che separano dalla vita (reale?) che è fuori. Ma dopotutto quale sia la realtà più autentica, cosa sia reale o semplice proiezione delle nostre aspettative e valutazioni artefatte, resta un’incognita che l’autore mostra senza mezzi termini e che non intende assolutamente risolvere. La narrazione si dispiega attraverso una spirale di episodi, di storie nella storia e il finale aperto intensifica il senso di non compiuto, di sospeso, di incerto, di apnea cognitiva che caratterizzano l’intero lavoro.
    I capitoli recano il count-down alla fine del turno di lavoro, una delle tante forme di nevrosi  dell’alienazione moderna, colpisce anche il lettore man mano che avanza nella lettura e ogni capitolo riporta le ore di lavoro, quasi timbrasse anch’egli il cartellino, una sorta di obolo per essersi introdotto in un moderno girone infernale.
    Se il romanzo non sorprende per l’argomento, indubbiamente punto di forza e di giudizio positivo è lo stile: personale, diretto, crudo, un ghigno che esprime l’amarezza più feroce.

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  • Nuova intervista per Sololibri.net come al solito breve e intensa. Incontro Christian Mascheroni, scrittore e autore televisivo. Campione di vendite con ‘Alex fa due passi’ pubblicato da Las Vegas Edizioni, per diverse settimane ai primi posti della classifica degli eBook più venduti. Autore e presentatore della trasmissione tv ‘Ti racconto un libro’ in onda su Iris. Da poco impegnato in un nuovo progetto assieme alla regista Indira Mota e la producer Federica Wu dal titolo ‘Virgola, vita’. Lo scopo: parlare di temi sociali con il potere della parola scritta, dell’immagine, della musica, del reading, della testimonianza, il tutto attraverso punti di vista non comuni. Potete seguire tutti gli aggiornamenti sul suo blog. Prima di lasciarvi all’intervista, che naturalmente trovate riportata quaggiù e laggiù, a chi volesse proporsi per la rubrica dico di scrivermi all’e-mail che trova nei contatti del sito.

    Christian, intanto ti do il benvenuto a quella che non sarà la solita intervista chilometrica, ma solo 4 chiacchiere contate.
    - Prima chiacchiera: Il tuo Alex di passi ne ha fatti un po’ più di due finendo addirittura al primo posto nella classifica degli eBook più venduti su Book Republic. Che idea ti sei fatto dell’inarrestabile evoluzione che si ripercuote anche sulla letteratura, sempre più digitalizzata? I prezzi stracciati delle versioni digitali potrebbero giocare un ruolo fondamentale nella ripresa della lettura in Italia? Ti fa paura un futuro privato delle sensazioni che ti dà un libro fatto di pagine, sfogliarlo, sentire l’odore della carta, un futuro senza librerie?

    Innanzitutto ciao Matteo e grazie, adesso mi metto le cuffie e cerco di rispondere alle domande con quella matassa fulminata che dovrebbe chiamarsi ancora cervello! Devo onestamente dirti che la tecnologia mi ha sempre affascinato, tanto che quest’anno, per capire meglio l’evoluzione degli e-book sono andato alla redazione di Wired ed ho provato a maneggiare un e-book reader intervistando l’espertissimo Riccardo Meggiato. Le sue applicazioni sono straordinarie e l’idea che possa essere uno strumento di divulgazione mi piace. Infatti non credo che possa soppiantare i libri, perché la carta, il suo odore, il suo calore al tatto, l’emozione di sfogliarlo, non si perderà. Credo invece che si avrà una democratizzazione delle proposte editoriali, e come è successo con “Alex fa due passi”, si potrà scegliere di far balzare in cima ad una classifica un libro che forse, in libreria, troverebbe spazio (o nemmeno) in uno degli scaffali dimenticati da Dio. E’ vero che siamo in un periodo in cui molte librerie vengono chiuse così come il popolo italiano continua a non essere un popolo di grandi lettori, tuttavia, se motivati, incuriositi e allettati, molti potrebbero avvicinarsi al mondo dei libri proprio grazie all’interattività con un e-book reader o un supporto tecnologico. Basta vedere i social network, che sono diventati preziosissimi per le case editrici per farsi conoscere e, sempre di più, per farsi ascoltare e condividere esperienze culturali importanti.

    - Seconda chiacchiera: Dopo una lunga battaglia vinta, sei riuscito a portare i libri in TV nella trasmissione ‘Ti racconto un libro’ in onda su Iris e divenuta un punto di riferimento per tutti gli appassionati di letteratura. Come sei arrivato alla conduzione di ‘Ti racconto un libro’ e come hai convinto il direttore di rete a sostenerla in un momento in cui in televisione sembrano avere vita facile soltanto i reality e gli show dei sentimenti condotti dalla De Filippi?

    L’occasione si è presentata nel 2008. Su Iris, che era appena nata, avevano deciso di mandare in onda una brevissima rubrica di Gian Arturo Ferrari dove, in cinque minuti, si recensivano e consigliavano romanzi. Parlando con la produttrice si è pensato di dare più consistenza ed osare di più, e sono nate la mia rubrica Cinelibri, ovvero i film che si basano su un libro e l’intervista “5 W”, ovvero ritratti a scrittori attraverso le famose W del giornalismo anglosassone. Tra le primissime andarono in onda Walter Siti, Giuseppe Genna e Valeria Parrella. Poco tempo dopo, grazie anche alla crescita della rete, c’è stato il grande salto e, al posto di Ferrari, la rete ha deciso di dare in mano il programma a me e a Marta Perego che lavora per Class. Il binomio ha funzionato ed è nato il vero e proprio Ti racconto un libro, ovvero un magazine di oltre 25 minuti. La cosa fondamentale è stata che hanno subito creduto nel taglio e nelle proposte che abbiamo presentato, ovvero non solo intervistare grandi scrittori e parlare di libri, ma presentare al pubblico i volti inediti della cultura. Piccole case editrici, festival letterari, eventi indipendenti, curiosità, inchieste e attualità, le librerie, i mestieri dell’editoria e tanto altro. Tra me e Marta abbiamo intervistato più di 500 scrittori, ed oggi Ti racconto un libro conta diversi collaboratori, un seguito di fedelissimi e, per la prima volta, gli speciali. Girando l’Italia, ho scoperto che l’amore per i libri, nel nostro paese, è forte, tuttavia manca il supporto e la stampa non dà ancora il giusto risalto alla cultura fatta dal popolo e non dai grandi numeri e dai best seller.

    - Terza chiacchiera: La tua scrittura rappresenta un raro caso di accordo fra la critica, che ti consegna il premio Editoria Indipendente di Qualità per il romanzo ‘Attraversami’, e il pubblico dei lettori che si scatena con ‘Alex fa due passi’ riuscendo a far sfigurare gente come Ken Follett, Michela Murgia o Silvia Avallone su Book Republic. Quando ti sei accorto di essere bravo con le parole? C’è qualcuno a cui devi dire grazie per la tua crescita artistica?

    Ok…adesso mi viene seriamente il dubbio che questa domanda fosse destinata ad un altro scrittore! Grazie, troppo gentile, non credo di meritare tanto e non per falsa modestia, ma per uno spirito critico che mi spinge a maturare e a crescere. Amo molto le parole, ma ti confesso che ho un pessimo rapporto con il mio vocabolario, nel senso che posso stare delle ore per cercare la parola esatta per esprimere un concetto o rendere emozionante un periodo. Quando poi mi rileggo penso sempre che scrittori come Michael Cunnigham, Peter Cameron o Elizabeth Strout potrebbero scrivere la stessa cosa in un minuto e mentre guardano un film o giocano a carte! Esagero naturalmente, ma a volte è difficilissimo esprimere a parole –parole scritte soprattutto- il flusso di pensieri ed emozioni che provo e che vorrei trasferire al lettore. Per questo la gioia più grande la provo quando qualche lettore mi dice di essersi emozionato o di essersi ritrovato in un mio libro. Penso di dover fare tanta, tanta strada. Non credo nel puro talento. Bisogna comunque studiare tanto e leggere tanto. Per fortuna ho molte persone da ringraziare, dal mio primo editore, Roberto Forno, al mio editore di ora, Andrea Malabaila, che non dimentica mai di essere, per prima cosa, un essere umano di grande cuore. Di certo non posso non ringraziare la mia prima sostenitrice, la professoressa di italiano delle scuole medie, Assunta Bordoni, e i miei genitori, i miei angeli.

    - Quarta chiacchiera: Concludo con una curiosità da divoratore di libri discretamente invidioso. Hai la possibilità di avvicinare i più grandi nomi della letteratura italiana e direi mondiale considerato il calibro di certe interviste che hai realizzato per la trasmissione. Hai mai intervistato qualcuno dei tuoi autori preferiti? È mai capitato che l’incontro reale deludesse le aspettative nutrite in anni di letture appassionate? Ce ne racconti qualcuna che ti è rimasta nel cuore o che ti ha fatto arrabbiare a morte?

    Ti racconto un libro, o TRUL come lo chiamo ormai, mi ha permesso di incontrare alcuni degli autori che amo più al mondo. Sono molto, molto fortunato da questo punto di vista. In assoluto gli incontri più emozionanti sono stati con i tre premi Pulitzer: Michael Cunningham, modesto e alla mano, la splendida Elizabeth Strout, che mi ha commosso per sensibilità e gentilezza, e Richard Russo. Edmund White e Peter Cameron sono per me delle deità, e ti puoi immaginare quanto sia stato straordinario intervistarli e chiacchierare con loro. Con Megan Abbott c’è stato un bellissimo feeling dalla prima domanda e mi è stato illuminante incontrare Colum McCann, scrittore dal talento invidiabile e Johan Harstad. Con alcuni scrittori italiani è nato un bel rapporto di stima e di amicizia, come con Luigi Romolo Carrino, che ritengo bravissimo, Marilù Oliva, Mattia Signorini, Marco Missiroli, Gabriele Dadati, Alcide Pierantozzi, che ammiro tantissimo. Ho amato molto l’intervista a Paolo Ruffilli, poeta e uomo raffinato e sensibile, simpaticissima Violetta Bellocchio e commovente, per sincerità, Paolo Maurensig. Delusioni poche direi… in particolare da una scrittrice i cui libri sono fuoco, terra, pura emozione e di persona, invece, è una che non ti guarda nemmeno negli occhi e si atteggia da diva. Però rimane una scrittrice impareggiabile… peccato.

    - Questa era l’ultima chiacchiera: non mi resta che salutarti e ringraziarti per aver accettato il mio invito, facendoti molti in bocca al lupo per il tuo futuro. Se vuoi lasciare un messaggio al mondo intero, qui puoi farlo.

    Ho spesso pensato di smettere di scrivere per paura di non essere abbastanza bravo. Poi penso al fatto che non giudico mai il mio modo di respirare o camminare. Semplicemente respiro e cammino. Allo stesso modo, essendo la scrittura una manifestazione della mia vita, non devo far altro che scrivere e amare il solo fatto di farlo.

    P.S. se siete arrivati fino a qui a leggere le mie risposte, grazie!

    Scrivi un commento →: Per ‘4 Chiacchiere’ intervisto Christian Mascheroni

sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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