Avete sentito di quell’uomo per niente simpatico che ieri mattina, a Corropoli, all’interno della sede universitaria provvisoria di Informatica dell’Aquila, senza bene sapere come (ma forse molto bene perché), si è ritrovato una penna Biro punta fine nella giugulare ed è morto dissanguato dopo 90 minuti di agonia, mentre il suo studente modello, che si era sbobinato 90 km solo per parlare con lui – tanto che c’erano, da L’Aquila, potevano trasferirla ad Aosta la facoltà – lo osservava in piedi con un ghigno a illuminargli il viso, senza muover ciglio? No? Bene, vuol dire che la notizia ancora non arriva agli organi di stampa, cosa possibilissima considerata la giornaliera affluenza di studenti e professori in quella mirabolante sede provvisoria dove, all’ingresso, in equilibrio sul terriccio, ti accoglie il cartello Informatica scritto con l’uniposca nero, in attesa che Berlusconi ricostruisca L’Aquila e quindi l’università e che, magari, vi torni un numero di studenti strettamente maggiore di 1, nel suddetto caso il (più che giustificato) omicida.
Quell’uomo mi ha fatto girare le palle per una serie di risposte che non vi elenco perché se no i giramenti aumentano vertiginosamente, questione di salute, insomma. Il succo dei 3 minuti scarsi di discussione, continuamente interrotti dal suo cellulare che suonava e suonava, col mio in tasca che non ricordo neanche che suoneria abbia, può essere riassunto con un: “Deve fare l’esame alla data di appello, che sarà il 14 o il 16 o il 20 o comunque un giorno vicino a questi, compatibilmente con i miei impegni”. Dev’essersi molto sorpreso quando io gli ho risposto: “Ma lei mi aveva detto di completare l’articolo e che avremmo incentrato l’esame su quello. Io sono venuto oggi, come mi aveva scritto per e-mail, sperando di concluderlo”. “È vero che i terremotati siete voi, ma io mi faccio 1000 chilometri a settimana per venire qua. Mi sta chiedendo di inventare un appello apposta per lei, oggi?”
Afferro la biro sul tavolo e la stringo forte nella mano destra, al punto che la circolazione rallenta e la pelle impallidisce mentre lui continua: “Mi dica lei qual è una soluzione!” “Una soluzione potrebbe essere accomodarsi qualche minuto a uno dei tanti tavolini vuoti, in questa sede provvisoria vuota, e discutere di quell’articolo, intanto.” Certamente ho usato un tono sbagliato, ma dopo un’ora e mezza di macchina, il veder sfumare tutti i progetti a breve termine il tono te lo cambia per forza. “Ho un seminario stamattina e una riunione nel pomeriggio.” (Ma perché (cazzo) mi hai fatto venire!) La Biro è al limite, solo un altro po’ di forza ed esploderà schizzando inchiostro dappertutto. “Segua le date degli appelli su internet e mi rinvii l’articolo per e-mail.” Fa una pausa e poi mi dà la stilettata finale: “E lei crede di fare la tesi da Firenze?” Sorride e si allontana. Lo guardo muto e penso che ora o mai più. Lo raggiungo e gli conficco la penna punta fine nella giugulare. Lui cade a terra, io lo fisso e gli sussurro: “Sì, lo credo”. Esco dalla sede e riparto per L’Aquila.
Durante il viaggio di ritorno penso a tutto tranne che alla strada. Penso a quante vergognose merdate facciano quotidianamente nelle facoltà universitarie e a quanto quest’uomo mi stia complicando l’esistenza. Penso che non potrò ripartire per Firenze, almeno fino all’appello. Penso a quanto stia male qua. Penso che non potrò sostenere dei colloqui importanti, uno fra tutti. Penso che potrei tornare, fare il colloquio e ripartire, poi penso che se dovessero prendermi a lavorare, 3 giorni per l’esame non me li avrebbero dati. Penso che non ce la faccio più a pensare. Che ho bisogno di stare tranquillo. Mi sta andando a fuoco il cervello. Ogni volta che una strada pare decisa, e me ne convinco, accade qualcosa a stravolgere i programmi e costringermi a nuove decisioni. Ho bisogno di restare fermo, muto, nel silenzio. Con le sole voci dei libri a farmi compagnia, per un po’, immobile.
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