I laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare si trovano a circa 1000 metri di profondità sotto il massiccio del Gran Sasso, proprio dentro il traforo.
“Ora entriamo nella galleria più lunga d’Europa” mi diceva mia madre, in viaggio verso il mare. Quel buco nero, nel quale eravamo pronti a tuffarci, mi metteva sempre un po’ d’ansia mista all’eccitazione dell’ignoto. Mi vergognavo di domandarle com’era possibile che una galleria fosse più lunga di un intero continente, così restavo a guardare dal finestrino le luci gialle e la nebbia (per me di nebbia si trattava) di un’atmosfera che non finiva mai. Facevo il conto alla rovescia assieme ai cartelli, che indicavano un chilometro in meno a ogni chilometro, ed era vero che era lunghissima. Io l’Europa non l’avevo certo attraversata, quindi era possibile che fosse davvero così, se poi a dirlo era mia madre… Quando ho cominciato a ragionare (dote che alla veneranda età di trent’anni ammetto di dover ancora affinare parecchio) ho capito che l’Europa non poteva essere meno lunga di 10 chilometri e 176 metri. Era questa la spiegazione che mi davo all’assenza di stati, province, città, quartieri e villette a schiera sotto la galleria, oltre alle condizioni, non certo le più favorevoli per una quotidianità salubre. Ci ripenso e mi sento scemo.
Ci hanno impiegato 25 anni a costruirla. Nel 1982 comincia la costruzione dei laboratori, voluta dal fisico Antonino Zichichi. Vi si accede attraverso uno svincolo sotterraneo. Ci butto sempre l’occhio. All’imbocco qualche cartello di pericolo di vietato l’ingresso ai non addetti, area video sorvegliata, se t’avvicini ti spariamo vari ed eventuali, avvertono chi ha brutte intenzioni e precedono un portellone grigio che sbarra il passaggio. Mi fa pensare all’Area51, nel sud del Nevada. Lo so che Giampaolo Giuliani ci prevede i terremoti e fanno gli esperimenti con le particelle non so di che, ma è come se ci fosse dell’altro. Come se, per il solo fatto di essere una zona off-limits, debba nascondere al suo interno esperimenti sui quali aleggia la massima segretezza, certamente su cavie umane, probabilmente sugli alieni. Oppure uno stargate che attiveranno da un momento all’altro. Chi di dovere potrà così mettersi in contatto con Cheope per chiedergli chi cavolo ha costruito la sua meravigliosa tomba, che non ci crede nessuno che sono stati gli schiavi Egizi.
Chissà cosa ci fanno lì dentro, è la domanda che mi pongo in quei 2 o 3 secondi che sfreccio sempre un po’ sopra il limite di velocità. Ebbene, da qualche settimana abbiamo scoperto che all’interno dei laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso fanno gli arbitri, con cronometro alla mano, alla maratona che potrebbe diventare la più importante della storia della Fisica. Una corsa fra 2 squadre: in divisa giallo oro i fotoni campioni in carica, detentori del record di velocità universale di 300mila km/s, in divisa trasparente i piccoli e insignificanti neutrini, che non se li è cacati mai nessuno. Come succede nelle favole, in cui la tartaruga vince sulla lepre, i neutrini stracciano i fotoni, tanto perché quando qualcosa è impossibile c’è poco da fare, dicevo nel post di ieri. E invece TAC, arriva la smentita. Noi comuni mortali ce ne stiamo a guardare con la bocca spalancata fingendo sorpresa, quando in realtà non c’abbiamo capito una ceppa perché alle superiori avevamo il 3 fisso in Fisica.
A tal proposito vi voglio segnalare il blog di Licia Troisi, che oltre ad essere la regina del fantasy italiano (per quanto molti storcano il naso) è pure un’astrofisica. In questo articolo in particolare spiega la scoperta dei neutrini più veloci della luce con un linguaggio praticabile pure da noi col 3 fisso in Fisica, e la questione si fa davvero avvincente.
[Quando ripasserò davanti ai laboratori di certo mi verrà da sorridere al pensiero che ‘sta città è proprio strana.]
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Nella galleria più lunga d’Europa
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Scrivi un commento →: Nella galleria più lunga d’Europa
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Ieri ho tamponato una signora dolcissima
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Scrivi un commento →: Ieri ho tamponato una signora dolcissimaTentavo di raggiungere il mio posto di lavoro in un tempo impossibile, secondo quanto dice il sapere fino a oggi saputo.
Se ti poni un obiettivo impossibile tipo, che so, fare L’Aquila –>Torino andata e ritorno in 2 ore, intanto fallisci – se è impossibile, è impossibile (impossible is nothing è solo lo spot pubblicitario di un marchio di scarpe e tu non sei Nadia Comaneci) – poi può capitare che, nel costruire il fallimento annunciato, fai anche danni; strafai per abbattere i limiti che stabiliscono tale impossibilità e abbatti qualcun altro.
La distanza che separa casa dal mio posto di lavoro richiede una ventina di minuti a bordo di un mezzo di trasporto a motore (diverso dal treno, dall’aereo e dal missile) guidato con mano attenta, ma non inappuntabile. Se la mano fosse ligia al dovere, rispettosa di ogni norma del codice della strada, il tempo di percorrenza aumenterebbe sensibilmente. Questo non vuol dire che da oggi siamo tutti autorizzati ad andare a 100 all’ora (brem brem brem brem, brem brem brem brem), nemmeno per amore.
Però.
Qualche impercettibile infrazione quotidiana che male può fare?!
– Un semaforo rosso superato, dopo aver guardato 3 volte a sinistra e 4 a destra (è da là che sopraggiungono i pericoli peggiori, bisogna fare attenzione).
– Una precedenza non data alla monovolume di turno avente diritto (che se la riprenderà a scapito del prossimo malcapitato); che sarà mai?!
– Una strada pedonale (divieto d’accesso, transito, fermata, sosta) intrapresa per tagliare. (Meno di 3 minuti. Stai tranquillo, a parte una vecchina, sulla strada non c’era nessuno che possa averti visto compiere l’infrazione).
– Una vecchina accidentalmente investita su una strada pedonale (la stessa, che adesso non può più parlare). Ehm.
Piccole cose insomma a garantire che quei 20 minuti siano davvero 20, nei quali intervengono anche altri fattori, esterni alla mia persona.
– Le condizioni del traffico (la domenica mattina non è la medesima situazione di un qualunque sabato pomeriggio; se la domenica mattina è estate e il pomeriggio del sabato scelto inverno, il paragone è abissale, ma non siamo ancora a quei livelli).
– Il numero delle strade percorribili in città (= 2, sulle quali devono transitare 60mila veicoli).
– La visibilità oggettiva (quanta strada si distingue, se c’è foschia, se è giorno, notte, eclisse).
– La visibilità soggettiva (la mia, che certi giorni ci vedo meno e altri poco di più. Nemmeno questo dipende da me, però).
– Il cielo. Un cielo sereno può ridurre il tempo di percorrenza anche del 15 per cento, un cielo temporalesco, che butta acqua a secchiate, ritarda il mio arrivo mediamente di 10 minuti. Per me, che viaggio con un margine di errore consentito fra i 3 e i 6 minuti, significa timbrare il cartellino in ritardo di almeno 4 minuti, che per il mio datore di lavoro significano panico alle stelle, con tutte le parole sempre uguali che ne conseguono. Ho il terrore di guidare con la pioggia. Mica per i fulmini! A L’Aquila quando piove la gente si ringalluzzisce e gioca alle macchine da scontro. Anche questa è una forma di reazione, quindi bene per la città e male per i veicoli centrati.
Ieri avevo il disperato bisogno di superarmi, così ho cercato di dimostrare che casa –> lavoro si può fare in meno di un quarto d’ora, 13 minuti per l’esattezza: il tempo per evitare il ritardo e le solite parole. Nel caso in cui non disponiate di praticissimi lampeggianti blu polizia stick stack, procuratevene un paio dal più vicino rivenditore non autorizzato. Basta piazzarli sul tettuccio e azionarli per ammirare il mare di automobili davanti a voi aprirsi come le acque del Mar Rosso con Mosé, animato da una gran fretta di arrivare al monte Sinai (non chiedetemeli perché non posso prestarveli, davvero). In alternativa preparate la mano sospesa sul clacson, come si faceva al Quizzone di Gerry Scotti col pulsantone per la prenotazione (one-one-one), pronta a sparare strombazzate intimidatorie a tutti coloro i quali occupano lo spazio antistante il mezzo, colpevoli di procedere alla velocità di una larva passeggiatrice, che si guarda intorno e ammira le bellezze che la natura le riserva, passo dopo passo, centimetro dopo centimetro, prato arido con zolle di terra secca dopo prato arido con zolle di terra secca.
Di solito funziona. Di solito.
La signora dolcissima ha reagito alla strombazzata inchiodando. Non avevo mai visto prima una frenata del genere. Chissà cosa avrà pensato quando le sono piombato addosso da dietro (a parte: Statestadimin-chiha parlato?).
“Signora, accosto un attimo” dico dal finestrino. Lei non risponde.
“Signora, mi scusi tanto” chiudo lo sportello della mia macchina e la raggiungo. Lei non scende. “Ho provato a frenare, ma non sono riuscito a fermarmi in tempo.”
Lei non dice niente. (Ma è sotto ipnosi? Qualcuno ha il numero di Giucas Casella? Oddio, quant’è tardi! Devo andare al lavoro! Tardissimo!)
“Le lascio tutti i miei dati, lei mi chiama e mi fa sapere” dico mentre mi muovo verso il portabagagli della sua; voglio cercare di capire i danni. “Devo andare al lavoro, purtroppo non posso trattenermi oltre.”
Viene a vedere anche lei, si rianima: “Non ti preoccupare tanto la macchina non si è fatta niente… a parte questo!” passa il dito su una macchia che va via. “Vai al lavoro se no fai tardi. Fai piano però!”
Non me lo faccio ripetere 2 volte. Rientro in macchina, giro la chiave, rombo di acceleratore, esclamo: “Voglio essere un neutrino!” e arrivo al lavoro spaccando il secondo e senza passare dentro alcun tunnel fantasma non-costruito coi soldi del governo, fra l’altro.
Per fortuna il nostro piccolo scontro non ha provocato nulla (di visibile. O almeno, lei non l’ha visto. Chissà se quel bozzetto sopra la targa c’era già. Io non è che sono stato a domandarglielo).
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Scrivi un commento →: [II] Weekbook. Un ricordo, un libro che non m’è piaciuto per niente e una segnalazione
È arrivato pure ottobre, ma shhh! perché il sole ancora non se ne accorge. Che questi ultimi raggi tiepidi continuino a scaldarci la pelle finché ne avranno voglia, senza insistere troppo perché il freddo arrivi. Che poi ce ne pentiamo, lo so.
Tattarapippi-nananà (la sigla di Weekbook).
Partiamo con la bella notizia o con quella brutta? Tenuto conto che la bella notizia non è bella quanto la brutta invece è bruttissima (è venuto improvvisamente a mancare…), io direi di toglierci subito questo dente. Qualche giorno fa (il 26 settembre) è morto Sergio Bonelli, l’editore dei mitici Zagor, Tex, Dylan Dog e moltissimi altri indimenticabili personaggi dei fumetti. Provo a ripercorrerne (molto brevemente) la carriera in questo articolo. Non leggo fumetti, però dispiace anche a me, che c’entra!
Asciugata la lacrimuccia? Bene, passiamo ai libri nero su bianco. Qualcuno ha letto ‘Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve’? Io purtroppo sì. Qualcuno ha riso almeno un paio di volte sfogliando le 446 pagine che lo compongono? Io purtroppo no. Questa è la recensione che ho scritto per evitare la morte certa per asfissia fra le sabbie (im)mobili di Jonas Jonasson a coloro i quali fossero intenzionati ad acquistarlo per trascorrere qualche settimana di lettura in leggerezza, ma – fondamentale – ancora non l’hanno fatto. Ben venga chi non la pensa come me. Chi l’ha amato, chi lo consiglia e chi lo regala (ma chi? Io lo uso per sorreggere lo spinotto del digitale terrestre che non fa tanto bene contatto con la TV) vorrei mi spiegasse cosa gli è piaciuto di questo libro osannato in tutto il mondo. Capiterà da queste parti uno di quegli osannatori. Se non oggi, domani. Se non domani, prima o poi. È questione di statistica. Mi metto qui, buono buono, e aspetto. Nel frattempo faccio un salto a Terracina (provincia di Latina) da non confondersi con Pietralcina (provincia di Benevento), la terra di Padre Pio, per capirci.
A fare che a Terracina? Alla seconda edizione del Terracina Book Festival: 3 giorni di incontri, scrittori e giornalisti a confronto e un concorso che premia i giovani autori locali al grido di “la seconda volta non si scorda mai”. Avete tempo fino a domani.
Weekbook torna, se Dio vuole, sabato prossimo.
Tattarapippi-na-na-nà (la sigla di chiusura rallenta nel ritmo facendosi un po’ più enfatica, non notate i trattini?).
[Cos’è Weekbook? Se proprio non possedete il talento dell’intuizione, la risposta la trovate dove e quando tutto nasceva.]
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Scrivi un commento →: Il trionfo della risata, passando ahimè per il professor Meluzzi
Qualche volta esplodo come una bomba. BOOOM!
Mi si sono ingrossate (non ci vuole molta fantasia per intuire l’oggetto dell’ingrossamento) a forza di contenermi in nome di quella diplomazia che contraddistingue le persone educate, quell’aplomb da salotto televisivo, per quanto nei salotti televisivi accada veramente di tutto.
Attenzione: se alla vista del professor Meluzzi in TV vi si gonfia la lingua, lance infuocate vi trafiggono lo stomaco e vi gratta tutto è consigliabile saltare il paragrafo racchiuso fra parentesi quadre in grassetto e passare oltre.
[Secondo me il prossimo grande omicidio di cui si occuperà Salvo Sottile a Quarto Grado sarà quello del professor Meluzzi, in diretta. Dio quanto è odioso quell’uomo (parere personalissimo, non so voi…) con quegli odiosi occhialetti rotondi da mago quindicenne che si tocca continuamente (gli occhialetti. Lo preciso perché per un attimo mi ha raggiunto l’immagine di Meluzzi che si toccava altro e, dopo l’immagine, il vomito). Quella parlantina saccente e odiosa (sì, odiosa, perché non ti può non mancare mai la parola giusta, non è umano dio mio! Dev’esserci almeno un istante nella tua lunga vita, uno soltanto in cui incespichi con i termini e ti blocchi a pensare a quella parola sulla punta della lingua che a te, merluzzone di un Meluzzi, non manca mai). Sai sempre tutto. Si parla di omicidi e tu sai chi è stato, si parla di violenza carnale e tu ne hai subite, si parla di vita nell’Universo e tu hai conosciuto ET, si parla di droga e tu… pure qua sai cosa dire. Non ti annoi a non avere mai un dubbio nella vita? Mica ti offendi, se esprimo la mia. Va be’ che (Meluzzi) pare offendersi anche per il solo fatto che a interloquire con lui non sia Dante Alighieri, bensì un comune essere umano che, prima di rivolgere all’esimio la sua umilissima domanda, quasi si sente in dovere di scusarsi di esistere. I principali sospetti del delitto davanti alle telecamere (in quel momento spente) ricadranno su Picozzi. Lo sanno tutti che Picozzi è geloso si Meluzzi. Meluzzi gode della stima delle tette di Barbara D’Urso e lui solo di quella del neo di Bruno Vespa, poveretto. E su di me, vai a capire il perché. Mi è anche simpatico Meluzzi. Ehm.]
Qualcuno mi dice che sono cambiato. Qua volevo arrivare. Mi rendo perfettamente conto che la digressione sul professor Meluzzi non è per nulla funzionale al concetto, ma son quegli sfoghi che vanno un po’ per i fatti loro. Pensate a che punto di (in)sopportazione sono arrivato. Dicevo, cambiato nel senso che adesso rido quando mi criticano, che adesso rido quando qualche deficiente viene a dirmi come si fa questo e quello dimenticandosi che questo e quello gliel’ho insegnato io, anni fa. Che prendo le mazzate con sportività, perché rido. La verità è che ho semplicemente fatto un calcolo dei pro e contro, e ho trasformato il mio sorriso in una detonazione. La mia forma di protesta (quando ne vale almeno un po’ la pena) è diventata una sonora risata.
“Scusami se rido, ma quello che dici è comico!”
Volete mettere l’efficacia, rispetto al dispendio di energie di una litigata che provoca pure un abbassamento di voce? Per non parlare poi della rabbia che si parcheggia sul fegato e lo mangiucchia a poco a poco. Che resta, disposta a rovinare ora per ora tutta la giornata. No, io ho smesso. Io rido e dico la mia. Chi tace di fronte all’ingiustizia è ingiusto per primo, chi urla (e l’ho fatto per anni) non ottiene quello che merita e comunque, anche dovesse ottenerlo, alla fine dei conti gli sarà costato troppo.
Una risata signori. Bella, di gusto, derisoria, scrosciante. Una risata vi seppellirà. (O disseppellirà, come dicono quei ganzoni di Spinoza, che morir dal ridere non rende giustizia a quel che mi capita ogni volta che li leggo.)
“Non ridermi in faccia.” “Scusami ancora, ma sono trent’anni che rido, non pretenderai che smetta di farlo adesso, proprio davanti a te.” Ecco, così.
Una risata può essere divertente, come pure complice. Una risata insieme, dolce, di cuore. Una risata è capace di proteggere da un brutto colpo, come uno scudo e di contrattaccare gelida. Definitiva, gelida, gelida. Gelida.
Combattete le vostre battaglie con una risata, porterete a casa grandi trionfi.
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Buona fortuna a chi se ne va
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Scrivi un commento →: Buona fortuna a chi se ne vaSono sempre i migliori quelli che se ne vanno, si dice. Per favore cerchiamo di evitare gesti scaramantici poco eleganti perché non è di tirare le cuoia che parlavo, ma di andarsene: moto da luogo. Quale luogo? Beh, quello in cui stavano e che non gli piaceva, altrimenti non sarebbero andati via. Qualcuno è costretto ad andarsene, è vero, ma parliamo di chi vuole andarsene e ci riesce. Altri, tempo di sistemare poche cose e se ne andranno, far quadrare gli ultimi aspetti per evitare di lasciarsi dietro un vagone di rimpianti. Lo ripetono da una vita. Poi le cose si moltiplicano, gli obiettivi a portata di mano si allontanano fino a non poterne distinguere più forma e lineamenti. Una sconfinata attesa diventa una sconfinata rassegnazione, e non se ne vanno più. Invecchiano fra le stesse mura, con gli stessi propositi, uno in particolare: andarsene quanto prima. Quel che accentua il dolore è che ad andarsene sono gli altri. Certa gente che non gli avresti dato 2 lire, invece ce la fa e (a proposito di volgarità) te lo mette proprio là. A te che lo meriti di più, pensi tu. È come se la loro riuscita avesse l’effetto di chiudere la serratura della gabbietta al cui interno attendi paziente evoluzioni, e poi gettato la chiave nell’oceano. Dalle sbarre colorate di verde vedi la casa dei tuoi vicini. Se sposti un po’ lo sguardo a oriente puoi arrivare a seguire le automobili sfrecciare sulla statale. Raccontano che oltre i campi c’è un condominio e che al secondo piano ci viva un vecchio che racconta un mucchio di storie a cui non crede più neppure lui. Mi fa pensare a mia nonna. Quando mia nonna racconta i suoi anni più avventurosi, gli aneddoti, come ogni volta se l’è cavata, gli incontri con la Storia, le magie che hanno salvato i suoi cari, non riesco mai a capire dove finisce la realtà e inizia la fantasia. Ma mi commuove sempre.
Non si respira una brutta aria qui. Fredda, rigenerante. Le montagne proteggono e isolano L’Aquila massacrata. Non è alla disavventura che lego la volontà di andarmene. È una volontà vecchia, una non-volontà visti i risultati, le grosse radici che mi tengono a portata di passo.“Se non vi piace il luogo che abitate, potete cambiarlo. Non siete delle piante.”
Non ricordo la fonte (né sono stato in grado di ritrovarla), ma il messaggio era più o meno questo.
Con chi vuoi prendertela?
E allora non resta che accanirsi su chi ce la fa a scrollarsi di dosso la ruggine e si mette a correre alla ricerca della felicità. Il giudizio è quasi sempre il comportamento dei codardi, di chi di fronte allo specchio dà la colpa delle sue imperfezioni alla scarsa luminosità, alla polvere.
Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno, c’è poco da chiacchierare. La verità è che sono migliori di te e di me. Pure se nessuno si azzarderebbe a sostenerlo, lo faccio io. Perché la gabbia l’hanno sfondata a calci e hanno respirato il cielo e visto le città.
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Scrivi un commento →: Buon compleanno a Irvine Welsh, l’autore di Trainspotting
Oggi Irvine Welsh, l’autore di Trainspotting, compie 53 anni.
Fare trainspotting significa guardare i treni in stazione, che arrivano e che partono. Lo fanno i disoccupati per ammazzare il tempo. Renton e Begbie vengono avvicinati da un vecchio barbone mentre stanno urinando nell’ormai dismessa stazione centrale di Leith: costui chiede loro se stanno facendo del trainspotting. Da qua viene il titolo del romanzo d’esordio di Irvine Welsh, nonché il più fortunato. Ne venne realizzato il film omonimo, diretto da Danny Boyle e presentato al Festival di Cannes.
Trainspotting è la vita ai limiti della legalità di un gruppo di ragazzi edimburghesi di periferia, ognuno con la propria dipendenza. Spud, Sick Boy e Renton si fanno di eroina, Begbie sembra posseduto dal demone della violenza insensata. Il protagonista è Renton che dopo aver provato più volte a uscirne fuori invano, e aver visto i suoi amici più cari morire di AIDS, fugge da Leith nel tentativo di ricominciare tutto a Londra dove mette su un giro di affari di truffe. Torna a Leith soltanto per il funerale del suo amico Matty. A Londra vive con Kelly, per poco tempo però, perché la monotonia lo stringe in una morsa soffocante, così torna a casa dai suoi amici di un tempo.
È il momento della grande occasione e del tradimento. Vendere 2 kg di eroina a Londra. Tutto va a buon fine, Renton incassa le 16000 sterline pattuite, ma al momento di dividere i soldi con i suoi amici si allontana verso l’Olanda. L’amicizia tradita, l’amicizia che da carnale diventa inutile di fronte al denaro, al sangue che ha bisogno di sostanze più che di legami.
L’incredibile successo seguito alla pubblicazione del libro portò a Irvine Welsh una candidatura al premio Booker. Pareva una vittoria sicura e invece arriva la cacciata. La motivazione è “l’aver offeso la sensibilità femminile di 2 dei giudici”.
Quanto vi fa ridere la cosa?
Trainspotting inizia così:Sick Boy era coperto di sudore; tremava tutto. Io me ne stavo lì schiaffato davanti alla tele, cercando di non dargli retta, a quel coglione. Mi buttava giù. Provai a concentrarmi sulla cassetta di Jean-Claude Van Damme. Come in tutti i film del genere, l’inizio era drammatico: era quasi obbligatorio. Poi, nel pezzo che veniva dopo c’era un grande sforzo per creare atmosfera, facendo tra l’altro entrare in scena il cattivo, e per far stare in piedi una trama proprio scacata. Comunque, Jean-Claude sembrava pronto a menare le mani da un momento all’altro.
Questo è un post di auguri, ma soprattutto di ringraziamento a Irvine Welsh, se non si era capito. Per averlo scritto, per aver arricchito la mia sensibilità con un grande dono. Non sarà femminile, né quella di un giudice del premio Booker, ma è pur sempre sensibilità.
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Buona lettura e… sogni d’oro!
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Scrivi un commento →: Buona lettura e… sogni d’oro!Non è vero che i sogni notturni seguono dinamiche inspiegabili della mente. Le classiche 5 pagine lette, con la disattenzione del sonno che avanza e la stanchezza del giorno che muore, avrebbero infatti il potere di condizionare fortemente il nostro sonno. O almeno questo dice un’inchiesta realizzata in Inghilterra da un’equipe di psicologi dell’Università del Galles. Dream Lab (traduzione simultanea: Laboratorio dei sogni) è lo studio condotto su un campione di 10000 persone in tutte le biblioteche della Gran Bretagna. Dai questionari è emerso che gli abituali frequentatori di luoghi culturali, circondati quotidianamente dai libri, tendono a ricordare meno i sogni e che le donne sarebbero più soggette agli incubi. Gli psicologi hanno cercato un legame fra letture e sogni.
Allora, sappiatelo. Le poesie fanno dimenticare i sogni e, nelle rare volte in cui al mattino il lettore di poesie ricorda il sogno, tende a tenerlo per sé. Al contrario di chi legge spesso storie d’amore che racconta i suoi sogni zuccherosi a chiunque incontri per strada. Sogni sdolcinati che pretendono di farsi raccontare e sogni poetici che non ci tengono per niente. Sogni socievoli e sogni asociali, intimi, solitari.
I racconti fantascientifici oppure i romanzi gialli portano immagini nitide, da una gran carica emotiva, non incubi però. Questo è curioso. Ci si aspetta che dopo la lettura dell’ultimo romanzo di Stephen King uno incontri nella notte vampiri, malvagie creature dei boschi e maniaci pronti ad afferrarlo e a fare di lui carne da macello. E invece no.
Svegliarsi col cuore che pare il primo rullo di tamburi lanciato dal capo tribù e tenere, per quanto possibile, gli occhi sbarrati per non rischiare di tornare fra le mani del malvagio demone. Ripercorrere l’inseguimento per tutta la città avvolta in una nebbia densa e silenziosa, l’agghiacciante momento in cui il demone ritrova la sua vittima fiutandola fra i vicoli. Possibile che non vi fosse una sola anima disposta ad aprirle le porte di casa, offrirle un rifugio sicuro?
“Per fortuna era solo un sogno!”
La colpa di chi è?
Dei fantasy che aumentano la frequenza di incubi notturni. Io non ricordo questi grandi incubi nelle settimane di lettura del ‘Signore degli Anelli’, ma se lo dice il dottor Mark Blagrove e il Chartered Institute of Library and Information Professionals…
Il fenomeno diventa rilevante se a leggere fantasy sono bambini o adolescenti. I fanciulli in tenera età sono più impressionabili dei grandi e questo fa sì che gli incubi aumentino di 3 volte rispetto alle notti degli adulti. Tipico dei bambini che leggono abitualmente fantasy è la lucidità nei sogni. Cioè loro, mentre sognano, sanno benissimo che stanno sognando e cercano il modo di uscirne, oppure di restarci, se l’avventura onirica li appassiona.
Quindi bisogna pensare anche a quale libro portarsi sotto le morbide coperte del letto perché, quelle poche pagine hanno il potere di rovinarci o rendere piacevoli (proviamo a guardare il bicchiere mezzo pieno) i nostri (bei ?) sogni, le nostre notti, diciamo quindi il 40 per 100 della nostra vita.
[Io sto leggendo ‘I love shopping in bianco’ e l’altra notte ho sognato che tornavo a casa dopo una lunga giornata di lavoro e sulla madre-poltrona, al posto di Madre, ci trovavo una pantera nera che mi dava il bentornato spalancando le fauci colanti bavetta sul pavimento. Considerando che Madre e la pantera in questione hanno non poche caratteristiche comuni, non so fino a che punto si sia trattato soltanto di un sogno.]
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Weekbook. Partiamo incontrando Baronciani
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Scrivi un commento →: Weekbook. Partiamo incontrando BaroncianiChi farà un salto su queste pagine nel weekend troverà un po’ più di letteratura. Questa specie di appuntamento del sabato e della domenica ha pure un nome: Weekbook. (Non iniziamo eh! Faccialibro sì e Settimanalibro no?!) Ringrazio Sololibri.net per la fondamentale collaborazione. Nonostante ormai mi conoscano benissimo, ancora non affidano ‘4 Chiacchiere (contate) con…’ a qualcun altro e di questo gliene sono grato. Non solo. Di tanto in tanto, se un libro m’è piaciuto o m’ha fatto schifino, lo scrivo e loro ospitano le mie recensioni. Weekbook sarà questo e altro.
L’altro si chiama ‘Ciak si legge!’ su Radio L’Aquila 1. Così annunciato potrebbe generare in qualcuno persino curiosità, ma non lasciatevi ingannare. Si tratta di un discorsetto semiserio del tutto personale che mi viene concesso riversare, dai microfoni di un’emittente radiofonica locale, direttamente sugli ascoltatori aquilani, popolo già abituato a forme di sventure notevoli. Ogni settimana il mio vocione per niente radiofonico – non è ciò che punto a fare nella vita, cerchiamo di farcene una ragione – si esprime su un libro letto, un sito visitato e piaciuto, un forum, un blog, qualcosa che comincia con quel www, neanche più necessario fra l’altro. Se sono stato a una presentazione, a letto con un’autrice, oppure presidente di giuria al concorso riservato a racconti inediti che abbiano per tema: ‘I neutrini della Gelmini – storie fantastiche del nuovo millennio’, mi siedo sulla poltroncina nera, nella “sala di registrazione”, all’interno del container da dove trasmettono dal dopo-terremoto, e parto.
“Ciao a tutti, bentornati a Ciak si legge! oggi parliamo dei neutrini della Gelmini…”
Per fortuna dura soltanto 5 minuti, secondo più, secondo meno e, sempre per fortuna, va in onda solamente una volta alla settimana: il sabato a mezzogiorno e in replica alle 19.00.
Spero abbiate notato il mio estremo gesto di generosità. Ho infatti aggiornato il blog molte ore dopo la messa in onda, così vi ho risparmiato la diretta della mattina. I più sadici potranno riascoltare la puntata alle 19.00 da questo link. Io lo segnalo a scopo informativo, ma voi vogliatevi bene! Pare che le richieste stiano inducendo la redazione ad attrezzarsi per i podcast che saranno disponibili presto nella sezione del sito della radio ad essi dedicata.
Ecco. Weekbook sarà più o meno questo. Un mix di interviste, recensioni, registrazioni per farvi trascorrere qualche minuto immersi nella natu… ehm cultura incontaminata (sembra la pubblicità di un agriturismo) con una tazza di tè verde bollente fra le mani, nella speranza che gli stessi stimoli che mi portano a scegliere gli argomenti possano fare da input per nuove discussioni, suggerimenti, condivisioni.
Bene. Appoggiate la tazza sul tavolo se no vi ustionate e partiamo con l’intervista ad Alessandro Baronciani. È un fumettista, disegnatore, artista, scrittore piuttosto noto. Per Rizzoli ha pubblicato con un buon successo la graphic novel ‘Mi ricci! L’amore ai tempi del T9’. L’ho conosciuto a una mostra a San Benetto del Tronto. Del come ne ho già parlato qua. Nonostante il piuttosto noto di pocanzi, io non l’avevo mai sentito nominare. Quindi conosciuto proprio nel senso: sono venuto a conoscenza della sua esistenza. Vi riporto il passaggio in cui Baronciani spiega la nascita dell’etichetta graphic novel.Sul termine graphic novel, secondo me è andata così: un giorno dovevano mettere un nome in alto nello scaffale dedicato ai nuovi fumetti nelle librerie e hanno trovato quello. Il nome viene da una risposta che diede Will Eisner quando gli domandarono che cosa esattamente stesse disegnando. Novel in America è la parola che viene messa insieme al titolo e al nome dell’autore nella copertina dei libri. In Italia ci scriviamo “romanzo” loro ci mettono “novel”. Graphic sta per disegno o illustrato. Quindi romanzo grafico o illustrato. Che però in italiano un libro grafico non vuol dire niente mentre un romanzo illustrato ricorda troppo un libro per ragazzi e quindi l’hanno lasciato in inglese. Un po’ come negli anni ottanta quando si voleva far credere di pubblicizzare qualcosa di nuovo e lo battezzavano in inglese per creare più effetto.
Qui di seguito l’intervista per intero.
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Ieri. Via XX Settembre. L’Aquila
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Scrivi un commento →: Ieri. Via XX Settembre. L’Aquila8 meno 20 della sera.
Le luci dei lampeggianti blu della polizia. La mia amica pensa a un posto di blocco, si aggancia la cintura di sicurezza che fino a quel momento non aveva indossato. Io dico che non sono sicuro di aver fatto la revisione alla macchina. Lei ride. Rallento, per evitare di dare nell’occhio. A terra ci sono 2 caschi da motociclista e un paio di scarpe. Ci sono pezzi di ferraglia ovunque. Qualcuno osserva dall’angolo una scena che a un tratto ci obbliga al silenzio. Mi rendo conto di avere gli occhi sbarrati su quei 2 caschi e le scarpe.
Un grave incidente. Ci diciamo solo questo io e la mia amica. Assecondiamo una tristezza che non può essere altro che leggera per l’ennesimo sconosciuto che ha sbattuto con la moto. Questo è tutto quello che sappiamo al momento. Procediamo, abbiamo una serata davanti. L’incontro, l’aperitivo, la cena. Lo slogan ripreso da una trasmissione televisiva che continuiamo a ripetere e ogni volta ci fa ridere di più. 2 bottiglie di Traminer e un’altra dal nome un po’ troppo altisonante per le nostre tasche di precari part-time. Scordiamo l’incidente finché alla mia amica arriva la telefonata di un’amica comune. Il ragazzo a bordo della moto ha fatto un volo di 10 metri. È arrivato in ospedale in condizioni gravissime e dopo poco è morto. Aveva 33 anni. Il nome alla mia amica non dice nulla, quando lo ripete a me smetto di pensare. È difficile da credere, ma prima ancora di sentirlo avevo già la sensazione di aver sbagliato a sottovalutare quel grave incidente. La sensazione che c’entrasse con me.
Lo conoscevo, non bene. Era il fratello della mia amica d’infanzia. Quando è nata mia sorella ho obbligato mia madre a chiamarla Roberta perché ci si chiamava lei, dell’ultima palazzina. Siamo cresciuti insieme. La ribelle che veniva da Roma e saliva sugli alberi e il pacioccone piagnucoloso che si aggrappava al tronco come un koala e non riusciva ad andare su né giù. Poi abbiamo litigato per una storia di bacche rosse e una scritta su un muretto e non ci siamo parlati per un sacco di anni. Da quando mi sono trasferito in periferia ci siamo persi di vista. Quando ci siamo rivisti abbiamo parlato di quella scritta e di quelle bacche – i ragazzini erano cresciuti ed era arrivato il momento di farci una gran risata – e poi ci siamo chiesti come stavamo.
All’improvviso questo. Mi dispiace da morire. Mi sembra così stupido quel che accade, certe volte. Delle robe terribili che non servono. Il dolore inutile e perenne, non me lo voglio chiedere che senso possa avere. Perché la risposta è: nessuno. È volontà dell’uomo tentare di costruire qualcosa che sia degno di un’intera vita indirizzata a quello scopo. Fa fatica l’uomo a farlo, ogni giorno, davanti alle difficoltà che si moltiplicano. Nessuna fatica per la distruzione ottenere il proprio risultato: azzerare tutto con in più un buco profondissimo nel quale ci finiscono i ricordi, le immagini, i cuori, i sogni, la fatica.
Via XX Settembre a L’Aquila è una strada sfortunata. Un cimitero ormai, come dice un mio amico.
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Lo spam degli egocentrici della rete
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Scrivi un commento →: Lo spam degli egocentrici della reteSarà capitato a tutti di ricevere un’e-mail dalla propria o altra banca (è un esempio come un altro di mittente di questo genere di e-mail truffaldine: non la propria banca, ma chi fa finta di esserlo) in cui, con una scusa qualunque, che so, l’aggiornamento del database, vi si prega di “confermare” indirizzo, numero di telefono e talvolta codici di carte di credito, pin, password. A chi ha avuto la premura di fornire i propri dati consiglio un estratto conto immediato seguito dal blocco del conto. Poi ci sono quelle e-mail prive di personalizzazione, inviate senza il consenso dei destinatari, che si ritrovano, quando gli dice bene, una pubblicità di una compagnia telefonica, quando gli dice male decine di messaggi volti alla vendita di materiale pornografico o illegale, come software pirata o farmaci senza prescrizione medica. E poi quelle che non capirò mai. Continuano a scrivermi di aver vinto un concorso al quale non ho mai partecipato. Il premio è un carnet di 500 biglietti da visita che dovrei soltanto ritirare. Chissà quale sarebbe il mio destino se decidessi di farlo.
Comunque per proteggere la propria casella di posta elettronica o anche il proprio sito internet dall’aggressione di tutta questa spazzatura esistono dei software chiamati antispam che analizzano il contenuto dei messaggi ed eliminano, oppure spostano in una cartella dedicata, tutti quelli che assomigliano a spam. Assomigliare a spam non vuol dire esserlo davvero. Può capitare che la tua casella di posta interpreti l’e-mail più importante della tua vita come spazzatura e la getti via (ogni riferimento al sottoscritto è puramente casuale), quindi date sempre una controllatina a questa cartella prima di svuotarla definitivamente.
Qual è il confine fra autopromozione e spam? E come faccio a proteggermi quando l’autopromozione altrui diventa spam? Esistono dei software anti-egocentrici (io ho fatto… io ho detto… io ho scritto… io-Io-IO!) della rete?
È una tendenza comune a chi vive in funzione del consenso. Ci sei dentro anche tu. Vuoi perché hai pubblicato un libro e, se non dovessi venderne 10000 copie nella prima settimana ti sentiresti inutile e l’editore sostituirebbe il tuo nome con la prossima promessa della narrativa universale da promuovere (poi, nonostante ne vendi meno di 40, continui a dire che sei felice del successo inaspettato che stai riscuotendo). Vuoi perché intervisti attori di compagnie teatrali amatoriali che recitano solo in dialetto (ma non chiamarmi giornalista!) e, se tutto il mondo non venisse a conoscenza dell’idea che il protagonista dell’ultimo spettacolo a cui hai assistito ha sui sanguinosi combattimenti fra maiali selvatici, sarebbe una grandissima perdita per l’umanità. Vuoi perché per mestiere fai il collaudatore di aquiloni, ma nel tempo libero scrivi recensioni delle novità editoriali e ci tieni che tutti i tuoi amici di Facebook (ma proprio tutti tutti) sappiano che a te non va proprio giù che gli editori in questi ultimi anni stiano puntando su una letteratura scialba (Anna Karenina di Tolstoj è il caso principe che nella recensione citi per avvalorare la tua tesi).
E allora che fai? Spammi. In che modo? In tutti quelli che conosci, naturalmente. Invii la stessa e-mail a tutte la mailing list che nel tempo ti sei creato per un unico motivo: spammare. “Ehi non puoi perderti il mio ultimo lib… la mia ultima rec… il mio ultimo artic… la mia ultima interv…” Oppure ancor più facile, veloce e soprattutto gratuito: bombardi i social network pubblicando lo stesso stato decine di volte al giorno – piatto ricco mi ci ficco – per la gioia dei poveracci che un dì hanno avuto la cordialità di accettare la tua richiesta d’amicizia.
Siamo certi che il risultato di un tale e continuo tam tam sia l’interessamento, o forse tanta insistenza non ottiene altro che l’effetto contrario, e cioè che l’utente si stufi?
Poco fa, quando per la quindicesima volta in un paio di ore, ho dovuto rileggere – perché difficilmente puoi sottrarti – l’aggiornamento di un autore che invitava tutti i suoi 3000 e più amici di Facebook (io ero fra quelli) a cliccare su una recensione di cui forniva il link per aumentarne la visibilità e vincere così questo concorso che tiene conto solamente degli ingressi sulla pagina, non solo non ho eseguito quanto ordinato (in compenso sto subissando di click quella della sua concorrente più alta in classifica) ma l’ho pure cancellato da Facebook.Sondaggi hanno indicato che al giorno d’oggi lo spam è considerato uno dei maggiori fastidi di Internet. (Wikipedia)
Pensateci bene prima.