Una nottata difficile

Sapevo che avrebbe fatto un’altra bottarella (cari maniaci all’ascolto, si sta parlando di terremoto qui). Ho imparato ad aspettarmele osservandone l’andamento su Ingv. Non che ci voglia chissà quale scienziato, né sto dicendo che sono capace di prevederle. Fatemelo chiarire prima di ritrovarmi sommerso da denunce per procurato allarme. Però è certo che osservando un fenomeno in un lungo arco di tempo un’idea te la fai. Il terremoto è come una gran palloncino. Si gonfia attraverso microscosse fastidiosissime, ma appena percettibili, di intensità 2 o giù di lì, e poi esplode con quella più forte. Così è stato anche ieri notte.
La scossa di 3.6 di mezzanotte e qualcosa ha gettato di nuovo la città nel panico. È la notte la fregatura perché accentua la sensazione d’impotenza. Nella notte chiudi gli occhi e perdi il contatto con la realtà, e questo il sei aprile è stato fatale per trecento persone. Come fai allora, dopo la sequenza di ieri, ad andare a dormire? Io al momento della scossa ero ancora in casa; mia madre è uscita dalla casetta di legno urlando il mio nome. Le ho detto che andava tutto bene. Ho spento il portatile, mi sono lavato i denti in fretta, col portoncino aperto. Ho preso il cellulare, le chiavi e un libro e sono sceso per raggiungere i miei in casetta. Mia madre ha avuto un crollo. Non ce la fa più. Lei soffre di crisi di panico da anni. È sempre stata male all’idea di trovarsi stretta in un luogo senza una via d’uscita immediata. Non prende l’ascensore e prende il treno solo se assolutamente necessario (praticamente mai), l’aereo non esiste lontanamente. Il terremoto è la sfida più ardua che le potesse capitare perché non c’è luogo in cui non sentirsi incapaci di contrastarlo. Ieri voleva andare a dormire in macchina. Neanche la casetta di legno, per quanto sicura, la fa stare tranquilla. Lei vorrebbe semplicemente non sentirlo. Non ha paura che le crolli addosso qualcosa. Ha l’ansia che le trasmette lo scontrarsi con una forza di fronte alla quale l’uomo è più piccolo di una formica. Lei vivrebbe sospesa sulle nuvole, camminerebbe tutta la notte all’aria aperta per non dover sopportare quel magone in gola, perché ci sono le pareti che, per quanto leggere, la soffocano. Le ho detto che avrei dormito anch’io in macchina e allora si è lasciata convincere ad andare in tenda che dà meno l’idea di casa, pericolo, cemento, mancanza d’aria, eccetera. Ha passato la notte alla tendopoli con mio padre. Io, prima di rientrare in casetta, ho camminato qualche minuto in giardino cercando di isolarmi dalle parole della gente tutta intorno, che si affrettava ad attrezzarsi per l’ennesima notte da disperati.
Ho respirato e ho pensato che bisogna essere forti ora. Che, se mia madre non ce la fa, forse posso farcela io a razionalizzare, e posso farlo anche per lei, che quando le parlo si calma. Mi sono messo a letto e ho spento la luce. C’era una specie di penombra nella piccola stanza, per via dei lampioni fuori. Quando mi sono addormentato era passata buona parte della notte. L’altra metà mi ha visto chiudere e riaprire gli occhi, perché la casetta cigola ad ogni ridicola scossa.
Stamattina è tornata dall’ospedale contenta. Era riuscita da sola ad orientarsi e a fare la sua visita, in quella giungla di tende e medici e infermieri/e che non ti ascoltano e che ti dicono ogni volta che hai sbagliato, che non era là che dovevi andare, magari dopo che hai fatto una fila di quaranta minuti sotto il sole.
Vive così mia madre, aggrappandosi alle giornate, nella speranza che passino in fretta e che arrivi al più presto il mattino in cui tutto questo sarà finito.