Alcuni libri li compro in edizione cartonata e li leggo 2 o 3 anni dopo, quando in libreria è arrivato il tascabile (gran genio del risparmio), altri invece attraversano il mio orizzonte di lettore come fulmini. Non è detto che siano migliori dei primi. Di certo hanno qualcosa che sfugge le logiche e riesce a far saltare loro tutte le code.
Di Roddy Doyle non avevo letto nemmeno Paddy Clarke ah ah ah!, fatto sta che quando in libreria è arrivato L’amico di una vita non ci ho pensato un istante a pagarlo e portarmelo a casa.
Il titolo ha una semplicità e allo stesso tempo una forza capaci di creare, almeno su di me, un’aspettativa enorme. Trovo che raccontare l’amicizia sia una sfida vinta da pochi e allo stesso tempo una battaglia che meriti di essere combattuta sempre con nuove armi.
Sono troppi i sentieri ancora da percorrere, le motivazioni sottili, le esperienze che fondono 2 o più esistenze, per pensare che sull’amicizia sia già stato scritto tutto.
Così ho voluto dare fiducia a quell’aspettativa, e la posizione degli occhialoni nella foto sta a significare che è stata ben riposta.
L’amico di una vita è un lungo racconto più che un romanzo, non tanto per la brevità (un centinaio di paginette velocissime), quanto per la costruzione narrativa.
La trama ruota attorno a un solo evento principale, che è la morte di Joe. La scena si svolge quasi esclusivamente a casa di Joe, amico intimo del protagonista Pat. Una manciata di personaggi: Pat e sua moglie Sarah, Joe e sua moglie Karen, qualche vecchia conoscenza presente alla veglia funebre a casa di Karen e Joe.
L’intreccio non è particolarmente elaborato e questa non vuole essere un’annotazione penalizzante, anzi, è una scelta precisa che definisce ulteriormente la natura dell’opera.
Pat e Joe hanno rotto da anni a causa di una brutta lite per un cavallo e tre donne, e si riparlano solo la sera della vigilia del funerale di Joe.
Ho rivisto Joe la sera prima del suo funerale […] Non è una cosa che capita tutti i giorni, no? Se era la sera prima del suo funerale, Joe doveva essere morto. Ecco cosa state pensando. E avete ragione. Era morto. Era morto. Però poi mi ha parlato.
Joe è seduto nella bara, al centro del salotto, e non sembra per niente morto. Saluta l’amico, è contento di rivederlo, ma sa molto più di quanto Pat pensi. Dal loro assurdo dialogare emergono dettagli che chiariscono da un lato il passato, dall’altro le sensazioni che hanno tormentato Pat dal preciso istante in cui Sarah gli ha comunicato la morte dell’amico.
Pat ha trovato un equilibrio, a prescindere dalla quantità di felicità raccolta nel corso della sua vita, e il confronto con Joe lo destabilizza risvegliando tutti i desideri. Pensava fossero soltanto illusioni giovanili e invece sono buchi profondi mai colmati. Trovarsi a parlare con l’amico lo illude di poter cambiare il passato. Se Joe che è morto, in verità non lo è, visto che gli sta parlando, allora c’è ancora il tempo per rimediare, per cambiare strada, inseguire un vecchio amore, riaprire una porta, riprendersi la vita che non ha avuto. Oppure no?
Punto di forza e carburante di questa storia sono i dialoghi, che raccontano gli stati d’animo molto meglio di quanto saprebbero fare accurate descrizioni. Come questo fra Pat e Karen, la moglie di Joe.
– Pat – disse. – Mi fa piacere che tu sia venuto.
– Anche a me – dissi. – Vorrei solo…
– Cosa?
– Vorrei averlo fatto prima.
– Pazienza – replicò lei. – Joe ha detto la stessa cosa.
– Davvero?
– Sì.
– Siamo stati stupidi.
– Sì – disse lei. – Lo siamo stati.
– Intendevo io e Joe – precisai.
Sentii il viso avvampare.
– Sì – disse. – Anche voi. Comunque eccoti qua.
Mi abbracciò. La baciai sulla guancia. Il suo orecchio era lì, pronto per le mie parole.
E vidi mio figlio guardarmi.
Li vedi, Pat, Karen e i loro sguardi di non detti, e ti sembra di ascoltare le preoccupazioni che li legano e che fanno molto più rumore della morte di Joe.
Mentre leggevo mi domandavo che idea avesse Roddy Doyle della morte. E allora, ormai quasi alla fine, ho stoppato la lettura e ho cercato on-line info sull’autore. Roddy Doyle è ateo. La religione non gli interessa. È convinto che dopo la morte non ci sia nulla, che si muore e basta.
E allora perché decidere di incentrare tutta la storia sulla morte? Fermare l’azione in un preciso momento, che nessuno di noi può conoscere davvero, e raccontarlo, lui che non ci crede, estenderlo, intrappolarci i protagonisti come in una cantilena?
L’idea che mi sono fatto è che Roddy Doyle voglia costruire un aldilà personalizzato per Pat e Joe, che sono molto più importanti della verità sull’aldilà. Due che ne hanno bisogno, perché non ce li vedi proprio in un Paradiso bianco a svolazzare piumati.
L’amico di una vita è un condensato di sentimenti: dall’amicizia all’amore passando per il dolore sordo causato dall’assenza e dal tempo che questa dura. Roddy Doyle riesce a raccontare, attraverso una penna sorridente, il senso di inadeguatezza che ci blocca e spesso ci fa perdere l’opportunità di fare la cosa giusta proprio con l’amico di una vita, l’unico per il quale valga la pena.
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