Credo di poter dire che so cosa prova un capello sfibrato. Non stanco, sfibrato. Nel mio caso, paragone a parte, non è una questione di capelli, ma di sensazioni fisiche. È il quarto giorno consecutivo che al lavoro faccio nove ore affilate e sarà così fino a mercoledì prossimo. Sono giorni di fuoco, anzi di Crispy Bacon, patatine, tè alla pesca, Flurry, salsa Tasty e coni gelato. Maledetti coni gelato. Non ne vogliono proprio sapere di venir fuori a forma di nuvoletta di Alladin. Ho una coordinazione mano destra – mano sinistra pari a quella di un paralitico con le convulsioni e il risultato migliore è stato una specie di parallelepipedo con una testa di toro sulla punta che ho servito con un sorriso convincente alla ragazza visibilmente scioccata. Quella visione avrà risvegliato le sue più recondite paure trasformando quelle corna di vaniglia nel peggiore presagio possibile per la sua storia d’amore ormai agli sgoccioli. Mi sono voltato verso la folla e ho esclamato: “Prego, chi deve ordinare?”. Lei è andata via continuando a fissare il co(r)no gelato fra le mani e ha anche urtato contro la colonna e per poco non finiva a terra. Non era proprio il caso di mettersi lì a disquisire sulla forma del gelato, col direttore e la vicedirettrice a pochi passi. Per la serie: Prenditi ‘sta sottospecie di cono e sparisci prima che mi licenzino!
Nove ore sono tante e quando son finite quelle mi ritrovo a scoprire che è finita pure la giornata. Il non avere tempo libero ha i suoi lati positivi. Persino i pensieri, che non hanno bisogno di chiedere permesso per venire a galla, hanno bisogno di tempo, però. E se il tempo non ce l’hai è difficile che ti metti a piangere sulle tue sciagure o a ricordare con malinconia i momenti in cui tutto non era com’è adesso, perché devi pensare prima a far quadrare tutto, ad arrivare puntuale al lavoro, a farlo bene, il tuo lavoro che ora è un po’ più difficile. E poi ci sono le idee letterarie da mettere su carta, da infiocchettare e applaudire. Alla sera vado a dormire stanco, appena il pendolo in salotto batte i dodici rintocchi e la mattina mi sveglio con energie a sufficienza per ripartire, ma dura poco. Ho smesso di dormire in casetta di legno. Prima o poi uno la forza la deve trovare. La verità è che in casetta non riesco a riposare. Mi sento scricchiolante come il legno che si assesta pure se soffia un alito di vento. Apro gli occhi continuamente e continuamente prendo il telefono sul comodino e guardo l’ora. Il giorno poi mi sento crollare, perché questi sono giorni faticosi. La notte mi fa meno paura e nel mio letto riesco a dormire. Vivere in questa città mi sta fortificando. Ho la sensazione di trovarmi dentro un piccolo mondo laborioso che fatica fino alla sera tardi perché si ricorda com’era prima e lo rivuole quel prima. Ora tutti lo rimpiangono, ora che bisogna fare una fatica pazzesca per non far prevalere il silenzio ogni volta che gli occhi raggiungono una casa distrutta, o il cielo dietro al Duomo. Gli occhi non possono abituarsi, eppure devono perché questo adesso è il nuovo paesaggio, un macigno sull’umore. Eppure sento le pareti rinsaldarsi, come se una mano invisibile stesse giorno dopo giorno gettando cemento sulle crepe dell’animo. Questo è fortificarsi. Sono molti i passi che non danno cenno di cambiare, l’uno dopo l’altro, tutti uguali sempre sulla stessa strada, poi arrivi a un punto che d’improvviso cambia il cielo, magari spunta il mare, il viottolo si fa una strada più larga su cui camminare in due, fianco a fianco, e poi in tre. Noi siamo gli stessi. Io faccio quello che faccio soltanto perché ci sono loro. Altrimenti che senso avrebbe?
È passato il Ferragosto. Buona domenica, al giro di boa di quest’estate, da una L’Aquila ancora senza stelle.
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