Quanti caffè occorrono perché quella splendida barista (i miei amici non sono d’accordo (dio Niccolò che faccia schifata che avevi!), ma i gusti sono gusti) mi doni non dico il suo numero di cellulare, ma almeno un minimo di considerazione? Mi accontenterei di un ciao più carino del solito, un ciao diverso, un ciao con l’occhietto (sbril)luccicoso (l’utilizzo di questo termine fa parte di una decisione aziendale ponderata con attenzione, volta ad estendere il mio bacino di lettori anche alle grezze fan di Moccia che, dopo questa parentesi esplicativa, naturalmente, smetteranno di leggermi) e un accenno di sorriso, per la serie: E’ bello che sei venuto a prenderti il tuo trentasettesimo caffè del giorno solo perché io mi accorga di te. Insomma, più carino di quello che riserva ai bavosi che affollano il bar la mattina, poco prima di andare a fregare la gente nei loro rispettivi posti di lavoro; e la guardano, e la immaginano senza camicetta, e ridono mentre la fissano, e si confidano le loro fantasie perverse sottovoce, con le mogli a casa che si dilettano a realizzare l’ennesimo copricesso a uncinetto, per poi confrontarli tutti ed eleggere il più carino che vincerà la fascia di Copricesso a uncinetto 2008. Non mi sembra di chiedere tanto.
Qualche segnale comincio a intravederlo, però. Quando mi vede entrare mi fa: “Caffè?” e vi pare poco? Dev’essere un genio una che dopo trentasei caffè nell’arco di tre orette riesce a prevedere la mia trentasettesima richiesta. Peccato che i precedenti non erano proprio caffè semplici e allora mi tocca sempre aggiungere: “Macchiato grazie!”. (Niente, proprio non si ricorda di me!)
Devo architettare qualcosa per restarle impresso. Vi assicuro che non è facile perché, quando alza gli occhi e in quei pochi istanti incrocia i miei, tutto vorrei tranne che essere lì; mi verrebbe quasi da tuffarmi nel nero caffè bollente e sparire sul fondo della tazzina. Non lo faccio intanto perché nel nero caffè bollente buttatevici voi! Al massimo io mi tuffo in una piscina (possibilmente diversa da Verde Aqua (lo so che manca la c, andate a spiegarlo a chi l’ha chiamata così. Diciamo che L’Aquila è una città alternativa che considera l’Italiano un dettaglio poco importante se paragonato ad esempio a quanto formaggio riesci a produrre quest’anno nonostante metà del tuo gregge di pecore sia stata sterminata da un branco di faine mannare) che una volta (bei tempi quando mi auto illudevo di nuotare e fare attività fisica!), mentre turbinavo in uno stile (molto) libero, ma travolgente, sono andato a sbattere col cadavere galleggiante di un gigantesco ragno peloso che oscillava sul pelo dell’acqua, e un’altra ancora con un cerotto insanguinato che nuotava a farfalla nella mia stessa corsia) oppure nell’azzurro mare (non) pieno di pesciolini e limpido (per via dei depuratori) di Alba Adriatica. Questa era l’argomentazione del primo motivo per il quale non mi tufferò nel nero caffè bollente quando lo sguardo della bar woman punterà di nuovo il mio. Il secondo è ancor più ovvio. Pensate che nascondendomi nella tazzina passerei inosservato? Vorrei evitare la figura di merda che faceva il mio gatto ogni volta che lo cercavo. Metteva la testa sotto il cuscino ignaro del fatto che tutto il suo culo nero fosse all’aria, con tanto di grossa coda pelosa in bella vista. Un’immagine comica e ridicola, e non credo questo sia il modo migliore di presentarmi.
Riuscirò a trovare l’idea giusta per chiederle qualcosa a caso, cercando di non ripetere la triste scena di qualche giorno fa. “Mi dai anche un bicchiere d’acqua?” “Sì, prego!” “Grazie!” Finisco il caffè e me ne vado senza berne un goccio. Me ne sono reso conto quando ormai ero quasi arrivato alla macchina. Volevo tornare indietro a bere, ma dubito che la cosa sarebbe risultata credibile, così sono sparito. Per caso s’è capito che il bicchiere d’acqua era solo una scusa per rivolgerle la parola?
Oggi ci torno. Magari le offro un caffè, o magari no.
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