È morto Andrea De Carlo

Mi dico che non posso fargli questo, ma devo anche e soprattutto per chi ama la lettura e la letteratura, che può destinare diciotto euro e cinquanta all’acquisto di tre o quattro tascabili o di un classico o di una stecca di preservativi, ma non all’ultimo romanzo di Andrea De Carlo. Sì, l’ho sempre difeso. Sì, è l’autore dei miei sogni di adolescente scrittore, quello che mi ha fatto commuovere e sognare e poi ancora commuovere e sognare. Finché ha cominciato a tentennare e m’ha fatto piangere, altro che sognare, ma ci arriviamo fra un po’. Da ‘Giro di vento’ ho cominciato ad avvertire avvisaglie preoccupanti. Più che di roboante aria delle montagne mi dava la sensazione di un giro di pagina e un altro ancora e poi subito via alla prossima purché scorresse veloce e indolore e magari sparisse prima che a qualcuno venisse in mente di accostarlo a ‘Due di Due’ per esempio, nonostante a un certo punto mi pare che si fondano per tematiche, descrizioni. Alcuni lettori hanno provato a sostituire un capitolo di uno con uno a caso dell’altro e il risultato era perfettamente coerente. Ripetitivo e dimenticato alla nascita, per fortuna. ‘Mare delle verità’ porta con sé un’unica grande verità, evidenza per tutti meno che per l’autore che, altrimenti, suppongo avrebbe passato il dattiloscritto nel tritacarta invece che consegnarlo alla Bompiani. La verità di cui sopra è lampante e grida: “Lo stiamo perdendo! Defibrillare!” zzzTUM! “Ancora, forza!” zzzTUM! La sequenza di scosse elettriche torna a far battere il cuore restituendo alla sua penna un ispirato e insperato senso di esistenza che permette alla piantina di germogliare e dare il raro frutto, gustoso stavolta e pure colorato. Sugli scaffali delle librerie fa la sua comparsa il rosso tramonto di ‘Durante’ che m’incanta e mi rassicura: Andrea De Carlo è riuscito a lasciarsi alle spalle l’acqua sporca della sua imitazione. E allora ‘Leielui’ me lo vado a prendere con la forza. Mi ricordo il pomeriggio di ottobre quando ho sfoderato davanti al libraio indaffarato il sorriso del bianco dente, capace di ritinteggiare le pareti e pure far brillare la vetrina che neanche Fairy active caps per lavastoviglie, nella quale vetrina – sacrilegio! – mancava proprio ‘Leielui’.
“Ancora non mi arriva.”
“Ma è uscito, come non ti arriva?”
“Quando è uscito?”
“Oggi.”
“Eh, allora sarà in uno di quegli scatoloni che mi ha consegnato il distributore stamattina.”
“Sono le sei di sera e tu non hai ancora aperto gli scatoloni che ti hanno consegnato stamattina?”
“È stata una giornata impegnativa. Ripassa domani che lo trovi sicuro.”
“Ma io lo voglio adesso. Non posso tornare a casa col pensiero che il libro sia in uno scatolone chiuso davanti a me. Apriamoli tutti!”
Morale della favola uscivo eccitato e saltellante come una scolaretta col nuovo disco dei Backstreet Boys quando i Backstreet Boys riempivano i palazzetti e ballavano le coreografie, mica di Garrison però. In macchina non riesco a resistere e guidando leggo o leggendo guido. Il volante lo giro con lo spigolo del libro e guardo la strada solo quando serve; la vita per le prime pagine del nuovo libro di Andrea De Carlo posso anche rischiarla, no?!
E qui finisce il bello e comincia il duro scontro con la realtà, quella immodificabile delle parole: il nero su bianco che vale, attesta e prova. ‘Leielui’ non è una storia d’amore e neanche una storia di passione e nemmeno di emozioni. ‘Leielui’ non è una storia perché la storia è mancante, non pervenuta, deficiente (non rivolto a te che leggi, ma alla storia), assente, evaporata, mai esistita. Dov’è la trama? Dove sono gli incontri, i sentimenti, il conoscersi, l’amarsi, l’odiarsi, il ritrovarsi, tutto quello che Andrea De Carlo aveva promesso al lettore attraverso i fastidiosi video di dieci secondi con cui ha infestato You Tube come neanche Gemmadelsud aveva osato. Dove?
Non c’è nulla di quanto detto né di più, punto. Così è, ma questo lo si scopre verso pagina cinquecento. È un libro troppo e inutilmente lungo, non soltanto per il numero di pagine; con descrizioni di quotidianità inutile, di sensazioni inutili, di luoghi inutili, di scene inutili e pure ridicole, di dialoghi irreali e ovviamente inutili. Ha il sapore del brodo di pollo allungato con un litro e mezzo di Rocchetta naturale. Piezzo zeppo di inutilmente, drammaticamente, naturalmente, semplicemente, serenamente, dolcemente, dannatamente, pavoneggiosamente (eddai!) che a un certo punto mi è venuto il cannibalesco istinto di inghiottire i miei stessi occhi pur di non poter leggere più. Per non parlare dei refusi, gettati come semi qua e là e se questo è il risultato della terza rilettura, come De Carlo (un tempo avrei detto Andrea, adesso dico De Carlo) scrive nell’avvincente racconto della genesi di ‘Leielui’ che fa sul blog del suo sito ufficiale, mi astengo dall’immaginare cosa potesse nascondere la prima stesura. Una selva di mostri pronti ad azzannare la lingua italiana, digerirla e ricagarla sottoforma di nere palline di merda di coniglio che si disperdono nell’ambiente, e nessuno si lamenta perché sta diventando normale non saperla parlare. Quando ho letto: la chitarrina che le aveva regalato l’hanno scorso mi sono accasciato a terra KO e avoja a contare fino a dieci, cento, un milione. Neanche un flebile istinto alla vita, niente e non è (tutta) colpa sua. Quel tutta vuole dire che io lo so bene che De Carlo sa che anno solare, inteso come somma di dodici mesi, periodo di tempo composto da trecentosessantacinque giorni, giorno più giorno meno, febbraio bisestile più, febbraio bisestile meno, non vuole l’acca. Come probabilmente sa che un altro non vuole l’apostrofo e che sarebbe carino che non manchino lettere dentro le parole o intere parole nelle frasi e via dicendo. Lo sa, ma può scappare. A lui, ma al correttore di bozze no. Questi signori sono (mal) pagati (ma nessuno li obbliga a fare quel mestiere che come tutti i mestieri andrebbe fatto bene) per scovare la merda ed eliminarla. Se non lo fanno vanno fucilati perché rovinano il libro e non vale il discorso: “Eh, ma ce l’ha infilato De Carlo l’errore”. No, perché a De Carlo può scappare a te no, perché tu sei pagato per non fartelo scappare. Se è vera la diceria che Andrea De Carlo non permette a nessuno di toccare i suoi libri, che per mano del correttore di bozze non ci passano, allora mi rimangio tutto e gli dico: Bravo stronzo!
Io non voglio dire che ‘Leielui’ (che fatica scriverlo attaccato, ogni volta mi tocca tornare indietro e cancellare gli spazi) è brutto perché accudisce e nutre i refusi. ‘Leielui’ è brutto perché è brutto. Fortuna che De Carlo partecipa alla campagna Scrittori per le foreste, e che per la stampa dei suoi libri non è stato fatto fuori neanche un alberello, se no sarebbe stata una strage doppiamente inutile. È sempre inutile tagliare gli alberi per produrne carta visto che si può ugualmente, lasciando gli alberi lì dove stanno, ma stavolta avrebbe come aggravante la cattiva qualità, una morte per nulla insomma. Il finale non lo voglio proprio commentare, anzi sì. Lui che insegue lei, come fa per tutto il romanzo, fino a Vancouver dove lei era fuggita dopo aver scoperto che lui è un donnaiolo e averlo scoperto proprio dopo aver trovato il coraggio di lasciare Stefano, il ragazzo mummia di quelli che spesso compaiono nella letteratura decarliana (plin plon: neologismo), che vuole sposarla e condividere la vita con lei, ma lei vuole lui che non vuole lei che scappa a Vancouver, capì?! Lui la insegue e senza sapere quale aereo prenderà, dove andrà a vivere, a che ora arriverà, il nome di qualcuno, la via di qualcosa, un cazzo di tutto, lui la ritrova a Vancouver sopra un aliscafo e nella notte si butta in mare urlando il suo nome. Lei lo sente, ferma i motori e si amano per sempre.
Andrea, ti giuro ho amato quattordici dei diciassette libri che hai scritto e ti ho difeso contro chi festeggiava la tua fine, ma stavolta no. Stavolta no.
Non escludo che tornerò a leggerti, non escludo neanche che domani esco, compro un Turista per sempre, gratto e vinco tutta quella roba per vent’anni. Ciao Andrea, ti ricorderemo così, fra gli sguardi avventurosi di Guido Laremi, la complicità con Mario, e un ‘Due di due’ lontano anni luce, che non ci credo più che l’hai scritto tu.

Se Supermarket24 diventasse un film chi potrebbe interpretare Luca Sognatore? – Intervista di Carlotta Pistone.

L’intervista è stata pubblicata sul portale MRS. La trovate, oltre che quaggiù, anche LAGGIù.

Cosa significa per te essere scrittore?
Non lo so. A me piace definirmi scrivente, solo uno che scrive, non uno scrittore. Essere scrivente è aver dentro l’urgenza di raccontare, anche senza ricevere niente in cambio. È come una macchina che sa fare solo una cosa: scrivere.

Cos’è per te un romanzo?
Un viaggio low cost. Puoi andare in qualsiasi parte del mondo, vivere avventure straordinarie senza aver bisogno di una settimana di ferie e di un mese di stipendio fra voli e alberghi.

Quando hai sentito di esser stato morso per la prima volta dal talento per la scrittura?
Ho la sensazione di aver sempre tentato di arrivare più in là di quanto meritasse il mio “talento”. Dalla maggiore età scrivo con costanza. Mi prendo un po’ più sul serio adesso.

Che percorso hai seguito per arrivare dove sei oggi?
Ho vinto tre o quattro concorsi letterari con racconti brevi fino alla pubblicazione di Non farmi male, facilitata dal fatto che avessi un blog molto visitato. Poi il vuoto dovuto alla chiusura della casa editrice che doveva pubblicare Supermarket24, il terremoto e il buio che ne è seguito, finché non è arrivata Sara Saorin con la sua Camelopardus edizioni di Este. E luce fu!

Fisso o precario (come stato mentale, non solo come dato di fatto)?
Precario (spero) a termine, perché la mia isola felice, quella in cui resterei a tempo indeterminato, è ancora lontana.

3 aggettivi per definire L’Italia e gli italiani
Creduloni, chiacchieroni, rustici gli italiani. Ricca, generosa e abusata l’Italia.

Cosa manca secondo te al nostro paese per essere migliore?
Nella situazione attuale direi che è più difficile peggiorare. Per migliorare basterebbe un governante che non abbia seconde, terze, quarte entrate di denaro, per esempio.

Cosa significa avere un figlio nel 2010?
Anche qua l’esperienza non mi permette di risponderti come vorrei perché io un figlio non ce l’ho. Direi che nel 2010 un figlio non è solo il dono di una Provvidenza generosa, come poteva essere quando di figli se ne facevano pure tredici e si campavano tutti con la fatica e col sorriso, ma il frutto di una decisione che purtroppo dev’essere presa con giudizio e una lunga lista di calcoli che cominciano dallo stipendio e dal lavoro e finiscono alla stabilità della famiglia, all’amore e ai sentimenti che non, si capisce bene perché, si dimostrano sempre meno resistenti al tempo.

Libro e autore della tua vita?
Dico Novecento di Baricco, Due di due di Andrea De Carlo, Anna Karenina di Tolstoj e Delitto e castigo di Dostoevskij. Alla fine ne ho detti quattro, ma ce ne sono eh! Tipo Sulla strada di Kerouac o Achille piè veloce di Benni… fermatemi!

Il tuo rapporto con la politica?
Una forte e insanabile delusione.

Il tuo rapporto con la religione?
Credo in Dio, anche se mi pongo tante domande. La mia religione sta nel comportamento.

Tg, quotidiano o informazione su internet?
Internet batte TG televisivo e pure i quotidiani. L’informazione è uno di quei diritti che ci stanno togliendo. Pensate alle tante manifestazioni che noi aquilani stiamo portando avanti animati dalla disperazione, stato che in pochi conoscono. Eppure i TG ci raccontano la vita coniugale di Briatore o quello che alla Canalis non piace di Clooney, ma il desiderio di un popolo intero di riprendersi la normalità che non per colpa sua ha perso, quello no. Esemplare la puntata di Matrix in cui la Nannini, colpevole di aver affrontato l’argomento scomodo del silenzio dei media calato su L’Aquila, è stata zittita in modo brusco dal conduttore Vinci. È informazione questa?

Legalizzazione delle droghe leggere o no?
No. Non che serva a qualcosa vietarle, ma la legalizzazione significherebbe una benedizione dall’alto. Che lo Stato pensi ai diritti che ci vediamo tutti i giorni negati prima che a concedere quello di drogarsi liberamente.

Preferisci lavorare con uomini o donne?
Ho lavorato quasi solo con donne e mi sono trovato sempre bene.

Un difetto delle donne di oggi?
Le donne non hanno difetti e io, come gli asini, volo. No, è che è difficile e antipatico generalizzare, soprattutto se si parla di difetti.

Un progetto per il futuro?
In un futuro lontanissimo, di sicuro, spero di avere la possibilità di produrre opere di giovani o meno la cui voce talentuosa è condannata a restare inascoltata.

Un sogno?
Lo tengo per me, ma chi mi ama lo sa.

Una città in cui vivere e lavorare?
Firenze.

Un consiglio a chi vuole seguire le tue orme?
Chiediti all’infinito se lo meriti. Continua a camminare solo se ogni volta ti rispondi di sì e non pubblicare mai a pagamento, sarebbe la dimostrazione del tuo fallimento.

Chi senti di dover maggiormente ringraziare per la persona e lo scrittore che sei diventato?
Chi ha fatto del bene alla mia esistenza. I miei amici principalmente e poi la testardaggine di cui Dio mi ha dotato e la buona sorte che mi auguro continuerà a sorridermi.

Matteo in 3 pregi e in 3 difetti?
Tra i pregi metterei la tendenza a sdrammatizzare tutto, la sensibilità al mondo e il saper voler bene. I difetti sono così tanti che faccio fatica a sceglierne tre. Ci provo. Sono lunatico, caratteristica dominante del mio segno: il Cancro, non mi accontento mai e mangio troppe caramelle gommose, anche se sto provando a uscirne.

E ora parliamo un pò del tuo divertentissimo romanzo, “Supermarket24″…
Comincerei con una domanda facile facile: come e quando ti è venuto in mente di scrivere una storia così originale?

Ho cominciato a buttar giù i primi capitoli quattro anni fa. Supermarket24 al momento della genesi nella mia testa non doveva essere quello che poi è diventato. Avevo l’intenzione di scrivere un libretto estivo, da spiaggia, di poche pagine di aneddoti, battute, incontri, che facesse ridere e basta. Era di quello che sentivo il bisogno, però poi i personaggi hanno preso vie imprevedibili e io li ho lasciati fare.

Premettendo che ho trovato il tuo libro dissacrante e geniale, perché hai scelto come ambientazione un supermercato? Hai per caso avuto esperienze lavorative simili a quella del tuo protagonista che ti hanno ispirato?
Sì, in un supermercato e proprio al reparto frutta. Ci ho lavorato per sette mesi e ho raccolto una tale quantità di esperienze che non potevo non riversarle in una storia. Da questo a dire che è autobiografico ce ne passa. Io non invento quasi mai. Mi servo della realtà e la modello a mio piacimento, al punto che diventa irriconoscibile e pare invenzione.

Come mai hai deciso di mostrare la realtà in cui Luca vive e lavora rivelando al lettore ogni suo più impietoso pensiero – che non risparmia proprio nessuno – anziché limitarti alla più tradizionale descrizione di fatti e dialoghi?
Perché la storia la racconta lui, non una voce estranea agli eventi, quindi tutto è filtrato dai suoi occhi. Mi sono divertito a far pensare Luca ad alta voce. Il cinismo estremo che anima i suoi pensieri, i suoi facili giudizi sulla vita degli altri, lo rendono antipatico al lettore e questa si è rivelata la piega del libro. Luca non teme di dire né di giudicare, lo fa senza alcun paletto. Ho voluto portare agli occhi del lettore un personaggio totalmente trasparente, quello che nessuno nella vita riesce ad essere mai. Molti si stupiscono dei pensieri di Luca nonostante ne custodiscano di simili e a volte di ben più scandalosi, però stanno zitti. I pensieri sono silenziosi, tranne quelli di Luca Sognatore.

Scrivere un libro simile, per te, non ha forse rappresentato anche un piccolo sfogo verso quella nutrita categoria di persone insopportabili che immancabilmente migrano ogni giorno nei supermarket? (Immagino che comunque la stesura debba essere stata molto divertente..!)
Mi sono divertito molto e mi sono ritrovato spesso a ridere da solo di quello che scrivevo. Ripensavo alle scene che avevo vissuto io, che mi avevano fatto arrabbiare a morte e che, raccontate con gli occhi di Luca, acquisivano una valenza tragicomica. Certe volte è davvero difficile restare calmi di fronte alle pretese assurde di una che vuole il supermercato ai suoi piedi semplicemente perché: “Sono cliente e vengo a fare la spesa tutti i giorni”. Da quando ho cominciato a lavorare al supermercato ho capito quanto può essere dura la vita di un commesso, stanco nel fisico e logorato dal rapporto costretto con un pubblico impietoso.

All’interno della spassosa carrellata di personaggi che popolano il tuo romanzo, ce n’è uno che preferisci e uno che invece detesti particolarmente?
Lory, la macellaia, è la mia preferita, perché è una madre vera. Ha tutto della madre. Ha occhi dolci, è di poche parole, come se il magone che tiene in gola gliele togliesse. Ama suo figlio e pur di riprenderselo da un marito che l’ha tradita e lasciata, è pronta anche a uccidere, se necessario. Ho sempre tifato per lei e per l’amore, mentre lo scrivevo. Detesto Sonia, la compagna di reparto di Luca. Una ricciola grassoccia col naso schiacciato che ormai dalla vita non può più avere niente per sé e allora gode degli insuccessi altrui, li favorisce e se ne ciba. Provoca mai paga, e Luca Sognatore la odia almeno quanto me.

Se decidessero di girare un film tratto dal tuo libro, che attore italiano o straniero ti piacerebbe vedere nei panni di Luca Sognatore? Perché?
Mi viene in mente Elio Germano che ha la faccia giusta. Ma anche Luca Argentero o Nicolas Vaporidis. Giovani e con gli occhi vispi. La regia la farei fare a Gabriele Muccino che è unico, a patto che non faccia recitare il fratello.

Grazie a Carlotta Pistone.

Una sacra solitudine

Quando i rumori non se ne stanno più buoni sullo sfondo e diventano un barbarico frastuono che ostacola i pensieri. Quando il suono dei tuoi passi viene assorbito dallo strombazzare dei clacson delle automobili e dalle urla di donne isteriche che riprendono figli schizzati. Quando gli altri esprimono il giudizio che hanno maturato di te e dei tuoi comportamenti, neanche fossero ospiti d’onore di un talk show di tronisti e corteggiatrici, senza aver mai capito come la pensi. Gli altri, quelli che dicono di conoscerti per quel paio di mesi di giorni nello stesso posto, qualche volta a parlare. Come se non fosse permesso cambiare opinione. Come se scavare non sia sintomo di volontà di capire e non possa magari capitare di scoprire che si è sbagliato a dire e pensare quello che si è pensato e detto. Come se io dovessi giustificare ogni spostamento, ogni risata, ogni serata, ogni bicchiere, ogni idea. Come se ogni azione debba per forza risultare la conseguenza logica di un’intenzione. Tu conosci l’intenzione e conosci l’azione, ma ignori del tutto il segmento di chiarimenti, spiegazioni che hanno determinato la trasformazione dell’intenzione nell’azione diametralmente più imprevedibile. Nella tua ignoranza, inteso come non conoscenza dei fatti, scrivi di me senza fare il mio nome e poi mi saluti, abbracci e baci col sorriso. Non che se lo fossi davvero, incoerente, debba risponderne a qualcuno. Non voglio difendere la mia coerenza, che non ho mai perseguito, solamente delineare l’aria che respirando mi suggerisce di fermare tutto.
Quando le voci che inviteresti a trasferirsi nel tuo padiglione auricolare le senti di meno. Quando le serate che vorresti vivere sono troppo lontano da dove stai tu. Quando ti guardi allo specchio e nel tuo volto leggi l’invulnerabilità, e allora ridi da solo che non è la più bella delle risate. Quando fuori piove e dentro grandina. Quando hai da mangiare, bere, vestire, un lavoro, un obiettivo grande e uno immenso, eppure ti manca il resto. Quando il filo d’acciaio su cui cammini vibra e tu con le mani ricerchi un volo che ti tenga lassù ogni istante un istante in più. Quando Giuda abbracciava e baciava in modo più convincente di chi lo fa con te. Quando il tempo è sempre più perso e sempre meno. Il tempo non è mai tanto quanto sembrerebbe e io lo sto sprecando pure adesso, che scrivo un post mosso dallo sconcerto di certi piccoli cervelli in azione.
Quando è autunno e vorresti l’inverno e poi l’inverno non ti basta, la primavera non arriva e l’estate la scongiuri, il tutto per una risposta. Quando la compagnia non è degna di te, o tu di essa – esiste questa eventualità, è quasi sempre un problema di linguaggio e a te ancora nessuno offre il dono di comunicare con gli animali – allora è il momento di ricercare una sacra solitudine.

La vostra non-vita

In quel luogo le conversazioni sono tutt’altro che creative. Generano qualcosa sì, ma che è ripetizione di se stessa. Nessuno è interessato a sapere come ti chiami, quanti anni hai, cosa fai nella vita: se studi, lavori, rubi o ti prostituisci, quanto grande è il peso dei tuoi sogni, come sei fatto: se sei alto, magro, muscoloso, obeso, se hai gli occhi azzurri o neri, se ti manca un braccio oppure sei campione nazionale di lancio del disco. Te lo chiedono, ma non è di te che si interessano. Conoscerti è solo un modo per arrivare alla pace dei senssi scalpitanti. Alterno silenzi a sproloqui per emergere dal mucchio ed essere giudicato un fuoriditesta e quando mi va, dopo che sia passato qualche tempo, torno a criticare chi fa lo stesso, in un momento dei tanti in cui la mia luna è spenta. Meravigliosa luna che nel buio non si arrende, che da sola lo vince bagnando il mare nero della paura. Su quel tappeto d’argento vorrei camminare, da solo, nella speranza che non mi porti da nessuna parte. Che sia un infinito moltiplicarsi di chilometri dalla terraferma. Guardo in alto accecato dalla luce fedele a illuminarmi i piedi sull’acqua come Cristo, peccatore come nessuno io.
Non mi preoccupa il giudizio quando è arte di pecore che si seguono fino al dirupo, che una dopo l’altra sperimentano saltando. Quando cala la giusta notte, su tutto tranne che sulla luna, eviterei pure una risata sconveniente, nonostante il bel suono e la luminosità degli occhi ridenti. Non mi cambio ora che vesto abiti d’acciaio. Mi capisco quasi sempre e non mi piaccio quando cammino con nonchalance su un corpo martoriato dalle parole. Questo non mi impedisce di evitare il massacro né mi porta pentimento, sta tutto qua il perché. Guardo la luna e mi sento bene con lei. Ancora una volta ho scelto per me che voglio al mio fianco chi mi assomiglia, chi non mi sfida, non mette il dito nella piaga. Voglio al mio fianco solo coloro che non perdo mai, che mi salvano pure da lontano, che sorridono e mi stimolano a crescere. Voglio al mio fianco chi crede in me, non nella mia disfatta, chi ce la mette tutta per vedermi sul punto più alto del mondo, non chi scava sotto i miei piedi e mi fa franare nel fondo.
State lontani voi che mi provocate per ferire, per destare fastidio e sentirvi vincitori di almeno un premio: una caramella gommosa che rilascia in bocca l’amaro dell’ennesima sconfitta, in una non-vita che conducete e che continua a vincere contro.