Questo continuo dover morire, da me non voluto

Sono stato tentato dal vento di lacrime che, si sapeva, in questi giorni avrebbe attraversato l’aria dell’Aquila e di tutta l’Italia sensibile al ricordo, e con una coscienza. Però, pur con la volontà di partecipare, in un certo qual modo da definire, non in quello che è stato, il mio corpo si è rifiutato.
– Di passeggiare sotto una pioggia leggera con una fiaccola fra le mani, raggiungere piazza Duomo e aspettare le 3.32 della notte, quando 309 rintocchi di campana, lenti, pesanti, macigni, avrebbero ricordato le persone che 3 anni esatti fa hanno perso la vita.
– Di guardare i programmi televisivi che dell’Aquila si sono occupati, in massa in un unico giorno, per poi dimenticarla i 364 giorni precedenti e successivi, fino al prossimo 6 aprile. Mi fa comunque piacere sapere che in qualcuno si è visto un buon lavoro di reportage. Mi dicono di Robinson su Rai3, per citarne uno. Io ringrazio sulla fiducia.
– Di riascoltare la canzone Domani. Il pensiero che di fronte a un’urgenza così importante tutta quella gente della nostra musica si sia ritrovata in un comune accordo, e registrato la canzone, in 2 giorni soltanto, mi fa salire il magone, che è pur’esso un ringraziamento.
– Di partecipare a messe, commemorazioni, celebrazioni, processioni del venerdì santo, del Cristo Morto. Come se a morire fosse stato un unico, povero Cristo.
– Di scrivere una sola parola su questa ricorrenza. Sul blog, su Facebook.
Avrei voluto, credetemi, trovare il modo di esserci, ma, come vi dicevo, è stato il mio corpo a rifiutarsi. Perché non fa parte del mio modo d’essere continuare a versare lacrime sulle lacrime altrui. Io ne ho abbastanza della morte, delle immagini, dei video, delle testimonianze e delle canzoni, degli speciali della nostra tivvù, per dire e ribadire che a L’Aquila sta andando tutto storto. Io vorrei vedere mattoni nuovi, nuvole di polvere nell’aria, cartelli di lavori in corso ovunque. Vorrei sentire dappertutto il frastuono delle ruspe, le grida dei capi-cantiere. Vorrei festeggiare il giorno della prima casa ricostruita, l’inaugurazione di una nuova scuola. E invece mi ritrovo sempre partecipante di un funerale nel quale mi sveglio, senza essermi preparato a dovere, vestito e aver respirato abbastanza prima di andare a sopportare. Credetemi, non è salutare subire continuamente ondate depressive da ogni direzione. Tento ogni giorno di rimettere a posto i pensieri, costruire un aeroplano che mi aiuti a oltrepassare la catena montuosa contro cui mi scontro, ferendomi talvolta in modo grave. L’equilibrio non è un dato di fatto, ma una variabile che è difficile mantenere solida. Poi se ogni 2 per 3 bisogna parlare di, sentire la testimonianza di, vedere il cortometraggio di, ritrovarsi un microfono sui denti, essere chiamato in causa solo e soltanto per L’Aquila, per commemorare, piangere, essere compatito. Allora no, per una serie di perché.
– Non ho intenzione di arrivare a 35 anni depresso cronico, e suicidarmi.
– Non ho intenzione di arrendermi a una vita fondata sul ricordo.
– Non ho intenzione di animare le conversazioni di chi, dal 6 aprile 2009, ha un ghiottissimo argomento di discussione in più.
– Non ho intenzione di accomodarmi sull’idea che L’Aquila è finita.
– Non ho intenzione di diventare protagonista o non-protagonista di una fiction più longeva di Beautiful, considerato che prima di rivedere un pezzetto di centro storico si parla di 20 anni, e quindi almeno 50 di gentile pazienza. Molti sono gli attori chiamati dal produttore, io non voglio essere una di quelle facce, sempre le stesse.
Io gradirei una vita normale, in una città della quale non si parla mai. Non riesco a spiegarmi cos’è che accende l’entusiasmo di chi, aquilano, gode dei riflettori. Forse pensa che quest’attenzione massiccia accelererà il processo di ricostruzione. Possibile che non gli sia servita da lezione l’esperienza del G8? Tutto il mondo a guardare L’Aquila, che prima del terremoto non infilavano neanche nelle previsioni del tempo; tutti i potenti ad accaparrarsi la ricostruzione di questo castello e di quell’altra basilica e pure di quel complesso studentesco per 5 milioni di euro, 10, 20 e 50. Qualcuno mi sa dire quante e quali di quelle promesse, trasmesse in mondo visione, sono state poi rispettate? I riflettori riempiono i palinsesti, le coscienze di chi indossa elmetti gialli su abiti di sartoria per percorrere pochi metri, raggiungere la Casa dello Studente, e indicare le fotografie dei ragazzi sepolti da un’intera ala crollata, convincendosi di fare del bene. Utilizzando il proprio potere televisivo in questo modo, magari avrà accesso diretto al Paradiso. Ma i riflettori servono anche a complicare, più di quanto già sia, quel lunghissimo percorso verso la serenità di chi queste strade le percorre tutti i giorni senza elmetti, di chi deve tentare, pur contro la propria volontà, di trovare un senso agli anni che verranno, in questo continuo dover rivivere, continuo dover morire. I riflettori non servono a ricostruire, o a velocizzare processi in cancrena. Semmai i riflettori daranno vita a una città ologramma, illuminata da bellissime luci colorate, che sapranno ricreare persino l’acqua che sgorga dalle fontane, e che, puntualmente, verrà inghiottita dal buio non appena sarà giunto il momento di premere l’interruttore e tornare a Roma e a Milano.