• Simone Gambacorta, critico letterario, parla di Non farmi male:

    Un esordio in narrativa con sette racconti.

    Prova d’esordio di Matteo Grimaldi, “Non farmi male” esibisce sin dal titolo alcuni caratteri dei sette racconti che racchiude, per esempio la vulnerabilità, il pericolo e l’avanzare ineluttabile del dolore. Grimaldi sembra essere attratto dal nocciolo amaro delle cose che fanno la vita, che fanno e disfanno una vita, che fanno l’affanno della vita, per azzardare un gioco di parole su pagine dove le parole cercano un suono che sa di rumore, di attrito, di sfregamento crudo e crudele. “Cemento”, “Grigioscuro”, “Non farmi male” e “Domani addio” sono le testimonianze più apprezzabili di un esercizio della scrittura volto soprattutto ad osservare il farsi delle ferite, a dar corpo alle ustioni, a cogliere l’emergere di una lacerazione. Il racconto è l’incudine dove provare a martellare le parole della sofferenza, ma prima ancora è il laboratorio dove Grimaldi verifica la proprie capacità, dove collauda se stesso documentando un apprendistato che (almeno per ora) non ha ambizioni diverse da quella di crescere, di svilupparsi, di affinarsi (quanto a sicurezza e disinvoltura) nell’uso della lingua e nel governo della narrazione. Una prova d’esordio, come si diceva, primo giro di una giostra che tutto è meno che allegra, e dove quel che importa non è tanto il libro in sé, quanto le premesse e le sollecitazioni da cui muove: perché questa volontà di mettere le mani negli angoli scuri e questo desiderio di penetrare la nebbia suscitano curiosità, non foss’altro per la sensibilità e l’attenzione alle sfumature di cui Grimaldi dà contezza. Una morte per overdose, lo stupro di una ragazza, la violenza di un patrigno su un bambino, la fuga di un padre dalla famiglia sono alcune fra le vie che Grimaldi ha scelto di percorrere con questi racconti. All’uscita del prossimo libro scopriremo quale sorte abbiano incontrato le potenzialità che “Non farmi male” ci ha mostrato.

    (Matteo Grimaldi, “Non farmi male”, Kimerik, pp. 113, Euro 10)
    Simone Gambacorta
    La trovate anche su Abruzzo Cultura, QUA.

    M.

    Visto che le persone mi scrivono (ieri l’ultima!) e mi dicono che hanno difficoltà ad ordinare il mio libro, perché i librai alla loro domanda “posso ordinarlo?” rispondono cose vaghe sulla distribuzione che impedirebbero loro di farselo arrivare in quei postacci che gestiscono. E visto che mi sono abbastanza rotto perché poi succede anche a me quando ordino certi libri di editori che non siano Mondadori, Bompiani, Mursia e compagnia bella, e mi c’incazzo perché è un discorso assurdo e inesatto e quel libro lo voglio, anche se loro, dai toni che usano, sembra che ne sappiano più di me e di chiunque vada a cercare un libro, diciamo qualche cosa che chiarisca una volta per tutte la questione. Intanto il mio libro si può ordinare e arriva anche molto in fretta. È dotato di codice isbn e codice a barre quindi si può ordinare anche all’estero, pensate un po! La storia della distribuzione, della casa editrice piccola e tutte ‘ste robe qua sono vere, nel senso che trovarlo esposto ovunque non è pensabile, però ordinarlo sì. Quindi insistete, perché ho ragione io e avete ragione voi a pretenderlo. Comunque, se non avete voglia (e vi capisco) di combattere inutili e lunghe guerre contro certi librai che al posto dei libri sembra si occupino di salami, formaggi e mozzarelle, cliccate sull’immagine di copertina in alto del blog e ordinatelo direttamente dal sito dell’editore. Non serve necessariamente la carta di credito e vi arriva a casa in quattro o cinque giorni lavorativi. E fatemi il piacere di segnalarmi la specifica libreria che v’ha risposto picche, ché poi ci penso io! Sì che è una minaccia! Grazie.
    Scrivi un commento →: Attenti, librai d’Italia, ché io vi ammazzo!
  • Lettera inviata nel 1854 al Presidente degli Stati Uniti d’America, Franklin Pierce, da Seath, capo indiano della tribù dei Duwanish:

    Come si possono comprare o vendere il cielo e il colore della terra?
    L’idea sembra strana.
    Noi non siamo padroni della freschezza dell’aria e dello zampillare dell’acqua.
    Come si può chiedere di comprarla da noi?
    Per la mia gente qualsiasi componente di questa terra è sacro.
    Qualsiasi ago splendente di pino, qualsiasi sponsa sabbiosa, qualsiasi nebbia nell’oscurità, qualsiasi insetto ronzante è santo nella memoria ed esperienza del mio popolo.
    Continuate a contaminare il vostro letto e una notte sarete soffocati dai vostri stessi rifiuti.
    Quando i bisonti saranno stati tutti sterminati, i cavalli selvaggi tutti domati, quando gli angoli segreti delle foreste saranno invasi dall’odore degli uomini e la vista delle colline sarà oscurata dai fili che parlano, allora l’uomo si chiederà: dove sono gli alberi ed i cespugli?
    Scomparsi!
    Dov’è l’aquila?
    Scomparsa!
    E cosa significa dire addio al rondone e alla caccia, se non la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza?

    Non so se poi quelle terre l’abbiano vendute o semplicemente gli americani se ne siano impossessati senza troppi scrupoli, come sono soliti fare. Quello di cui sono certo è che la cività non si misura in anni di evoluzione e tecnologia e potere economico. Esistono popoli di gran lunga più civili degli americani che ad esempio puniscono un delitto con un delitto. O degli italiani che fingono di non vedere e non sentire l’afrore di centinaia di quintali di spazzatura che soffoca un’intera città. Seath ci vedeva lungo. E ora, a noi, non resta che sopravvivere.

    M.

    Va be’ che
    a Carnevale ogni scherzo vale, ma addirittura votare… Io spero che alla fine dentro tutte le urne d’Italia vi siano solo le schede compilate dai politici candidati, che a votare per loro stessi ci vanno sicuro, e la mia, con barrata la casella corrispondente al trisnipote di Seth (creata artificiosamente da me con la preziosa matitina in dotazione). 

    Scrivi un commento →: Solo perché dobbiamo sopravvivere.
  • W. H. Auden

    Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
    fate tacere il cane con un osso succulento,
    chiudete i pianoforte, e tra un rullio smorzato
    portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

    Incrocino aeroplani lamentosi lassù
    e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
    allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
    i vigili si mettano guanti di tela nera.

    Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
    la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
    il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
    pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto.

    Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;
    imballate la luna, smontate pure il sole;
    svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
    perché ormai più nulla può giovare.

    L’immensità di un sentimento capace di superare di gran lunga quello che, per altri, è l’assoluto; insomma, cosa c’è di più totale dell’Universo? E invece tutto si riduce a scenografia se si parla del loro amore, che è il vero spettacolo della serata. Fate caso ai termini. Non dice cancellate le stelle, dice spegnetele, come se fossero solo luci di scena che ora non servono più. Imballate la luna, come quando si fa un trasloco. Smontate il sole, svuotatemi l’oceano, e sradicate il bosco. È ora di portare via i pezzi dal palco; perché è giunto il tempo degli applausi finali, e non è per scelta dell’uno o dell’altro, ma di un destino che ha deciso di distruggere e lasciare un solo superstite a vivere il resto della vita nel dolore. Nel vuoto che lascia il ricordo. La rileggo spesso per godere della sensazione che mi dà. Di qualcuno che ha capito l’Amore, e ha saputo raccontarlo solo dopo averlo perso.

     

    M.

    Scrivi un commento →: Funeral Blues
  • Tornano le recensioni del Matto, consigli utili per una lettura quantomeno dignitosa. È periodo di sottotitoli questo. Scusate se ne faccio un uso smodato; ora non potete capire, ma credetemi sulla parola, stanno diventando un’ossessione, e presto o tardi scoprirete il perché. Una felice ossessione direi. Comunque, tornando a noi, ho letto un po’ di libri ultimamente, ma per via del poco tempo a disposizione e delle troppe cose da fare, che poi sono evidentemente due motivazioni collegate, non li ho recensiti. Finché Everyman non mi è entrato nel cuore. L’ha scelto lui. Sapete quando dovete dire assolutamente cosa ne pensate di quello che vi scorre sulla pelle? Quando siete coinvolti a tal punto che, se non lo fate, esplodete? Leggetelo perché Philip Roth è un mostro di bravura, e non serviva certo un Matto qualunque di periferia a dirlo. 
    QUESTA la mia recensione su Abruzzo Cultura che ringrazio, perché mi fa dire sempre quello che penso.

    M.

    Rileggo L’amico ritrovato perché sono certo di trovare tra le sue pagine quello che cerco. Presto una grande notizia. Ma grande grande grande (come te sei grande solamente tuuu!). (Mina, ma quest’uomo cos’è, un pallone aerostatico?!) Un po’ di pazienza. Ma ne vale la pena.
    Scrivi un commento →: Everyman, il libro nero di Philip Roth.
  • L’aria da centro commerciale è, a quanto ho avuto modo di constatare, molto pericolosa. Io, Lu e Nicco decidiamo di andare al Gran Sasso a Teramo (non la montagna dai!). È nuovo, ha il triplo dei locali dell’Aquilone, la Conad è il doppio di quella di qua, e c’è ben un negozio che mi piace: Cotton & Silk, ma, visto che non percepisco soldi e mi pare di aver appena fatto al gradevole luogo già troppa pubblicità, andiamo avanti. In autostrada, seppur ancora lontanissimi dal CC (che da questo momento non è più l’abbreviazione di Conto Corrente, ma di Centro Commerciale), si verifica il primo fenomeno di alterazione neuronale, che colpisce Niccolò. Luca, con la sua guida sportiva, si appresta a superare una macchina targata FR. Niccolò, ispirato dalla sigla della targa, impreca simpaticamente: “Frocio!” rivolto al guidatore della macchina. Accostandoci per ultimare il sorpasso notiamo che all’interno dell’abitacolo vi sono due suore.
    Nicco sussulta: “Oddio!”.
    “Lo sai che hai appena peccato?” (Il Matto versione papa Matto XVI)
    “Perché?”
    “Beh, hai dato del frocio a due suore.”
    “Ma a chi, a quelle due mignotte?”
    “…”
    Mentre papa Matto chiede a Diopadre di perdonare il fanciullo perché non sa quello che dice Niccolò si volta verso il finestrino e amorevolmente: “Ciao ciao, sorelle!” e fa ciao-ciao con la manina e un sorriso a mille denti.
    Arriviamo al CC; parcheggi immensi, tutti colorati, e affollati. Gira che ti rigira, stremati, notiamo la luce della retromarcia accendersi in un’automobilina che si appresta a liberare un posto. Luca inchioda e si mette in attesa poco dietro. La macchina alterna piccole retromarce a ritorni in prima, avanza e torna indietro, e non esce mai, chiaramente pilotata da una donna (e scusate, ma ci siete sempre voi in mezzo quando si parla di impediti alla guida). Finalmente ce la fa, ma ecco che proprio mentre Luca sta per infilare la machine (automobile, per chi ignora l’Inglese che io, com’è evidente dall’uso che ne faccio, domino.) nel posto che pazientemente abbiamo atteso, arriva quella che da noi si chiama La Fregna di Pianola (lo so che il termine fregna non è proprio dei più delicati, ma tranquillizzatevi, oh voi benpensanti, perché a L’Aquila non indica quella ben specificata parte del corpo femminile dove non batte mai il sole (a meno che non sia qualche bella (o brutte) donzella ad esporla ai tiepidi raggi della nostra stella), ma la classica tipa che arriva, si crede di essere furba e fregare tutti, saltare le file, i semafori, le precedenze. Non so perché si dica proprio di Piànola che è un quartiere in periferia (non Pianòla, mi raccomando), si vede che là di esemplari del genere ne è stata rilevata un’abbondante quantità.) e rombante ci frega il posto. È qua che scatta il secondo episodio di alterazione neuronale da CC, che stavolta coinvolge me, Luca, e la sgradita e sgradevole signora.
    “Scusi eh, ma siamo fermi qua da un quarto d’ora!”
    La signora scende dalla macchina, soddisfatta per il parcheggio che ci ha appena sottratto, e con tono tronfio: “Avevo capito che stavate aspettando che uscisse un’altra macchina!”.
    “No stavamo aspettando che si liberasse il posto che poi ha preso lei.”
    “No voi stavate aspettando un altro posto!” [?]
    La signora, dopo aver emesso la sentenza, prende una corsa inaspettata verso le porte scorrevoli dell’entrata, evidentemente timorosa che in tre potessimo prima farle del male e poi costringerla a portare via la macchina e il suo vecchio culo dal nostro posto, ma non può finire così. La strega cattiva è riuscita a scappare, ma qualche parolina dietro le va detta e allora il matto: “Lo sapremo noi che macchina stavamo aspettando cazzo, no?”.
    Il terzo e ultimo fenomeno si manifesta ieri mattina all’Aquilone. Il matto aspetta un suo amico fuori dai bagni. Esce uno sui trentacinque che comincia a fissarlo. Cammina e lo fissa. Cammina e lo fissa, lo supera e a voce borbottante, ma non abbastanza soffusa per fregare il matto-radar (che comunque è un po’ sordo, diciamolo!): “Ma che cazzo vuole questo?”. (Io?) Il matto, naturalmente alterato neuronalmente (?) libera un roboante: “Ma che cazzo vuoi tu!”.
     
    M.
    Scrivi un commento →: Strani casi da CC
  • Io la domenica proprio non respiro. Questa poi lasciamo perdere.
    Comunque ieri ho scoperto che nel WWW qualcuno si è interessato al mio libro e l’ha recensito per il sito letterario Literary. Si chiama Deborah Benigni (che sia parente del celebre Roberto?), la ringrazio per le parole spese. Affronto sempre un po’ terrorizzato la lettura di una recensione che riguarda le mie cose, fortuna che stavolta la signorina è stata piuttosto generosa.
    La sezione Matto’s Bazar cresce, cresce, cresce, cresce, cresce (sì, insomma, cresce). Tra poco diventerò onnipotente e avrò ai miei piedi il mondo. OK, nel frattempo beccatevi questa: Non farmi male (è verde quindi cliccateci sopra; o ve lo devo dire ogni volta?).
     
    M.
     
    Non ho tanto capito quel raffinatamente paratattico, ma… CI PIACE!
    Scrivi un commento →: Non farmi male è raffinatamente paratattico. Problemi?
  • Ieri ho accompagnato mia madre dal medico; rigorosamente senza appuntamento, rigorosamente infinita attesa fino alle venti. Il mio medico è peggio del Papa, se decidi di prendere appuntamento telefonicamente, la parecchio grezza segretaria bionda te lo dà ventisette giorni dopo, altrimenti devi andare e aspettare che l’ultimo abbia finito.
    “Allora vengo verso le sette e mezza così il dottore s’è liberato.”
    “Eh no, signora. Deve venire massimo alle sei e aspettare fino alla fine.”
    “Ma lei è masochista?”
    Arriviamo alle sei e mezza. Mi salta addosso un afrore niente male, ottenuto dal mixaggio degli oltre venti aliti pesanti presenti in sala d’attesa, sceccherati (volenti o nolenti è questa la forma registrata nel Grande Dizionario Italiano dell’Uso) con quelli fino ad allora transitati in quella stanza. Dopo aver imparato a memoria tutti gli avvisi appesi alle pareti cerco una rivista da leggere. Come se fosse facile. Alla fine opto per GQ, semplicemente perché non avendola mai sfogliata prima, a paragone con le varie novelle2000, 3000, 10000 & Co. ho sperato che nell’ignoto si celasse qualcosa di interessante. Quando ormai mi stavo rassegnando al girare pagina passivamente bramando la fine (che rivista inutile! Oltre trecento pagine di cui due su tre sono pubblicità. Ditemi chi spende soldi per ‘ste robe!) ecco che all’ultima, sì proprio all’ultima leggo a caratteri cubitali: Scusa se ti chiamo libro.
    È come Alessandro Robecchi vede Federico Moccia. E visto che coincide perfettamente con tutto ciò che penso io di Moccia e dei suoi libri, spisciandomi dalle risate, ho deciso di strappare con mossa furtiva la pagina (se ne sono accorti tutti) e rendervi partecipi del suo splendido articolo. Eccolo.
    “Non c’è dubbio che i romanzi di Federico Moccia tirino su il morale alla gente. Uno si rompe una gamba sciando, oppure tampona in autostrada, e maledice la sorte. Poi si consola e dice: poteva andarmi peggio, potevo nascere afghano, o potevo leggere un libro di Moccia. Un altro fatto positivo è che i romanzi di Federico Moccia aiutano l’autostima: quando uno si sente stupido, ma proprio molto scemo, un perfetto cretino, basta confrontarsi con un personaggio dei libri di Moccia e subito si sente un genio. Un po’ come quando senti parlare George Bush: credevi di essere il più stupido della Terra e invece no, qualcuno ti batte, sospiro di sollievo.
    Come tutti avrete notato la critica si tiene lontana dai libri di Federico Moccia e non si prende la briga di stroncarli. E del resto c’è da supporre che nemmeno i lettori li prendano troppo sul serio: se gli italiani pensassero che dai libri di Moccia esce un ritratto credibile degli italiani, avremmo probabilmente un’ondata di suicidi di massa. Eppure l’editoria scommette molto su questi prodotti, che appena usciti sul mercato filano primi in classifica e ci restano per mesi, il che dipende dal fatto che in Italia si legge poco, e quando si legge, si legge Moccia, e questo è triste.
    Come nelle ricette di cucina, il segreto del successo è semplice: i dialoghi sembrano quelli dei reclusi del Grande Fratello, la scrittura è appena un po’ più semplice degli sms che vi scambiate con la fidanzata, e le dinamiche affettive e sentimentali fanno sembrare i fotoromanzi degli anni Settanta grandi romanzi ottocenteschi. So qual è a questo punto l’obiezione classica: uh! Che snob! Non è meglio che uno che non ha mai preso in mano un libro cominci a leggere, fosse anche un libro di Moccia? La risposta è no. C’è sempre il rischio che uno poi pensi che i libri sono tutti così, e questo terrebbe chiunque lontano dalla letteratura per sempre.
    Naturalmente vanno fatte alcune considerazioni di mercato. Dai libri di Moccia nascono film, linee di gioielli, braccialetti, orologi, collanine. Presto avremo suonerie con i dialoghi dei libri di Moccia, preservativi con le firme dei protagonisti e, chissà, utilitarie che si chiamano 3msc, ovviamente superaccessoriate, 16 valvole e coi sedili reclinabili, un omaggio al romanticismo delle opere citate. Per coerenza dovrebbero farle senza freni.
    Anche se può sembrare paradossale, gli unici che si rallegrano del successo dei romanzi di Federico Moccia sono gli scrittori. Ingenuamente pensano che i soldi fatti dall’editore con le vendite di Moccia servano a pagare anche loro, ma si sbagliano: serviranno soltanto a pagare i prossimi libri di Moccia, per i quali temo si taglino anche degli alberi. Alcuni editori poi se ne vergognano. Incassano buone cifre, è vero, ma quando gli ricordi che erano gli editori di Pasternak e ora sono gli editori di Moccia, gli scappa un gemito e cambiano discorso.
    C’è chi dice che i libri di Moccia raccontano i giovani, ed è vero: raccontano i giovani come piace raccontarli a uno di mezza età che non essendo più giovane vuol far passare i giovani per totali deficienti. Esattamente come accade agli autori dei reality show, gente di mezza età che carica su di sé questo fardello: raccontare i giovani e intanto odiarli profondamente e farne la caricatura. A quanto pare funziona, il che getta una luce inquietante su questo paese.”
    Mi complimento con Alessandro Robecchi che ha finalmente pubblicato il resoconto reale di un fenomeno avvilente, che pare per ora irrefrenabile.
    Per dare degna conclusione a questo post moccioso, vi incollo la geniale imitazione di Fiorello per W Radio 2.
    È esilarante.

     
    Ce ne sono altre. Cercatele su You Tube; non è che posso fare sempre tutto io eh!
     
    M.

    L’altra notte è morto Sabani Gigi, ieri notte Pavarotti. Secondo me stanotte andranno a riposare in pace Mike Bongiorno e la Carrà.
    Scrivi un commento →: Scusa se ti chiamo libro.
  • Le mie mani hanno sputato fuori almeno quattro o cinque inizi in sei minuti per il nuovo post, ma ogni volta mi rendevo conto che ricalcava troppo il mio stato d’animo, e che adesso il mio stato d’animo non è proprio di compagnia. Quando qualcosa non va, e quel qualcosa è più o meno tutto e solo quello che andava, diventa tosta davvero. Lì per lì ho pensato di ricercare la forza nel raggiungimento di un mio obbiettivo, ufficialmente importante. Ci tenevo, stavolta sul serio; solo che poi succede che, non per colpa mia, toppo anche là. È un periodo nero come il catrame, un continuo buco nell’acqua. Mi sento esausto. Divoro energie che mi alimentano per tutto quel tempo condiviso con chi mi sta vicino, solo che poi il conto si paga. Se finisci le scorte non importa se hai fame, sete, o se vuoi morire. Stai male; e lo stomaco ti tormenta con fitte lancinanti che non puoi placare, perché non c’è più nulla da mangiare né bere.
    Ecco, vedete? Anche questo non è che sia proprio un solare inizio, anzi alla fine mi sa che ho scelto in assoluto il più ammorbante. Lo so che vi siete abituati al Matto allegro, quello che prende per il culo Anna Tatangelo, Gigi D’Alessio, Silvia Salemi, e la vita in generale. Quello che si fa sempre una risata su tutto. Quello che vive e racconta i suoi deliri comici con gioia, perché sa che faranno passare tre minuti di divertimento agli amici della Stanza. Quello che ha sempre voglia di trovare nelle cose il lato positivo, perché è convinto che ne esista sempre uno, insito in tutto. Quello che concluderà questo post con un pensiero luminoso. Quello che si sta facendo parecchio pena con tutti questi quello che, alla Quelli che il calcio, che non è proprio il migliore dei complimenti.  
    Non so bene a quale prospettiva aggrapparmi. Ho delle percezioni, ma temo che siano addirittura più stupide di me. So a chi però, e li ringrazio per tutto il tempo che mi stanno dedicando. Una persona a me molto cara poco fa m’ha detto che io sono più fortunato di lui, perché ho numericamente più strumenti per trovare il mio orizzonte. C’ho creduto nonostante di quell’orizzonte per ora non ne scorga traccia alcuna. Solo buio e silenzio. Quant’è brutto questo silenzio! Continuo ad aspettare senza modificarlo, nel rispetto delle esigenze altrui. Intanto mi tengo stretto a qualcosa, qualunque cosa anche se instabile, sennò affogo. Mi conviene emulare quella furbacchiona della titanica Rose, che osserva Jack affondare negli abissi, con occhio languido e un quarto di lacrima che fatica a uscire, incastrata in quelle ciglia finte e pure rimmellate (anche per affrontare una tragedia bisogna sfoggiare un look a puntino), ancorata come un grasso polipo ad una tavola galleggiante. Tavola a cui il biondo protagonista del film più visto di tutti tempi avrebbe rinunciato, per farci salire la suddetta mollusca. E mentre Jack va giù, appesantito dal ghiaccio nei capelli, dalla mia poltroncina vellutata sala uno (una ce ne sta) del mitico Cinema Massimo, mi sovvenne un interrogativo a cui mai in tutti questi anni sono riuscito a dare risposta: “Ma possibile che un transatlantico del genere, realizzato da tonnellate di legno (che lusso!) affondi, e non sia avanzato un tavolino, un pezzo di parquet, di credenza, di comò, di pianoforte, una sedia spagliata, una mensola, la testiera di un letto, la paglia di una sedia prima impagliata, un copricesso in radica, qualcosa di galleggiante insomma, sui cui salire e proteggersi dal gelo, e magari salvarsi, invece di inscenare quello spettacolo pietoso di lei che sopravvive perché lui, chiamando a raccolta le ultime gocce di linfa vitale, ormai esanime, la issa (voce del verbo issare) sulla tavola?”. Se qualcuno ha interpretato il tutto diversamente mi venga in soccorso, rischiarerà così un dubbio cosmico. (Mi sento molto Asia Argento quando parlo di faccende cosmiche, confusione cosmica, lei è tutta un po’ cosmica.)
    OK. Ah, quasi dimenticavo.
    È uscita una mia nuova recensione. Ho scritto di Cell, l’ultimo libro di Stephen King. Visto l’umore fatico un po’ ad essere buono, anche quando scrivo. Cliccate su!

    CELL

     
    M.
     
    Diluvia. È bello che piova adesso. (Fin qua sono serio.) Il cielo è scuro. Accendo la luce. (Ehm…)
    Non significa niente, lo so, ma avevo promesso di concludere con un pensiero luminoso. (So anche che non fa ridere, ma capitemi!)
    Scrivi un commento →: Rose Calvert, ridammi quella tavola!
  • C’è un posto in cui mi sento meno solo. E quel posto non è casa mia, che stasera per un paio di giorni si svuoterà, e che avrei voluto riempita della voce che continuo a sentire. Provo a concentrare i miei pensieri su altro, su ciò che sarebbe giusto per me e per il mio futuro, ma lo faccio senza una spiegazione, senza riuscire a dare una sola risposta ai miei perché.
    Una questione irrisolta non ha pietà. Spostarla nel cestino come un file che non sai più a cosa serva, e poi rimuoverla definitivamente, non basta. Perché quel file è legato al buon funzionamento di almeno sei o sette programmi di cui non puoi fare a meno. E allora tornerà nel tempo a chiamarti. Causerà problemi continui ed errori di sistema. Riporterà nella tua testa sempre le stesse domande. Ed è per questo che fissare per due ore un libro di Storia non mi aiuta. Scapperò da qui anche oggi pomeriggio. Non posso stare troppo tempo da solo, perché la sofferenza è maggiore della mia forza, nonostante qualcuno si sorprenda di come io riesca a reagire. Ma io non sto reagendo, sto solo fingendo. È questo il punto. Semplicemente perché non mi piace farmi compatire, non mi piace piangermi addosso, e addosso agli altri. E allora rido. Mi viene benissimo, anche se non ci riesco proprio sempre sempre, ma non potete chiedermi l’impossibile.
    Abbiamo combattuto come guerrieri fiduciosi, forse per la prima volta. Curato ogni dettaglio perché fosse tutto splendido. Perfezionato il nostro cigno di vetro sorridendo ad ogni microscopica mossa riuscita, felici quando l’abbiamo ammirato volare. E noi con lui.
    Non voglio sentire storie, perché quel volo era sincero, libero e intiepidito dal sole. E lo è stato fino a ciò che non riesco a comprendere: un crack di un istante. Un cambiamento repentino, all’improvviso, senz’avvertire. Uno squarcio nel parabrezza, che si allarga come la tela di un instancabile ragno. E non so se la mia impossibilità sia dovuta ad una oggettiva mancanza di dettagli. Insomma un uomo primitivo non conosceva la forma della Terra figuriamoci se avrebbe potuto calcolarne il diametro, o anche solo immaginarne il significato. Oppure se la cosa sia davvero incomprensibile di per sé. Ma neanche questo mi consolerebbe.
    Io sono qua, e aspetto. Senza mai aver smesso di crederci.
     
    M.
     
    “Vorrei essere cielo per darti vento, vento a scuoterti e ad accarezzarti, scosse e carezze che già tu doni al vento stesso.”
    Tratto da Lupo Solitario, splendida pubblicazione della giovane casa editrice milanese Edizionidilatta.
    Scrivi un commento →: Vorrei essere cielo per darti vento.
  • Ho passato il pomeriggio a ripulire il Desktop. Le icone continuavano a moltiplicarsi per mitosi e quando il pensiero di un colpo di stato in piena notte, che avesse permesso loro di venir fuori dallo schermo, invadere la mia Stanza, prenderne possesso, e dichiarare il governo provvisorio con sua maestà Icona Explorer a capo, s’è dimostrato più che solo un’ipotesi fantascientifica, ho deciso di fare piazza pulita; e devo dire che c’ho preso parecchio gusto. Sono sopravvissute: Cestino, Risorse del computer, Documenti, Word (obviously), Collegamento ad Alice, i due odiosi omini verde e blu di MSN, Antivir Classic, Outlook che non ho mai usato in vita mia, e il file Blog (che fantasia) dove scrivo i post. Prima di svuotare il cestino degli oltre quaranta file inutili appena rimossi, ho cliccato sull’icona Mostra Desktop, giù sulla barra, e una terribile ondata di vuoto mi ha travolto e affogato. Mi sono sentito così solo a guardare il mare dello sfondo, senza più le mie amiche icone che ci nuotavano dentro!
    Poi in sequenza svuota cestino, sì; e andatevene tutte affanculo a nuotare da un’altra parte, stronzette.
    Ma passiamo all’argomento clou. Signori ve la ricordate quella famosa intervista a RTM? OK, proprio famosa no, però quattro risate ve le siete fatte leggendo il post (che i nuovi e i vecchi che se lo son perso trovano QUA). Ebbene, grazie ad Alex che è andato personalmente a rompere i maroni direttamente alla sede della radio, a Frosinone, siamo riusciti a recuperare il trash confronto Matto – speakers durato ben sei minuti e ventitré secondi nei quali si prova a parlare di Non farmi male.
    Già l’ho commentata abbondantemente nel post sopralincato quindi vi risparmierei altre deliranti riflessioni, e vi lascerei direttamente al filmato che con non poche difficoltà sono riuscito, grazie e soprattutto all’aiuto di Giuseppe (tutto merito suo), a inzeppare nel YouTube-world.
    Prima però soltanto una segnalazione. Ascoltate con attenzione il passaggio dal minuto quattro e trenta secondi, quando la signorina mi chiede se sono d’accordo che la lingua scritta e parlata è una musica. (Non potevo nel blog riformulare la sua domanda in Italiano corretto, avrei tradito la ben nota serietà giornalistica della Stanza, sempre fedele alla verità.) Comunque qualche secondo dopo la mia brillante risposta, che quasi costringe la signorina in questione ad abbandonarsi ad un gridolino sto-per-venire: “Che meraviglia Matteo!”, ecco che un suono (non proprio) vocale irrompe per pochi istanti nella diretta. Poi non venite a dirmi che mia madre non è la regina del tempismo. Gingle!

     
    M.
     
    Stasera ho visto Alien 4 – La clonazione, con mia sorella in taverna. L’ho trovato un’impolpettata di puttanate senza spiegazione. I primi tre sono di tutt’altro livello. Winona, ho capito che t’hanno ben pagata, ma l’androidessa…     
    Scrivi un commento →: L’intervista a RTM, da Frosinone… è quiiiiiiiiiii!

sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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