• Pronti per la serata di gala
    pronti per la serata di gala

    Breve e indispensabile premessa per voi che vi accingete.
    Contro ogni insegnamento della guida per tenere incollato il lettore virtuale della generazione 2.0, ho scritto un post lunghissimo. Probabilmente il più lungo in 10 anni di blogging. Scrivo qui direi soprattutto per rileggere e ricordare, e questo post è uno di quei casi. Serve più a me che a voi, insomma. Doveva starci dentro tutta un’intera settimana, e comunque non ce l’ho fatta. Chi non ha tempo, non ha voglia, non fa niente. Ci si rilegge al prossimo. Pronti, via!

    Dopo l’ultimo post pre-crociera e il lungo silenzio che ne ha fatto seguito avrete già rimosso il blog dalla lista dei vostri preferiti e mi avrete sostituito col primo Federico Moccia dell’internèt passato di lì per caso. E invece no, non sono stato risucchiato dai flutti tempestosi con tutta la nave Costa Favolosa, che è riuscita a rispondere con carattere a una nottata di mare forza 7. Stesso non dicasi per le signore, che ruzzolavano per le scalinate scintillanti così come i bicchieri dai tavoli, mentre io, gustando l’insalata di gamberetti e seppioline, pensavo: ecco, è arrivato il mio momento.
    La vacanza è stata baciata dalla buona sorte di conoscere la Giada e la Ilaria già dalla seconda sera: due biondone pazze scatenate che il caso ha collocato al nostro tavolo e che, da quella cena in poi, non sono più riuscite a fare a meno di noi, e noi di loro.
    Abbiamo:

    • Condiviso colazione, pranzo, cena, merenda, spicchi di pizza alle 5 del pomeriggio e alle 3 di notte, cappuccini, caffè ristretti, lunghi, al vetro, americani, shakerati, mojito, margatita frozen, plunter’s punch, amari, vini, birre, succhi di frutta, cocktail analcolici e una lunga serie di altri liquidi più o meno colorati e dissetanti. La card All Inclusive Bevande di Costa Crociere dovrebbero farla Patrimonio dell’Umanità.
    • Mangiato in ogni momento e luogo della nave. Un po’ dolce, un po’ salato, un po’ carnivoro, un po’ vegetariano e un po’ gluten free.
    • Sparlato delle due famiglie mummie che condividevano con noi il tavolo… e basta. Non comunicavano con noi, non comunicavano fra di loro e… non comunicavano moglie, marito e figlia all’interno della stessa famiglia! La felicità negli occhi, proprio. Ehm… ciao! (Magari mi leggono e allora… il saluto non si nega a nessuno.)
    • Vissuto intrighi a bordo super top secret e che tali devono rimanere. Patto di sangue, giurin giurello, se no la carriera di qualche ufficiale se ne va a mare. Quindi sorvoliamo velocissimamente e passiamo al prossimo punto.
    • Visitato La Valletta (Malta), Catania e Napoli. A Barcellona non ci conoscevamo, e a Palma di Maiorca non eravamo ancora abbastanza intimi per uscire insieme. Seguono approfondimenti sulle principali tragicommedie che si sono consumate, più o meno suddivise per escursione.

      Tramonto a Stromboli
      tramonto a Stromboli
    • Visto il tramonto più pieno di emozioni e di tinte di rosso che mi sia mai capitato. Mare aperto, vulcano Stromboli, il fumo che si mescola alle nuvole sulla cima, il sole che si nasconde dietro al monte, il cielo rosso che colora pure il mare. Noi appoggiati al bordo del ponte. Una tizia che, per fare la foto migliore di tutti i tempi, si arrampica su una cassa di metallo e per poco non se ne va di sotto.
    • Ballato in discoteca coi quattordicenni, e poi sul ponte 9 alle 4 di notte a fare i deficienti: Rose, ti fidi di me? e a cantare a squarciagola Evri nait in mai drims ai si iu ai fil iuuu…

    Apriamo il capitolo escursioni: troppo sole! Forse qualche sentore bisognava farselo venire dal nome della crociera, che era appunto La crociera del sole. Però da qui a dire che avremmo rischiato il coma ce ne passa! Il coma solare è la fase che viene dopo l’insolazione, cioè quando tu, nonostante ti senta completamente svalvolato, continui ad assorbire radiazioni ultraviolette tuo malgrado, perché non puoi fare altrimenti. Non esiste un modo per fare il buio, mica è una lampadina! Non hai un cappellino, non hai un ombrellino, non c’è una tettoia nel raggio di 40 chilometri. Ti senti completamente impotente, così ti sacrifichi, rinunci alla lotta, ti concedi al tuo destino.

    Abbiamo iniziato la visita di Barcellona con una grande idea: raggiungere la città dal porto a piedi. Di 4mila persone a bordo della nave, io e Luca gli unici! Abbiamo ingaggiato una lotta estrema contro il sudore, per non affogare. A metà strada parevo un super mocio vileda revolution da strizzare. Luca tentava con una salviettina, con la quale si tamponava l’attaccatura della testa, e non parlava più. Di Barcellona ricordo con gioia il succo al kiwi del mercato Boqueria fresco fresco, che mi ha restituito la vita. Con un po’ meno gioia la bottiglietta d’acqua da 0.33 davanti alla Sagrada Familia pagata 2 euro, che la vita me l’ha tolta. L’avete mai vista una bottiglietta d’acqua da 0.33? Io prima di allora mai. E’ così… piccola! Sembra il campioncino di un profumo. Ci siamo fatti un po’ sballottare dalla gente sulla Rambla, abbiamo passeggiato davanti a Casa Batllò e La Pedrera, abbiamo preso la metropolitana rischiando anche lì di non uscirne. Quei sotterranei parevano la vita su Marte: mancava la terra rossa, l’ossigeno, e per poco non mancava pure la vita. Nei centri commerciali si stava bene, freschi, in piedi però. Abbiamo osato appoggiare 3 minuti il culo sul pavimento – cosa sono le panchine per i catalani? La casa del demonio? – è arrivata una poliziotta e ha intimato: – Stand up! – con un tono perentorio che ho temuto le partisse una pallottola.

    Palma di Maiorca è… calda! Dopo un breve giro turistico di circumnavigazione della modesta cattedrale di Santa Maria (appena 120 metri di lunghezza, 70 di larghezza e volte alte 44 metri, le più alte del mondo, leggo. Insomma, gira e rigira sempre lì ci ritrovavamo) siamo andati in spiaggia. Una spiaggia vera, di sabbia, non altrettanto dicasi per il mare che Luca guardava con sospetto dal suo telo, mentre io, amante del trash (spazzatura) mi sono tuffato fra scatolette di panna da cucina, carte e cartacce e cartine, pezzi della qualunque, oggettistica varia galleggiante, correnti schiumose dai colori variopinti. Dal torbido più profondo lo incitavo: – Dài che a largo… la monnezza non si vede!

    La Valletta è la capitale di Malta o dell’Africa, che dir si voglia. (Che caldo!) La città si colloca molto in alto rispetto al porto, e per colmare il dislivello hanno pensato bene di costruire un ascensore panoramico. Ecco, io non ho mai provato tanta compassione come per i 2 addetti. Questi signori sfortunati hanno il compito di ritirare l’euro dalla mano del turista, inserirlo nella fessura della macchinetta, schiacciare un pulsante e consegnargli il ticket. Tutto ciò a una temperatura media di 500 gradi, senza un’ombra a pagarla, intrappolati in una divisa pesante che alla sola vista manca l’aria, con miliardi di gocce di sudore che si riproducono sulla fronte e colano sulle guance, e l’espressione che varia da: maledetti turisti, fate qualcosa per me, disgraziato bigliettaio maltese! a: voglio morire now! Li ho osservati in quei 2 o 3 minuti di pazienza che arrivasse il mio turno, mentre mi sentivo ardere vivo dall’aria rovente dell’inferno, e ho pensato che loro in quell’aria ci lavorano per ore. 2 parole si sono materializzate in carattere gigantesco e grassetto davanti ai miei occhi: Dio e mio.
    Malta è gialla e solare. Avete presente i miraggi nel deserto? Ecco, Malta è il deserto. Il miraggio era un bar con la connessione Wi-Fi dove ci siamo rifugiati, abbiamo bevuto, aggiornato i nostri status sociali, ci siamo scattati qualche foto, aggiunti agli amici, scambiato i numeri di cellulare. Insomma, non sapevamo più che inventarci per restare al fresco dell’aria condizionata. La nostra escursione ha subito una svolta quando la Giada ha avvicinato il tassista Carmelo facendo sfoggio del suo Inglese molto fluently, direi almeno livello C1 (?!), e lo ha convinto a portarci in spiaggia per 20 euro. Durante il viaggio di andata, nel generale silenzio dell’abitacolo, lei è stata capace di sbobinare le più gettonate espressioni dei dialogs nei libri delle vacanze delle medie: lesson one e lesson two, fino al culmine toccato da una domanda chiave: – Do you stay in Italy?
    Io ho cominciato a ridere dentro e non c’ho capito più niente, come pure il povero Carmelo che, dopo un attimo di sbandamento (sto a Malta o sto in Italy? Boh!), ci ha preso così in compassione da venirci pure a riprendere dopo la giornata in spiaggia. Spiaggia… va be’. Diciamo più una distesa di pietrisco su cui stavano adagiati milioni di corpi a distanza ravvicinatissima che discorrevano del più e del meno in perfetto napoletano.

    Catania è una città gentile: i negozianti ti salutano col sorriso, i baristi decantano le qualità delle granite e dei loro dolciumi capitanati dai leggendari cannoli. Nessun sapore al mondo potrà mai più generare alle mie papille gustative l’estasi di quel cannolo ricoperto di praline al pistacchio col quale abbiamo fatto colazione (assieme a 15 granite). Continuavamo con le granite come se non ci fosse un domani. Al momento di pagare il conto, la signora in cassa ha ripetuto l’ordine con gli occhi sgranati domandandoci più volte: – Siete soltanto in 4, giusto?

    Colazione catanese
    tipica colazione catanese

    Catania è una città gentile sì, tranne quando scoppiano le scazzottate. Siamo stati testimoni oculari vicinissimi di ben 2 risse in 4 ore. La prima a Piazza del Duomo, vicino alla Fontana dell’Elefante. Eravamo appena arrivati, tentavamo di orientarci, un gentile signore con gli occhiali si avvicina con una certa finta modestia e ci invita ad andare a vedere il Palazzo dell’Università, con la seguente motivazione: Quella di Catania è la più antica università d’Italia. Un signore panciuto poco distante capta le parole dell’occhialuto e non riesce a non intervenire: -Devo precisare che la più antica università d’Italia è quella di Bologna.
    Insomma, quella che pareva un’amichevole discussione ricca di spunti culturali si accende, i toni si elevano, le mani si alzano, quei 2 si staranno ancora ammazzando di botte. Noi scappiamo verso via Etnea con un solo pensiero: cosa indossare per la serata in nave? Vi può sembrare una questione di scarsa importanza, ma vi assicuro che sulla nave acquista i connotati di un’emergenza. Dopo la serata di gala non ci aspettavamo una seconda serata definita elegante. L’imperativo è: mai e poi mai presentarsi con roba già indossata in uno dei giorni precedenti! E ora? Per la Ilaria e la Giada nessun problema: hanno pensato bene di dedicare un’intera valigia a testa agli abiti da sera. Io e Luca siamo entrati nel panico. Ho risolto con una polo sull’azzurro presa in un negozietto d’alta moda, va be’… di moda, diciamo. Grande entusiasmo, grande spesa, faccia di Luca perplessa: – Ma tu la conosci la marca del tuo nuovo acquisto?
    – No! Ma io con la moda zero. Sarà uno stilista noto.
    – Molto noto sì… A Catania e provincia!
    La seconda rissa si svolge dentro e fuori una rosticceria, mentre divoriamo come cani idrofobi una gigantesca arancina ripiena di riso e ragù.
    – Te ne devi andare! – grida il proprietario uscendo dal bancone, e si avventa contro un individuo che voleva consumare senza pagare. Si percepisce che quell’ometto basso, col braccio che gli finisce al gomito e una vistosa maglietta verde prato, che gli urla contro: – Bastardo! Bastardooo! Sei un bastardoooo! – dev’essere una sua vecchia conoscenza. Smetto di masticare quando il matto verde si volta verso di noi e ricomincia: – Bastardiii, siete dei bastardi! Tutti bastardi!!!
    A quel punto il proprietario lo spinge fuori, lo prende per il colletto o quello che è, e lo trascina all’interno di un tetro vicolaccio laterale.
    – Stai menando a un invalido! Bastardoooo! Ahhhhhh ahiaaaaaaaaaaa! – (Urla disperate nel buio)
    All’arrivo di una volante della polizia mi sento dentro a una puntata di Pupetta, il coraggio e la passione. Ci allontaniamo quando l’ometto, affannato per la colluttazione ad armi impari, ci fissa ancora ed esclama: – Voi dovete testimoniare, quell’uomo mi ha menato. Sono un invalido! Ditelo alla polizia… bastardiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!

    E' un addio
    è un addio

    Napoli! Qua devo fare un bel discorsetto. Tutti a parlar male dei napoletani, che sono rubacchioni, che sporcano, che si distinguono dalla puzza, che ‘nzi capisc niend quando parlano. Macché! Niente di tutto questo! I napoletani dovrebbero balzare alla cronaca quotidiana per la loro innata propensione all’organizzazione. Dev’essere proprio parte del patrimonio genetico di questo popolo laborioso, se no non si spiega. Abbiamo aspettato 45 minuti sotto il sole che ci facessero salire su un City Sightseeing, che sono quegli autobus rossi a due piani scoperti che fanno il tour della città. Quando finalmente hanno deciso che c’era posto per noi, siamo rimasti un’altra mezz’ora (sotto il sole) ad aspettare che il bus si riempisse. Io già cominciavo ad avere le prime allucinazioni, ma non potevo immaginare quello che di lì a poco sarebbe accaduto. Il bus parte per l’itinerario golfo. Cumuli di particelle di vapore danzavano una coreografia di Garrison davanti ai miei occhi. I contorni delle cose tremavano, compreso il Vesuvio. Tanto che a un certo punto ho tremato pure io: non è che si riaccende ed esplode l’ira di Dio, no? Alla fine del primo itinerario si sentiva un forte odore di pollo bruciacchiato che arrivava dalla mia delicata capa spelacchiata, i capelli delle ragazze si erano schiariti di due tonalità virando al bianco, la pelle della faccia di Luca aveva completato la trasformazione chimico-fisica fino allo stato di materia del carbonio 14 purissimo. La Ilaria approfitta di una breve sosta per saltare giù e sparisce fra le stradine partenopee. Nessuno sa dov’è, il bus aspetta soltanto lei. Decine di persone incarognite, legate ai posti ad ardere vive – qualcuno intanto muore – ci guardano. Ma che volete? Ilaria torna su col suo bel sorriso e un sacchettino con bottigliette d’acqua e panzerotti alla ricotta che ci permettono di affrontare il secondo tour all’interno della città.
    Napoli ha riconquistato in un attimo il mio amore perduto quando ho azzannato lo spicchio di pizza bianca con la mozzarella di bufala. Certo che, se organizzassero i giri turistici con la stessa attenzione che dedicano alla vendita abusiva degli ombrellini parasole forse alla fine dei tour City Sightseeing si conterebbe qualche superstite in più.

    Dobbiamo scendere per forza?
    dobbiamo scendere per forza?

    E’ anche vero che se io avessi ceduto alle mie questioni di principio e me ne fossi accattato uno, quasi sicuramente non sarei andato incontro alla desquamazione tipica dei rettili, che ha caratterizzato la mia alta fronte nei 2 giorni successivi.
    Il 12 agosto a Savona è finito tutto. Avete presente lo spot con la tipa depressa in vasca da bagno? Ecco, io ci ho impiegato un mese esatto a riprendermi dalla tristezza per l’abbandono di quella vita che a un certo punto ho pensato dovesse durare per sempre. Povero illuso!

    A ottobre la Ilaria e la Giada verranno a trovarci a Firenze. Ci sarò anch’io, e da un po’. Ma questa è un’altra storia che, alla luce della frequenza con cui ultimamente sto aggiornando il blog, spero di raccontarvi prima di Natale.

    Scrivi un commento →: Crociera un po’ dolce, un po’ salata, un po’ carnivora, un po’ vegetariana e un po’ gluten free
  • – Ah, quanti luoghi vorrei visitare! Non mi bastano gli anni che mi restano per vederli tutti! – esclama Madre sospirando davanti alle splendide immagini subacquee di Linea Blu su Rai1. Pesci variopinti dalle dimensioni vagamente inquietanti si muovono sullo schermo mentre la voce della fortunata giornalista addetta descrive il paesaggio sottomarino.
    I coralli, piccoli animali costruttori delle antichissime barriere coralline…
    – Ma da quando in qua i coralli sono animali domestici?
    – Madre, non ha detto domestici. Sono animali piccolissimi con dei tentacolini, che si costruiscono delle tane calcaree tipo conchiglie, che nei secoli si moltiplicano fino a diventare le barriere coralline.
    – E fino a diventare le collane di quelle stronze delle colleghe mie.

    Scrivi un commento →: [Madre Sub]
  • Dopo tanti rinvii, finalmente Madre decide che questa è la mattina giusta per ricominciare l’attività motoria con una salutare passeggiata fra i paeselli attorno a Villa Madre. Abbandona la sua poltroncina madrina rossa e indossa una tuta blu ponendomi, prima di uscire, la solita domanda esistenziale, l’unica cosa che le interessa sapere:
    – Mi fa il culo grosso?
    – (Ovviamente) No, anzi…! – rispondo cercando di calcare sul punto esclamativo. Non sia mai a insinuarle un simile dubbio.
    I viottoli alberati costeggiano villette graziose ognuna delle quali per Madre è parzialmente obbrobriosa.
    – La siepe è malata… certo che un colore un po’ più allegro per l’esterno potevano sceglierlo, tipo un pesca chiaro… quel cane è malato… le albicocche non cresceranno e gli cadranno tutte dall’albero… malato… questa è una bella casa, ma è troppo… troppo… – si ferma e si guarda intorno. A un tratto temo che possa dire “malata”.
    I suoi circuiti sono andati in tilt di fronte a una villa stupenda, completamente rivestita in cortina, con un grande giardino tenuto benissimo, col dondolo e alcuni alti alberi possenti. Non riesce a trovarle un difetto.
    – E’ troppo… sì… no… non mi… è troppo assolata!
    – Madre, volevi dire isolata? – domando non credendo alle mie orecchie.
    – No, assolata! Troppa luce, immagina…
    – Cosa?
    – Tutto quel sole che ti entra dentro casa!
    Poi si volta soddisfatta, e prosegue. Villa Madre sarà sempre la più bella del regno, per lei.

    Scrivi un commento →: [Madre e altre ville]
  • Questo, vi avverto, sarà un post molto impegnato, denso di attualità, scottante (di sole). Ho deciso che la laurea raggiunta dopo dodici anni passati a domandarmi: mi laureo o non mi laureo? non era sufficiente alla consacrazione della mia (unica) grande estate di successo – di solito il Santo Natal e i mesi estivi si fanno sempre ricordare per qualche evento sventurato che mi getta in un pozzo senza fondo di depressione cosmica dalla quale comincio a riemergere nelle successive stagioni. E invece questa… ho pure finito di pagare la macchina, pensate! Ho finalmente qualcosa di mio, mio mio cacchio! – e così ci ho messo dentro una bella crociera nel Mediterraneo. Parto domani da Savona e torno il 12, sperando di ritrovare l’Italia invasa dalla Germania. Andiamo io e Luca, amico di una vita, a bordo della nave più incredibile di Costa Crociere. Si chiama Costa Favolosa anche detta la bella del reame. Pregasi chiunque di evitare sgradevoli ironie di comandanti Schettino e scogli, risultereste banali e non-divertenti, grazie! Basta e avanza Wikipedia che specifica “Costa Favolosa è la nave gemella di Costa Concordia (naufragata all’Isola del Giglio)”. Magnifico! Va be’, si sa che fra gemelle c’è sempre quella più sfigata. Fra l’altro sono tre settimane che in tivù mandano film di affondamenti, e io non me ne perdo uno: da Poseidon, che si salvano in quattro sui tremila passeggeri della nave di lusso ribaltata da un’onda leggermente anomala nel bel mezzo del countdown del Capodanno, a quello sull’aviatrice americana che diventa la moglie di Richard Gere e poi precipita nell’oceano col biplano, e ciao.
    Sto tentando di studiare la geografia della nave, non tanto per individuare la bolla d’aria a compartimenti stagni nella quale rifugiarmi dopo eventuali “guasti elettrici” annunciati dagli altoparlanti – guasti elettrici… come no! – (mi farò fornire una cartina da un assistente di bordo cileno) quanto per non andare a finire su Chi l’ha visto?, che Madre si emoziona a parlare al telefono con Federica Sciarelli e le prende un coccolone. Sono certo che il secondo giorno si perderanno le mie tracce, e a nessuno mai verrà in mente di cercarmi nella stiva, oppure in qualche canalone di scolo dei rifiuti organici dei passeggeri, o nelle caldaie trovate per caso mentre cercavo la mia cabina.
    E’ una nave gigantesca, ragazzi! Metri 290 per 3800 passeggeri. Una SPA su due piani, cinque vasche idromassaggio, quattro piscine, campo polisportivo, cinema, casinò, teatro, discoteca, simulatore di golf, cinque ristoranti, un miliardo di altre cose fantastiche e tredici bar: un tour quotidiano di drink grazie alla nostra All Inclusive Bevande Premium che comprende la consumazione illimitata di bevande alcoliche e analcoliche superalcoliche in ogni momento della giornata, mioddio! Certo, avremmo preferito una delle suite Samsara con veranda sul mare dotata di Jacuzzi, ma… no, non siamo alla sua portata.
    La Crociera del Sole salperà da Savona domani alle 17, poi fa: Barcellona, Palma Di Maiorca, La Valletta, Catania, Napoli e tutto finirà dove ha avuto inizio – già piango – a Savona, il 12. Ho stampato l’ira di Zeus di roba su queste meravigliose città che dovremo visitare a tempo di record. Ma tanto sicuramente finiremo per buttarci su una spiaggia con diciotto Long Island in corpo a rimirare i gabbiani che fanno la cacca per aria. Facciamo che se siete nei paraggi ci diamo appuntamento?

    Be’, fantasticissimi amici, ci sentiamo poco prima o poco dopo Ferragosto, quando ricomincerà tutto. Vi devo dire cosa ricomincerà, come ricomincerà e dove ricomincerò io, soprattutto. Ma per ora sole, mare e All Inclusive Bevande Premium per tutti!

    Scrivi un commento →: Parto per la mia vacanza… Favolosa
  • Dopo la proclamazione (che Madre chiama la premiazione) e il pranzo, e prima di abbandonarmi sul letto con ancora indosso l’abito blu di sartoria e le scarpe londinesi, ho scritto un lungo post su Facebook che voglio salvare anche qui perché non si perda fra tutti gli altri. Sono parole trascinate dalle emozioni come dalla corrente di un fiume. Ho chiuso gli occhi e sono uscite le parole, liquefatte con l’ansia. Voglio poterle rileggere di tanto in tanto per fare un viaggio indietro nel tempo e nelle sensazioni. Questo post sarà il gettone da inserire nella mia macchina del tempo ogni volta che vorrò rifare tutto da capo: risvegliarmi il 25 luglio 2013 e ritrovarmi alle 9.30 nell’aula 1.6 del palazzo di Coppito 1, facoltà di Informatica, L’Aquila.

    E’ andato tutto come era impossibile che andasse, così bene dico. Sono stato il primo alle 9.30, puntualissimi. L’aula ancora andava riempiendosi. La commissione si è seduta ai banchetti, e io su una sedia davanti. Ho distribuito le slide. Ho iniziato a raccontare quello che avevo realizzato, la mia applicazione; mi sentivo felice di spiegare le mie intuizioni mentre lo facevo. Ero coinvolto, entusiasta, l’ansia era sparita. Ho parlato 19 minuti invece che 13, e nessuno mi ha interrotto. Hanno seguito la mia applicazione in esecuzione sul PC. Io non vedevo la freccetta bianca – la mia posizione era parecchio scomoda perché fosse comodo per loro – cliccavo a sensazione sperando che si trovasse nel punto che immaginavo io, e due volte sono andato a finire sul desktop con tutti i miei file letterari, che quelli avranno pensato: boh! Mi hanno fatto alcune domande, tutte sensate, azzeccatissime. Erano dentro la discussione, e io ero felice di rispondergli. Mi hanno invitato a lavorarci ancora su, a non abbandonare perché potrebbe rivelarsi una bella possibilità per il futuro. Mi hanno congedato. Ho sentito un grande applauso. Mentre portavo via le mie cose una professoressa mi ha chiesto se poteva tenere le slide.
    Alla proclamazione non mi aspettavo niente. Il massimo dei punti a disposizione era 6, io partivo da 88. Quando la Presidente ha detto: “Ti proclamo dottore col punteggio di 95 su 110” ho pensato che si erano sbagliati tutti, che non era possibile. Poi ho capito che mi avevano dato un punto in più del massimo. Mentre seguivo le proclamazioni degli altri ripensavo a quel punto in più del massimo e scansavo qualche lacrima dalle guance. Poi ho parlato con un membro della commissione e gliel’ho chiesto. Lui mi ha detto che qualche volta lo fanno. Quando uno studente realizza una tesi sperimentale che vale quasi una specialistica e la applica alla vita quotidiana. Io l’ho ringraziato e lui mi ha detto: “Auguri!”. E ho ricominciato a piangere.
    I festeggiamenti continueranno fino a tarda notte. Io già lo so che non smetterò di pensare a quel punto in più del massimo. Che ho visto brillare negli occhi delle persone che mi vogliono bene e che si sono fatte centinaia di chilometri per me e centinaia di chilometri dovranno farsi per tornare in sincronia con le loro vite e i loro impegni. E quelle che da vicino hanno pensato a tutto, ma proprio a tutto.
    Vi voglio bene, come voglio bene a tutti voi che mi state bombardando di congratulazioni. Vi voglio bene veramente. Oggi sono la persona più felice del mondo. Auguro a tutti di vivere momenti di felicità così intensi, circondato da tutto questo bellissimo amore.

    Sono stati tre giorni intensissimi, faticosi e felici, passati insieme alle persone più importanti della mia vita, inclusa Madre che è riuscita a contenere la gioia per l’agognata laurea del Primogenito solo fino a un certo punto. Si aspettava di dover presiedere a uno spettacolo poco edificante: il figlio trentaduenne che si laurea col voto più basso, pensava. E invece si è dovuta ricredere, e mi sono dovuto ricredere anch’io. Si è avvicinata e mi ha detto: – C’era un 110, un 100 e poi il tuo 95, e tutti gli altri dietro.
    La verità è che vivo felice da un po’, da quando ho capito di essere tornato in carreggiata. Ho sempre cercato di lasciare semi di buoni ricordi nel cuore delle persone care. E loro hanno ricambiato con una festa esplosiva h24, fatta di tanti piccoli pezzi di personalità diverse, tutte legate dal filo d’acciaio del bene fra noi. Nonostante gli impegni, il lavoro, le distanze. Non scorderò neanche un vostro gesto. Ce li ho tutti qui, in testa, non come le cose che mi dimentico per via di questa memoria di pannamontata, ma come quello che non va più via, perché è troppo profondo il segno e luminoso il colore. E grazie a tutti voi, amici della rete, per avermi investito con la vostra ondata di energia straordinaria. Trovate sempre il modo di esserci, di condividere la mia felicità, e io la vostra. Non c’è una sola scheggia di malinconia, non una macchiolina d’inchiostro nello specchio d’acqua di quella giornata, solo spinta, boato, luce, fumo, calore, lava incandescente, zampilli di fuoco nel cielo. Noi siamo una grande forza: un vulcano.

    Scrivi un commento →: Noi siamo un vulcano
  • Ebbene sì! O almeno, non mi viene in mente, e spero non esista, alcun motivo per cui le cose dovrebbero andare a finire in un modo diverso. Non sento ancora i morsi dell’ansia. Mi distraggo telefonando al mondo intero e parlando del più e del meno, ma non di domani, come se non ci fosse un domani, appunto.
    Ho ritirato le copie della tesi in copisteria e fanno la loro porca figura. Con quello che le ho pagate vorrei anche vedere. Mi sono appena voltato a guardarle, ora mentre scrivo, e mi è venuto da ridere. Ogni tanto vado alla ricerca di prove tangibili che, senza ombra di dubbio, confermino che ciò che penso accadrà veramente, che non mi trovo in uno dei miei sogni della notte, in cui sono sempre lì lì per laurearmi e poi mi sveglio con la delusione ai massimi storici. E quindi le guardo, lì sul tavolo, blu e argento.
    Voglio, non vorrei, ma proprio voglio, che questo giorno resti nella memoria dei miei ricordi più belli e di quelli di coloro che ne faranno parte, come hanno fatto parte di tutte le sfumature dei momenti della mia vita. Hanno gioito con me, hanno pianto con me, si sono incacchiati con me, mi hanno detto bravo. E quindi dev’essere tutto perfetto. Più che perfetto direi bello. Un bella giornata, ecco. Poi dicono che domani esploderà l’estate quella vera, potrei interpretarlo come un segnale di qualcosa del tipo: scatena l’inferno Matte’!
    Sarò il primo, alle 9.30. Un quarto d’ora e poi non lo so come mi sentirò. Ho provato a immaginarlo, ma non ci sono riuscito fino in fondo. Scoppiavo a piangere prima. Queste settimane sono state intensissime dal punto di vista emotivo. Una specie di preparazione alla bomba di gioia che mi esploderà dentro domani, e alla quale, in verità, non c’è modo di prepararsi efficacemente. Mi è capitato di piangere senza motivo davanti alla tivù, davanti alla pentola che bolliva, davanti alle tartarughe acquatiche basite, davanti al computer, davanti al niente, ma che nella mia testa aveva forma e colori di quello che sarà domani. Le presentazioni letterarie mi hanno insegnato a dominare l’ansia e a scegliere le parole giuste nelle occasioni pubbliche. Ma stavolta quello che quel quarto d’ora significa nell’arco di una vita, la mia vita, è troppo forte per le mie orecchie, troppo veloce per i miei occhi, troppo faticoso per il mio cuore perché io riesca a controllarlo, e a controllare gli stati d’animo saltellanti dei quali sarò pubblica vittima. Anche questo post è un modo per distrarmi, telefonare a qualcuno e chiacchierare. Io sto chiacchierando con voi, pure se voi non mi rispondete. Io sto chiacchierando, infatti!
    Sarà una giornata avventurosa. Non so cosa devo fare, cosa mi devo portare dietro, se la tesi o soltanto le slide, e il computer che non si sa bene se potrò accendere. Madre mi ha chiesto se devo portarmi la Carta d’Identità, a me prima è venuto da ridere, poi ci ho pensato su e mi è venuto pure il dubbio. Non conosco il rituale. Questo fa dell’essere il primo dei laureandi un dramma dalle potenzialità suicide probabilissime. Io sono bravissimo a fare quello che fanno gli altri. In questo caso consiglio agli altri di non fare quello che farò io. E non ho capito bene nemmeno l’aula, di aule 1.6 ce ne sono due. Questo succede nelle città dove arriva un terremoto forte, le cose che funzionavano non funzionano più, vengono costruite alternative alle quali si dà lo stesso nome, e poi ristrutturate e rimesse in moto le originali. E ora esistono due 1.6, in due luoghi sensibilmente lontani, però.
    E sarà una giornata di festa, passata per intero con le persone più importanti della mia vita, come non ci capita spesso in questa vita degli adulti in cui abbiamo dovuto abituarci a stare bene lontani, ad accontentarci di sentirci quasi tutti i giorni e vederci poche volte l’anno. Capite che una giornata così è preziosa, poi metteteci che è il giorno della mia laurea…

    Scrivi un commento →: Domani mi laureo
  • diffamazioneFino a che punto è lecito spingersi coi propri “pareri”?
    Dov’è che finisce l’opinione e comincia l’insulto?
    E quando questo diventa punibile?

    Leggendo, scrivendo, vivendo quotidianamente la “rete letteraria” – ma sì, chiamiamola così – ho maturato la sensazione che chi si diletta a scrivere sul proprio blog, ma anche chi commenta il sito o il blog di qualcun altro, le domande su scritte (inclusa quella nel titolo) non se le sia mai poste nella vita. La convinzione di potersi esprimere in assoluta libertà, perché nella rete tutto è permesso, la fa da padrona, e il passo fino a ragionamenti selvaggi e offensivi è più breve di quanto si pensi.
    Il social-opinionista si carica di un’onnipotenza immotivata che è lui stesso ad attribuirsi, e si convince di non essere soggetto a nessuna regolamentazione, a differenza dei giornalisti, per esempio. Le parole nella sua bocca, anzi sulla tastiera del computer – a voce e vis-à-vis non si azzarderebbe mai – si fanno armi capaci di causare piccoli o giganteschi disastri. E quindi:
    a) Si dichiara un addetto ai lavori – lui sa sempre bene di cosa parla, qualunque sia l’ambito di discussione –  nonostante l’unico ambiente di “lavoro” che frequenta veramente dalla mattina alla sera sia la sua cameretta.
    b) Rilascia pareri non richiesti sugli usi e i costumi di chi dice di conoscere pur non avendolo mai incontrato, né averci scambiato quattro parole direttamente.
    c) Forse senza rendersene conto insinua e, in nome del sacrosanto diritto d’opinione, assolve o condanna. Insomma, giudica.
    d) Infine completa l’opera con un clic pubblicando la sua menzogna che, di bacheca in bacheca e di tweet in tweet, si moltiplica fino talvolta a raggiungere i media nazionali e a rovinare nomi, immagini e carriere. Giustamente? (Nel caso di Valerio Scanu: Sì!) Ingiustamente? (Nel caso di Marco Carta: No!)
    Scherzi a parte, vediamo di capirci qualcosa, io per primo.

    Il fatto che tutti coloro che posseggono un computer e una connessione possano scrivere e divulgare su internet ciò che vogliono non significa che la rete sia una zona franca. Il nome, l’immagine, l’onore e la reputazione restano a tutti gli effetti diritti inviolabili, anche nella virtualità di internet. A tutelarli ci pensa l’articolo 595 del codice penale che, in sintesi, afferma: commette il reato di diffamazione chiunque, comunicando con più persone, offende la reputazione altrui. Detto così sembra chiarissimo, eppure ci sono alcune possibili interpretazioni inesatte nelle quali incorre il pensiero comune, e pure il mio, che ho sciolto informandomi. Mi è capitato di leggere e di sentire spesso che la verità non costituisce diffamazione. Non è così. La verità non costituisce diffamazione se espressa nei modi consoni.
    Poniamo il caso che io sia incacchiato nero col signor Rocco Sfascione, meccanico che una ne aggiusta e cento ne rompe dal quale ho la certezza di essere stato appena raggirato, e decida di raccontare la vicenda sul mio blog. Posso farlo, fare il nome di Rocco e pure segnalare l’officina, ma non posso scrivere in preda alla rabbia che Rocco Sfascione è un pezzo di mierd e pure un brutto figlio di. E nemmeno una delle due soltanto. Sì, anche se probabilmente Rocco è entrambe le cose, proprio così. Quindi badate bene alle parole! Almeno voi che scrivete dovete essere in grado di utilizzarle efficacemente senza cadere nel facile tranello dell’insulto. La verità può essere utile a qualcuno che si trova o si troverà nella vostra stessa spiacevole situazione, fate benissimo a diffonderla, anzi dovete, ma rimanete nei ranghi verbali per rimanere nel giusto!
    Abbiamo detto che il reato di diffamazione sussiste quando la comunicazione del messaggio arriva a più persone. Anche questa affermazione può generare interpretazioni imprecise. Infatti non significa che più persone devono aver letto le vostre simpatie. E che quindi io, sul mio blog che non legge nessuno, posso scriverci quello che mi pare perché: tanto fa 5 contatti l’anno. Proprio per niente. E’ sufficiente che la comunicazione di un determinato messaggio arrivi a più persone, indipendentemente dal fatto che quelle persone siano o meno effettivamente venute a contatto con le mie convinzioni su Rocco Sfascione. Conta che la montagna sia lì, meta visibile, non quanti “maometti” si siano messi in cammino per raggiungerla. E non conta nemmeno l’intenzione. Quindi non ve ne uscite poi con: Credimi, io non volevo offendere nessuno. Non avrei mai pensato che il tuo sensibile cuore… No, qui non si tratta di sensibilità, né di credere o no alla volontà di non ledere. Non è necessario che l’intenzione di chi dia luogo a quelle determinate espressioni sia necessariamente di offesa. E’ sufficiente che le parole adoperate siano socialmente interpretabili come offensive. Perciò, ancora una volta, attenzione alle parole! Le parole hanno un significato molto preciso che gli assegna un peso la cui interpretazione è insindacabile, e quindi su cui c’è poco da discutere.

    Questo post non deve dissuadervi dal raccontare soprattutto le brutte esperienze. Anzi! La rete, oltre che un rapido mezzo per trasmettere le informazioni, dovrebbe intessere un intreccio di condivisioni umane affinché l’errore, l’ingenuità oppure il sopruso subito da qualcuno possa diventare il successo di qualcun altro.
    A tal proposito vi segnalo l’ultimo articolo di Carolina Cutolo su Scrittori in Causa, un’altra di quelle piattaforme sacrosante e preziose per gli aspiranti autori. Carolina parte dalla vicenda di Linda Rando, blogger denunciata per diffamazione dall’editore 0111 e condannata in primo grado (ne ho parlato anch’io qui: Clic), per cercare di fare chiarezza sul rapporto verità/diffamazione. E’ un articolo utilissimo non soltanto per chi quotidianamente affida alla rete le proprie impressioni, ma anche per tutti coloro che nella vita si sono trovati almeno una volta a pensare che fosse meglio tacere l’ingiustizia piuttosto che raccontarla.
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    Ho prelevato l’immagine in alto e qualche info più tecnica da Dot Florence.

    Scrivi un commento →: Cose che dovremmo tenere bene a mente quando scriviamo: qual è il confine fra dire la verità e diffamare?
  • C’è una cosa che a un certo momento della mia vita ho creduto che si sarebbe autoconsacrata come il mio best fallimento, il più doloroso dei rimpianti: la tesi. Avevo ventotto anni e poi ventinove e trenta, trentuno. Dicevo a tutti che ci stavo lavorando, che stavolta l’avrei fatto sul serio. Lo dicevo pure a me stesso: Dopo pranzo, da domani, da lunedì, dal mese prossimo, con la nuova stagione, da gennaio mi ci metterò d’impegno. Non era mai così;  finché queste balle, sempre più grandi e difficili da tenere nascoste, hanno cominciato a dar noia anche a me ed è crollato tutto silenziosamente. Non se n’è accorto nessuno che io mi trovavo sotto un cumulo di tristezza, e con questo non voglio prendermela con altri che con me stesso. Ho sempre avuto un talento speciale nel costruire sorrisi capaci di rassicurare le preoccupazioni degli altri: Va tutto benissimo, anzi, questo è un momento particolarmente positivo, devo dire. Preferivo mentire che metterci un po’ di volontà per capire se si vedeva un filo di luce e domandarmi se valesse la pena seguirne la direzione.
    Una certezza pesante si era accomodata sullo stomaco. Aveva un ghigno che sembrava dire: Ormai non ce la farai più, ammettilo! Lascia perdere! Mica vorrai buttar via altro tempo a prendere in giro te stesso e gli altri? E io non me la sono mai sentita di contraddirlo. Era troppo facile continuare, andare avanti come se fra me e le responsabilità di uomo adulto vi fosse una rassicurante distanza siderale che non si accorciava mai. Quindi perché preoccuparmi?
    Mi sono messo a lavorare prima in un supermercato e poi al McDonald’s. Scrivevo tutto il resto della giornata, presentavo i miei libri, conoscevo gente, ridevo, mentivo ed ero solo, schiacciato dal me stesso inconcludente che mi ricordava sempre che avevo un conto in sospeso che mi avrebbe precluso la felicità.

    Un giorno di un anno fa mi sono guardato allo specchio e mi sono trovato orribile. Non per gli anni che si vedono e i capelli che non si vedono più, ma per quell’aria di rassegnazione nello sguardo che mi ha gelato. Erano davvero i miei occhi? Ero io quello? Il Matteo pieno di sogni, pieno di roba da fare, progetti da realizzare, città in cui andare a vivere, storie da raccontare? Che cosa stavo facendo fermo immobile ad aspettare? Ad aspettare cosa?
    Ecco, quello è stato il momento in cui ho capito che il mio rimandare durato anni  non era altro che una dichiarazione di resa mascherata. Mi stavo arrendendo. Per la prima volta nella mia vita mollavo io. Dovevo ammetterlo, come diceva il ghigno, oppure strapparmi di dosso la ragnatela di sbagli e cambiare il naturale epilogo delle cose in un altro che fosse il mio di epilogo.
    Mi sono aggrappato a quell’ormai che segnava il limite del tempo stabilito e delle mie possibilità. Quale limite? Non c’è nessun limite alle nostre possibilità. Dobbiamo ripetercelo e ricordarcelo ogni volta che siamo sul punto di mollare. No, mai. La laurea si allontanava e io la guardavo perdere i contorni. Finché ho iniziato a correre. C’è sempre un modo e un tempo per festeggiare. Mi sono licenziato, mi sono rimesso a studiare a 31 anni suonati e stonati. L’ho riacchiappata per il bavero della giacca. E’ stato un anno faticoso, con sul collo il fiato della paura di toppare pure stavolta, ma dentro e attorno raggi lucenti di cui avevo dimenticato l’abbaglio e il calore.

    Ecco che volevo dirvi, che c’è una cosa bella che ho concluso in questo mese che sono mancato dal blog, proprio quella cosa che ormai pensavo che non avrei concluso mai: la tesi. L’ho consegnata in segreteria e la discuto fra quindici giorni. Mi sento avvolto da una nuvola e non è il fumo dell’ennesima caffettiera che ho appena portato a fusione. Non temete, Villa Madre è ancora salva e neanche stavolta c’è stato bisogno dei pompieri. E’ come se avessi trattenuto il respiro per dodici anni di errori e soltanto oggi avessi riassaporato il gusto dell’aria, con una certezza in più: che non deve esistere nessun “ormai”.
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    L’immagine raffigura un ominide felice nell’atto di gettare consegnare la tesi appena stampata al bidone della spazzatura in segreteria. Devo pure dire che è stata scattata dal mio amico Franco, in arte Pisquontuit. Siamo così amici che ci ha tenuto a ricordarmi che quando si pubblica un’immagine va sempre indicata la fonte, altrimenti c’è il rischio che qualcuno, per esempio lui, mi denunci.

    Scrivi un commento →: Non deve esistere nessun “ormai”
  • Ciao, domani parto per Trento e allora volevo salutarti.
    Vado dai miei comparini sposi Fra e Anto, che non vedono l’ora di ritrovarsi per casa un simpatico gorilla impacciato che non sa nemmeno tagliare due pomodori. Ma c’è da aggiungere: sorridente e con un bel paio di occhialoni nuovi molto trendy/radical chic/mariobiondeschi.

    Io sono una specie di gigantesco (comunque magro) cellulare old style, di quelli che scrivevano i messaggi e telefonavano, punto. Sono queste le mie funzioni primarie: scrivere e parlare. A un solo neurone non si può davvero chiedere di più.
    Solo che si è scaricata la batteria. Quando si scarica la batteria io mi spengo. Proprio così: OFF. Non è che cerco altrove energie, stimoli, no. Mi spengo finché non mi ricarico.
    Fra e Anto sono capaci di ricaricarmi, come pure tutti i miei amici forti. Quelli della vita. Le risate che mi faccio con loro sono corrente elettrica che restituisce agli occhi la luce dell’ottimismo per affrontare tutto.
    Manca un mese alla consegna della tesi in segreteria e io non ho nessuna speranza di fare in tempo conto di farcela.
    Sono molto indietro, ma dalla mia vanto una comprovata esperienza pluriennale fatta di recuperi miracolosi e storiche vittorie al fotofinish.
    Avere intorno loro due che mi chiudono in una stanza a scrivere, poi mi interrogano, controllano e mi insultano sono sicuro che risulterà la discriminante vincente.
    Capisci perché devo assolutamente lasciare per un po’ questa città così […]? *(Leggi in fondo!)

    Nonostante le otto ore e i centoundici cambi (come i quintali che pesava Tiziano Ferro) l’idea del viaggio mi crea meno ansia del solito. Trenitalia ha tolto tutte le promozioni, ritenendo forse che io potessi permettermi un Freccia diretto Roma-Trento a 100 euro. (Mavammoriammaz…)
    Lo sanno tutti che io sono uno scrittore stimato, ne consegue che ricco. Non è quello il problema.
    Ho optato per il classico intramontabile (in quanto non finisce mai) viaggio della speranza perché fin da bambino amo viaggiare in treno: il paesaggio che scorre sul finestrino, la puzza che scorre nel vagone, le formiche che scorrono nelle gambe indolenzite e le ore che non scorrono che è una bellezza.

    Tempus fugit, mi ha scritto oggi il Relatore. Giusto perché sono una persona molto camomillica.
    No, su di me l’ansia non attecchisce proprio.
    (Mal che vada faccio una rapina, e sparisco dalla circolazione su un volo per una località tropicale. Ho già preparato due prove di carta d’identità falsa.)

    Il motivo per cui il viaggio mi preoccupa poco poco, diciamo un cicinin, è che per la prima volta riuscirò a leggere il binario sui tabelloni luminosi che annunciano gli arrivi e le partenze in stazione. Non dovrò tirare a indovinare il numero come faccio sempre, perché io ora vedo!
    Potrò affrontare la stazione di Bologna con un’arma in più: gli occhialoni. (Come non mi raccapezzo nella stazione di Bologna, neanche dentro il labirinto giapponese di Gardaland.)**

    Dopo aver evitato all’ultimo, con una sterzata di reni e volante, un vecchio al quale, a esser giusti, non tocca molto altro tempo da vivere, mi sono reso conto che stavo diventando un pericolo per gli altri. O un eroe, a seconda dei punti di vista. Melinda Gordon aiuta i fantasmi a trovare la pace e a entrare nella luce (Clic), io aiuto i vecchi a raggiungere l’oltre(tomba), do loro la spintarella che serve al pauroso per lanciarsi dal trampolino: me li ficco sotto con la macchina.
    La vista negli ultimi due anni si è inspiegabilmente suicidata in un crepaccio costringendomi ad andare dall’oculista, personcina molto delicata:
    – Continui a non fare uso degli occhiali e fra cinque anni, se vorrà fare una passeggiata, dovrà farsi accompagnare da un cane guida per ciechi.

    Ho passato tre ore circa all’interno del mio negozio di ottica preferito. Non credo che si possa dire lo stesso di me, come cliente.
    Ho preteso di provare tutti i modelli presenti. E quando dico tutti intendo pure quelli da donna, da bimbo, da Malgioglio. Tutti, in virtù della possibilità che quel che cerchi possa annidarsi proprio dove non te lo aspetti.
    Il picco massimo di disperazione l’ho toccato allo scadere della seconda ora, quando ho chiesto alla commessa col grembiule bianco se per favore poteva farmi provare pure i suoi. Mi ha riso in faccia e io sono scoppiato a piangere urlando:
    – La prego! – e lei ha capito che non c’era da scherzare.
    Quando esausta mi ha allungato sospirando quelli che vedete in foto, io ho esclamato:
    – Eccoli! – e uno stupore silenziosissimo si è impadronito del negozio.
    Il dottore anziano dietro il bancone non si azzardava nemmeno a respirare, la commessa sbatteva le ciglia e si mordeva il labbro, ma non un filino di voce.

    Io mi scrutavo allo specchio da diverse angolazioni.
    – Li prendo! – e un’esplosione di tappi di champagne e coriandoli (ma dove li tenevano?) ha fatto da apripista alla mia uscita di scena, e i poveri lavoranti hanno finalmente potuto cibarsi per non morire di stenti.
    Sì, questa è la grande novità degli ultimi diciotto mesi: gli occhialoni. Vita all’insegna dell’avventura, eh?!

    Spero che tu non sia (s)venuta/o alla vista della mia foto dall’alto contenuto erotico. Anzi, se ce la fai e te la senti, mi dici gentilmente cosa ne pensi e/o quanto mi donano da 10 a 10? Grazie!
    Ti lascio le ultime tre interviste che ho fatto per SoloLibri.net e che per mia patologica pigrizia non avevo segnalato sul blog.

    Simona Sparaco autrice di “Nessuno sa di noi” (Giunti) finalista al Premio Strega e entrato proprio oggi nella cinquina dei finalisti della XIV edizione del Premio Roma per la sezione Narrativa Italiana. Clic
    Virginia de Winter, la misteriosa autrice della fortunatissima saga fantasy “Black Friars” (Fazi). L’intervista è partita come una sfida a chi riusciva a essere più demente, io con le domande e lei con le risposte. Credo che abbia vinto lei (non ho mai riso tanto). Questa è anche l’intervista dei record grazie all’orda meravigliosa di lettori adoranti che la venerano. Clic
    Paola Zannoner, 0ltre venti romanzi pubblicati per Mondadori, De Agostini, Fanucci e Giunti. E’ tornata in libreria a maggio con i primi due titoli di una nuova collana Giunti junior, “La banda delle ragazzine”. Ci parla della sua idea di letteratura per ragazzi, lettori veri che non li puoi tanto fregare, e di quanto sia importante oggi “soffermarsi, vedere e valorizzare le cose belle, il lato positivo, la gioia di sentimenti e relazioni che ci permettono di superare le difficoltà della vita”. Clic

    A presto, speriamo col sole!
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    *Puoi sostituire ai puntini un aggettivo a caso che renda l’idea di depressione mista a sconforto misto a solitudine mista a tentato suicidio.
    ** Silvia mi segnala un video musicale molto rappresentativo di cosa mi aspetterà domani alla stazione di Bologna. Clic

    Scrivi un commento →: La vista negli ultimi due anni si è inspiegabilmente suicidata in un crepaccio costringendomi ad andare dall’oculista, personcina molto delicata
  • Linda Rando è una blogger ventunenne condannata in primo grado a un risarcimento di 5000 euro per diffamazione ai danni della casa editrice 0111 (Zerounoundici), diretta da Stefania Lovati.
    Il reato si riferisce a una serie di commenti offensivi lasciati da alcuni utenti del Writer’s Dream, community letteraria ideata e gestita appunto da lei.
    In sostanza Linda Rando, in quanto amministratrice del forum, è stata ritenuta responsabile dei contenuti, inclusi quelli non da lei pubblicati, alla stregua di un direttore di giornale, senza che nessuno si fosse preoccupato di rintracciare i reali autori dei commenti infamanti. Da informatico non proprio all’ultimo grido, mi sento comunque di dire che non sarebbe stato complicato farlo.

    Linda Rando in questi anni si è distinta per le sue battaglie contro l’editoria a pagamento. Per quanto mi è dato sapere e ho potuto constatare, non l’ha fatto mai attraverso insulti o cattiva informazione, al contrario. Ha sempre cercato la strada della conoscenza, mettendo le persone davanti a fatti concreti.
    La prima volta che ho sentito parlare di lei, ormai qualche anno fa, mostrava trionfante gli esiti di un esperimento interessante. Aveva messo assieme un disorganico blocco di memorie, articoli di giornale, diari, spezzoni di pseudo-racconti, pensieri, scritti a casaccio insomma, gli aveva dato un titolo e l’aveva spedito in valutazione alla casa editrice Il Filo. In men che non si dica aveva ricevuto in risposta una proposta di pubblicazione, ovviamente a pagamento, piena di elogi  e lodi all’opera proposta, segno che nessuno si era preoccupato di valutarla perché la differenza la fanno i soldi.

    Mi è simpatica Linda, come mi sono simpatici i giovanissimi che per esperienze, entusiasmo, passione, impegno, stimoli, camminano a settemila piedi d’altezza rispetto alla media dei coetanei e non solo. A ventun’anni ha alle spalle e sulle spalle la più grande community letteraria italiana, il Writer’s Dream, dove porta avanti con impegno costante e coraggio fra scomode grane – chiamiamoli così quei piccoli contrattempi nei tribunali –  la buona e giusta informazione, tutta a favore di chi prova ad avvicinarsi alla pubblicazione.
    Writer’s Dream è una preziosissima goccia limpida in un gigantesco specchio d’acqua stagnante, popolato da “editori” (fra virgolette) con canini sporgenti che Edward Cullen, il vampiro liceale di Twilight, a confronto è Fiocco di Neve, la capretta di Heidi. Si muovono nel buio di contratti editoriali ingannevoli e si nutrono dei sogni e dei soldi degli aspiranti autori. Li convincono a pagarsi la pubblicazione sommergendoli di elogi e palle sulla difficile condizione dell’editoria e sulla necessità di investire loro stessi nella produzione dell’opera, perché “gli editori grandi non considerano gli esordienti, e i medi e piccoli sono a pagamento”. Tutto falso!
    Linda Rando ha trovato il modo per ribadirlo fortemente con le prove. Grazie al contributo di centinaia di autori pronti a raccontare le proprie esperienze, e di bravi editori desiderosi di far conoscere le loro buone intenzioni, ha potuto stilare una lista di quasi trecento editori non a pagamento, alla faccia di chi dice che per pubblicare bisogna per forza pagare, autori frustrati compresi. Per completezza di informazione, e sempre a vantaggio di chi cerca un editore, ha inserito quelli che invece chiedono un contributo agli autori, che sia sotto forma di denaro, poco o tanto, oppure di copie da acquistare, poche o tante, in altre liste ben definite secondo criteri oggettivi.
    Far parte della lista degli editori a pagamento non significa essere dei delinquenti. Questo Linda l’ha specificato innumerevoli volte, anche perché non c’è nessuna legge che vieti a un editore di chiedere all’autore una partecipazione economica per la pubblicazione. Né le liste vanno lette come un giudizio di merito o demerito sugli editori, stanno semplicemente a indicarne l’operato; quello pubblica gratis, quell’altro ti chiederà dei soldi.
    Gli aspiranti autori, quelli che si informano, ora sanno cosa aspettarsi e possono scegliere in completa libertà e soprattutto consapevolezza l’editore a cui rivolgersi.

    Non voglio entrare nel merito della faccenda giudiziaria fra Linda Rando e Stefania Lovati della casa editrice 0111 con la quale non ho mai avuto a che fare. Vi segnalo qualche contributo per saperne di più. L’articolo del Fatto Quotidiano e l’intervista a Linda su Valigia Blu: Clic e Clic, e un articolo sul Post scritto da Carlo Belgino, avvocato penalista che ha trattato la vicenda in modo molto preciso: Clic.
    Ci tenevo a parlarvi di Linda e del suo Writer’s Dream, augurandomi che sia per voi, autori in cerca di editore, utile come lo è sempre stato per me, e mi dispiace di doverlo fare in questa triste occasione.

    Incuriosito dalla vicenda, ho cercato informazioni sulla casa editrice 0111. Da scrittore, quello che m’interessa è intanto il contratto. Ho trovato un portale che vi segnalo perché riporta paro paro quello della 0111 concentrandosi sull’aspetto delle royalties, la percentuale che l’editore deve all’autore sulle vendite del libro pubblicato. Zerounoundici ha un’idea piuttosto originale su quanto e come pagare i diritti d’autore: Clic. Copio dal sito, che copia dal contratto della 0111:

    Sulle copie vendute l’Autore ha diritto a quanto segue (il totale vendite è da intendersi cumulativo e comprenderà sia la versione stampata, sia la versione e-book):
    – fino alla 100° copia: 3% sui rispettivi prezzi di copertina – libro, ebook
    – dalla 101° alla 200° copia: 5% sui rispettivi prezzi di copertina – libro, ebook
    – dalla 201° alla 500° copia: 7% sui rispettivi prezzi di copertina – libro, ebook
    – dalla 501° alla 1000° copia: 8% sui rispettivi prezzi di copertina – libro, ebook
    – oltre la 1000° copia: 10% sul prezzo di copertina sui rispettivi prezzi di copertina – libro, ebook
    Le provvigioni di cui sopra verranno riconosciute solo se le vendite totali raggiungeranno almeno le 250 copie (cumulative) nel periodo contrattuale. In caso contrario verranno riconosciute con i seguenti limiti:
    – sotto le 150 copie = 0 (si veda nota)
    – da 150 a 200 copie = 40% della cifra calcolata secondo la tabella di cui sopra (si veda nota)
    – da 201 a <250 = 70% della cifra calcolata secondo la tabella di cui sopra (si veda nota)
    (nota: quanto sopra verrà applicato a meno che l’Autore non dimostri che grazie al suo impegno promozionale – copie richieste in conto vendita; presentazioni; vendite derivanti dalle sue pagine web – sono state vendute un minimo di 125 copie. In tal caso, la percentuale verrà riconosciuta al 100%).

    Quindi la Zerounoundici, non chiedendo soldi agli autori, resta a tutti gli effetti una casa editrice free, però il meccanismo del pagamento dei diritti è piuttosto contorto. Io ad esempio avevo male interpretato; me l’ha dovuto spiegare Stefania Lovati con la quale ho avuto un interessante confronto che mi dà modo di rivedere queste righe del post.
    Se il libro raggiunge le 250 copie vendute, nessun problema: all’autore vengono riconosciuti i diritti d’autore pieni secondo le percentuali sopra specificate (3% fino alla centesima copia, il 5% dalla copia 101 alla copia numero 200… ecc.) Percentuali che, per esperienza, giudico ai limiti della miseria. Se il libro non raggiunge le 200 copie vendute, l’autore per vedersi riconoscere le provvigioni in toto deve vendere per fatti suoi fra presentazioni, copie richieste per sé e copie vendute attraverso il suo sito o quello dell’editore (a patto che riesca a dimostrare che sia stato effettivamente lui a farle acquistare) almeno 125 copie, che non sono pochissime. Come ho anche risposto a Stefania Lovati in uno dei commenti, non spetta all’autore vendere le copie e non si capisce perché sotto un certo numero di copie vendute l’autore non si debba vedere riconoscere i diritti per la propria opera.

    Comunque. In una buona copisteria stampare 125 copie ben fatte (spesso meglio di quanto facciano certi editori) costa intorno a 400 euro, anche meno. Rivendute a 10 euro l’una, senza editori di mezzo, portano un guadagno di 1250 euro. Tolti i 400 di spese di stampa vengono fuori 850 euro puliti che vanno in tasca all’autore.
    E allora, la domanda che si pone l’autore dell’articolo e che viene spontanea anche a me è: a questo punto, non è meglio autopubblicarsi che mettersi in mano a editori che non ti chiedono soldi (ma tante energie sì) e niente o quasi ti danno?
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    AVVISO AGLI AVVENTORI DI QUESTA PAGINA: Qualora vogliate esprimere la vostra sulla vicenda Rando-Lovati vi chiedo di farlo con educazione, almeno per evitarmi la denuncia per diffamazione, altrimenti sarò costretto a cancellare i commenti. Io 5000 euro non ce l’ho (ma neanche 2500, per dire).
    – Vi segnalo l’intervento di Stefania Lovati, l’editrice in questione, nei commenti.
    – Ho prelevato l’immagine del simpaticissimo lupo diffamato da MartelBlog (http://martelblog.myblog.it).

    Scrivi un commento →: Quando gli editori se la prendono coi blogger e li portano in tribunale

sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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