Sull’autostrada, in un istante qualunque del 90esimo chilometro di 170, dall’oscurità del cruscotto affiora una lampada di Aladino rossa che mi fissa. Quando si accende la spia dell’olio è la fine degli eventi. L’ho imparato da mio padre prima ancora che ad andare in bicicletta: tutto quello che puoi fare è fermarti sul posto e metterti a piangere. Parcheggio nella prima piazzola d’emergenza; spengo la macchina; mi domando pacatamente per quale ceppa di motivo non l’ho fatta controllare qualche giorno prima di partire; asciugo un paio di mila lacrime con un fazzolettino di carta coi lamponi disegnati che puzzano di lampone, l’ultimo ritrovato di Madre; chiamo il numero verde di Autostrade per l’Italia. Un ragazzo che parla come chisifermaèperduto, mi illustra i vantaggi di possedere un telepass ricaricabile al giorno d’oggi. Per esempio posso attivare l’opzione Telepass Premium con Sky. Prima di lasciarmi proferire parola, ci tiene a ribadire che Autostrade per l’Italia è sempre dalla parte di chi guida. Io gli spiego che ho un problema e quale. Mi fa notare che quello è il numero verde per avere informazioni commerciali e che, a quel punto, mi conviene prenotare subito il mio telepass ricaricabile, se non voglio perdermi la promozione di una tratta autostradale a mio piacimento gratuita. Gli suggerisco di non insistere perché l’umore di una persona ferma in autostrada, con la spia dell’olio fissa, a mezz’ora da una presentazione letteraria a 80 chilometri di distanza, non è tipico di chi può essere incline ad acquistare un telepass. Dopodiché gli chiedo di fornirmi un numero al quale risponda qualcuno che possa offrirmi una forma di aiuto efficace, tipo segnalarmi l’area di servizio più vicina a me.
“Houston, mi ricevi? Abbiamo un problema!”
Compongo il nuovo numero e mi risponde lo stesso del telepass ricaricabile, che adesso però è pronto ad aiutarmi perché quello è proprio il numero delle informazioni autostradali. Indeciso se mettermi a ridere o rimettermi a piangere, ascolto lui che chiama a rapporto tutti i suoi colleghi in stanza.
“Se ‘o facciamo uscire a Fiano Romano, dopo ‘na decina de chihommetri trova er benzinajjo.”
“Ma a Fiano questo manco c’ariva, te ‘o dico io!”
“Allora famolo proseguire sulla E-45!”
Torna a rivolgersi a me: “Senta, ma a quale chilometro sta lei? Vada vicino a uno dei mattoncini neri, ar bordo da’a careggiata e legga ‘mpo’!”
“Sì, è dall’altra parte, aspetti che attraverso…”
“Aho, ma che fa! Non s’attraversa a piedi in autostrada!”
“Lo so, ma come glielo dico il chilometro se da qua non lo leggo?”
“Non ‘o so, faccia lei, ma non attraversi! Ci siamo capiti.”
“Sì, ci siamo capiti.”
Quindi attraverso; comunico il chilometro; ri-attraverso e torno al sicuro in macchina.
“Prosegua 12 km a 30 all’ora che se no brucia er motore. All’area de servizio se faccia rimettere ‘na tanichetta d’olio. Ma come se fa co’ gente come lei!”
Un litro d’olio = 28 euro.
“La settimana prossima portala a fare il tagliando, se no fra poco la puoi buttare!”
Certi benzinai sono un faro nella nebbia. Ti scordi dell’esistenza del tagliando e, visto il costo, vorresti continuare a scordartene e a macinare chilometri senza che ti accada mai nulla, poi arrivano loro e ti ricordano che la vita è una continua manutenzione e che dovrai regalare metà dello stipendio di novembre al tuo meccanico di fiducia, che tanto ti frega uguale.
Al centro storico di Orte si arriva da una salita con 2 grandi parcheggi, a uno dei quali è bene fermarsi se non si vuol rimanere incastrato in una viuzza larga meno della propria automobile. Il borgo guarda tutti dall’alto di una collinetta, come un presepe sollevato.
Giuseppe mi trova, per fortuna prima di un’equipe di soccorritori della Croce Rossa, mentre vago in stato confusionale svoltando ora di qua, ora di là, ormai giunto, non so come, a un metro e mezzo dalla libreria, senza però vederla. Ci salutiamo, mi presenta la sua compagna Stefania, ribattezzata poi la libraia timida perché, quando qualcuno la guarda, lei smette di parlare e il volto le si colora di rosso come per un’esplosione sottocutanea. Il centro della scena la terrorizza, ma quando si tratta di consigliare un libro non la batte nessuno. La libreria è stupenda. Rispecchia l’idea che ho io di libreria: piccola, accogliente, fornita, con dietro il bancone una libraia timida capace di ricordarsi, che so, il libro che sfogliavi quel giorno di 3 settimane fa, lo dice alla/lo tua/o ragazza/o che te lo regalerà per il compleanno.
Sono arrivato, posso finalmente riposarmi le membra. Sto per sedermi quando Giuseppe in allarme grida: “Fermooo! Quello è il tavolino!”
Resto immobile, a metà fra l’in piedi e il seduto.
“Non tanto per il tavolino, quanto per i vetri nel culo!”
Quale modo migliore per presentarmi se non quello di scambiare un tavolinetto minimal di vetro per uno sgabello di design?! Se ci penso, ancora rido.
Il pubblico si dimostra appassionato e partecipativo: ho avuto l’impressione che fossero felici di trovarsi lì, a passare un paio d’ore in mia compagnia. Tante domande e tante vite che inevitabilmente si raccontano a me che le ascolto.
Cose che ci tornerei anche domani:
– 3 bambini, in fila uno dietro l’altro, per farsi fare una dedica da me.
– Le signore e i loro complimenti: sono dolcissime.
– I signori, che mandano sempre avanti le mogli.
– Giuseppe e Stefania. Ci siamo dati appuntamento a presto per una gita, senza libri né presentazioni di mezzo.
– La penna di piuma nera donatami da Giuseppe e Stefania per firmare le tante copie (ma che bello!) che adesso spicca nel portapenne sulla mia scrivania.
– Il tiramisù della locanda dove abbiamo cenato.
– ‘Una valigia tutta sbagliata’ in vetrina, fra il nuovo di Baricco e la biografia di Steve Jobs, con Murakami Haruki alla fine della fila.
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