La fiaccolata degli aquilani

Uso per l’ennesima volta il blog a scopi personali – per cos’altro dovrei usarlo visto che è il mio? – mi sa che lo devo scrivere da qualche parte e in bella vista. Certe cose sembrano così ovvie e invece…
Mando un saluto ai quattro elicotteri che da ieri sera alle sette e mezza volteggiano ininterrottamente nel cielo sopra casa mia (ma il carburante non gli finisce mai? I potenti mezzi americani… Sì perché Obama, pure se ancora non arriva, comunque c’entra, lo sanno tutti) e mi salutano con il loro musicale vorticare di eliche che ha fatto felicissima compagnia alla mia notte solitaria in casetta. Non quella di Amici di Maria De Filippi che, rinfrescata della foglia di palma agitata dallo schiavo Garrison, che con l’altra mano intanto si copre i gingilli di famiglia, starà pensando alle proclamazioni per la prossima stagione imperiale di Uomini e Donne, ma quella di legno che ha fatto costruire mia madre, che non ha intenzione di rientrare a dormire in casa per i prossimi trent’anni.
Uh, eccoli che ripassano. Quando trascorri ore ed ore assieme a qualcuno, quando con costui ci condividi tutto, persino la notte, non può che stabilirsi fra voi un rapporto privilegiato. Non può che essere un’amicizia senza precedenti quella che lega me agli elicotteri. Salutate i miei amici, fate tutti ciao ciao con la manina, su! Pure Iker li saluta abbaiando di infinita gioia coi denti che colano bava. Se solo potesse, li sgretolerebbe fra le fauci, come lo squalo del film fa con la barca dei giovani avventurieri, tra cui il figlio dello sceriffo dell’isola di Amity che, alla fine, lo sopprimerà mi pare facendogli prendere la scossa o facendolo esplodere, non ricordo. Nel frattempo il mio cane si dedica all’inseguimento delle vespe che, strafregandosene del G8, sono tornate, fedeli come ogni anno, in villeggiatura nella mia siepe e che, l’anno scorso, gli hanno fatto ricordare l’estate pungendolo sul muso e facendogli venire un labbrone grosso come un cocomero.
Io sono due giorni che non esco di casa. Non che non possa farlo, è che mi rompe oltremodo sottostare a questo regime militarizzato. Che poi non è che fuori ci sia molto da fare, diciamocelo. L’unico posto dove si può andare a passare un po’ di tempo resta il CC L’Aquilone. Per il resto le attività commerciali provano ad organizzarsi sparpagliando container e casette di legno per le zone libere della città. Per scoprire dov’è andato a finire quel locale piuttosto che quell’altro, sempre se è andato a finire da qualche parte, bisogna affidarsi al passaparola o ai cartelli di carta attaccati con lo scotch ai pali della luce.
Ieri notte, a tre mesi esatti dalla calamità, c’è stata una fiaccolata partita dal Castello a mezzanotte e conclusasi alle 3.32 esatte, ora in cui sono state commemorate le trecento vittime del sisma. Hanno partecipato oltre quattromila persone partite da tutta Italia con autobus organizzati. Sembrerò impopolare, forse anche giustamente, però nutro un lieve fastidio al pensiero che della gente parta da chissà dove per venire in gita a camminare i luoghi distrutti, ora che le immagini delle macerie e delle chiese in pezzi continuano a fare il giro del mondo, e a commemorare, con una luce fra le mani, persone che neanche conoscevano. La stessa gente che fino a tre mesi fa di L’Aquila ne ignorava l’esistenza. Della sua storia, delle novantanove piazze, fontane e chiese che le avevano fatto guadagnare il nome di città del 99. Quella di ieri sera doveva restare la fiaccolata degli aquilani. Di chi quelle strade le ha camminate per anni. Di chi assieme alle proprie case e a quelle dei suoi amici ha visto crollare i luoghi che hanno segnato i momenti del suo passato, che ora fanno da sfondo alle foto più belle, negli album. Agli amori, alle litigate e alle feste a scuola. Alle passeggiate in centro con la pizza di Trippitelli coi chicchi di sale grossi, mentre in classe la professoressa di Latino interrogava a manetta. Per quanto sia apprezzabile il gesto di volerci essere, cosa c’entravano tutti gli altri?