[La dama nera stanca, ben vestita e maleducata]

Mi trovavo a cena con i miei cari amici in una pizzeria molto nota a Firenze. La considerano fra le più buone, e noi non ci eravamo mai stati.
– Fra le 21 e 45 e le 22 – dice il ragazzo al telefono quando chiamiamo per prenotare. – Non prima che siamo pieni.
Davanti la porta c’è un nugolo di persone che chiacchierano in attesa che qualcuno le faccia sedere. Attesa lunga, capisco quando, un quarto d’ora dopo, uno di questi si avvicina al cameriere.
– Scusa, se non c’è posto andiamo via.
Chissà da quanto aspettano, penso. E chissà quanto aspetteremo noi, penso anche. Ma sono tranquillo. Mi ci sento davvero. Il mio animo vulcanico è stato domato da mesi e mesi di lavoro su me stesso, con l’obiettivo di limare il mio congenito impulso alla polemica pubblica, a dire quello che penso a voce alta in mezzo alla gente. Il cameriere fa sedere i ragazzi prima di noi.
E’ passata già mezz’ora da quando siamo entrati. Avremmo dovuto sederci più di venti minuti fa secondo quanto ci aveva detto al telefono, penso. Ma sempre senza rancore.
Qualche minuto dopo, ignorati e talvolta schivati come merde di mucca fresche, decidiamo di fare la stessa parte dei ragazzi che ci hanno preceduto, magari funziona.
– Scusaci, è mezz’ora che aspettiamo. Se non c’è posto noi andiamo via.
– Stanno pagando. Il tempo di sistemarvi il tavolo.
Mi volto verso la cassa e non c’è nessuno che sta pagando. Intanto penso al suo tono. E’ evidente che non gliene frega niente se restiamo o andiamo. D’altronde, perché dovrebbe?! Lui è soltanto un cameriere, mica è suo il locale. E non dev’essere stata una serata facile. Ci ho lavorato in pizzeria e in locali assaliti nel weekend. So com’è avere a che fare con un branco di animali selvatici affamati, e non è bello. Per questi motivi decido di soprassedere al tono. E poi io sono un uomo nuovo, fiorentino d’adozione, sereno nell’animo. Aspetto ancora, e sorrido pure.
Finalmente scorgo movimenti rassicuranti da un tavolinetto da quattro. Osservo i signori mentre si alzano, si rimettono le giacche, si scambiano reciproci sorrisi, si aspettano a vicenda e finalmente se ne vanno. E’ in quel preciso istante, quando pensi che ce l’hai fatta, che sei riuscito a raggiungere il tuo obiettivo con stile, che qualcosa, anzi qualcuno, rovina tutto.
Entrano mano nella mano. Lei vestita di raso nero, i capelli platinati raccolti in uno chignon perfetto, gioielli vari ed eventuali addosso. Con una mano si regge l’abito, con l’altra tiene la mano del suo accompagnatore in smoking. Riflettendola, ha più anni di quanti gliene avevo dati a prima vista, e lui dev’essere molto più giovane di lei. Comunque, sembrano due persone di classe. Questo per dirvi che io non parto prevenuto.
La dama nera richiama l’attenzione del cameriere, lo stesso del tono sufficiente di poco prima. Mentre la raggiunge, lei trascina a piccoli passi il pinguino accompagnatore fino a quello che stava per diventare il nostro tavolino.  Il mio sangue mi avverte del pericolo toccando improvvisamente i 650mila gradi fahrenheit.
– Possiamo qui? – domanda la dama nera al cameriere offrendosi con una serie di moine, quasi a porgergli una parte a scelta del suo bel corpo in cambio del posto a sedere.
Quel tavolo è nostro. Il cameriere lo sa ed è in evidente difficoltà. Le parla e ci indica. Lei fa spallucce e insiste. E, senza avere il permesso di nessuno, si siede.
SI SIEDE, MIODDIO!
Affanculo l’autocontrollo. Parto nella loro direzione. Non so cosa avrei detto e fatto di lì a qualche istante, ma cammino con gli occhi accecati da tanta maleducazione.
– Senti – dico al cameriere che stava tentando di schivarmi con una manovra funambolica interrotta dal mio braccio sul suo. – Come mai quei due sono entrati e si sono seduti, mentre noi continuiamo ad aspettare un tavolo da quarantacinque minuti?
– Si è seduta da sola.
– L’ho visto. Perché non l’hai fatta rialzare?
– Sentite, il tavolo c’è – dice con gli occhi illuminati dalla visione di un altro tavolinetto che per sua fortuna immensa, sfacciata, quasi miracolosa, si libera e gli salva la vita dalla mia ira funestissima. – Se lo volete bene, se no…
Se lo volete bene, se no?!
Ma con chi pensa di avere a che fare questo stronzo di cameriere che non sa neanche dire a una stronza rivestita di aspettare cinque minuti?
– Fanculo! – esclamo mentre ci andiamo a sedere.
Al caso piace prendersi gioco di noi, perciò fra tutti i tavoli della pizzeria, tantissimi, quale si va a liberare? Quello adiacente alla dama+pinguino cenanti.
La nostra vicinanza mi permette di cogliere dettagli ulteriori. Fra cui l’acidità negli occhi. Non mi riferisco all’acidità di un momento, quella può capitare. Parlo di quel tipo di acidità congenita onnipresente sul volto in tutte le espressioni più comuni. Aggravata dal fatto che ce l’ha con me. Mi guarda e scuote la testa. Qualche ciuffo si scompone e ricade disordinato sulla sua fronte sudaticcia. Dice al pinguino qualcosa agitando le mani come le pale di un ventilatore. E mi guarda ancora.  Quella brutta cafona attempata che si siede a un tavolo non suo sta dicendo male di me soltanto perché ho fatto notare al cameriere quanto è maleducata. Capite? Giuro che le avrei rovesciato la brocca di birra sul suo bell’abito. E poi fa una cosa. Attira di nuovo l’attenzione del cameriere muovendo il polso e lasciando ondeggiare la mano stanca per inerzia.
– Possiamo cambiare tavolo che qui… non stiamo bene?
Il cameriere gli cambia il tavolo. Si allontanano e con loro anche il fastidio dovuto alla loro esistenza che ha incrociato la mia.
La maleducazione è quasi sempre direttamente proporzionale al ben vestire.

[Là non c’ho guardato]

Osservo con curiosità una donna che trascina per mano il figlio da una parte all’altra della libreria.
Cerca qualcosa di preciso. Lo testimoniano gli occhialetti quasi sulla punta del naso che non sembrano della giusta gradazione, visto che si avvicina alle copertine che quasi ci sbatte la fronte.
– Non c’è… qua non c’è… qua neanche – continua a dire. Non sta parlando col figlioletto, ma con un’altra sé.
Viene verso di me. Io abbasso gli occhi sul computer e inalo quintali di ossigeno. Mi preparo.
– Ce l’avete Geronimo, il sesto?
– Di Geronimo abbiamo…
– Ho guardato dappertutto, ma non c’è!
– No, infatti abbiamo solo…
– Pure alla vetrina ho guardato, pure al reparto dei ragazzi, a quello dei bambini, alla parete dei libri di cucina!
– No, be’, là di sicuro non…
– Ma che ne sai che qualcuno non cambia idea all’ultimo e non lo lascia vicino alla Clerici?
– Sì può darsi, comunque…
– Mio figlio lo vuole. Vuole solo questo. Geronimo è l’unico modo per farlo stare zitto.
Ma come fa costei a parlare così veloce? Chissà da chi avrà ripreso questo figlio parlerino, che in mia presenza comunque non dice una parola.
– Capisco che piacciano. In effetti sono libri molto curati, c’è una grande attenzione ai gusti del bambino, ma…
– Nemmeno una copia che ne so… dietro gli album da colorare? – e con uno scatto di lancia verso l’espositore con tutti gli album delle principesse, dei pirati e dei dinosauri.
– Di Geronimo c’è solo l’ultimo, il sette. Ma do un’occhiata se ne è rimasta una copia in magazzino.
– Ecco sì, là non c’ho guardato.
– …

Il mio giardino silenzioso

Sono tornato dal lavoro, ho piazzato un sedia in giardino, di quelle bianche di plastica, quelle da cucina dell’Ikea, e mi son messo lì, in questo giardinetto che abbiamo, a leggere Cime tempestose. Finché la tempesta non è arrivata davvero e sono rientrato. Sta diluviando, e mi viene da ridere perché Firenze mi piace pure con l’uragano.
Dal primo momento in cui ho messo piede sulla terra arida oltre la finestra della cucina, proprio il giorno dello scorso settembre che ho risposto all’annuncio di questa casa, l’ennesima che andavo a vedere, e l’ho subito presa, ho pensato che quel giardinetto aveva qualcosa che attraeva la mia attenzione.
Me lo ricordo benissimo quel giorno. Ero triste, di quella tristezza che non riesci neanche tanto a condividere. Che ti rimane attaccata addosso come il caldo umido di agosto. Perché quel giorno mi sono svegliato e per la prima volta, da quando avevo deciso di lasciare L’Aquila e partire per Firenze, per la prima volta mi sono domandato se non stessi facendo una cazzata grande come il mondo. Non tanto perché fosse sbagliata come idea, quanto perché io forse non ero all’altezza dei miei grandi progetti. Mettevo per la prima volta in dubbio me stesso. Non riuscivo neanche a trovare una stanza che mi piacesse un po’, e continuavo a camminare per chilometri con le mie scarpe di tela azzurre consumate, e la strada che grattava sotto la pianta del piede. Ma dove volevo andare io, abituato alla mia piccola vita di provincia?
E poi sono entrato in questo palazzo con la facciata logora. Ma non ho pensato: che brutta facciata! Sono entrato nell’appartamento, ho visto la stanzina in affitto, il bagnetto nuovo, la cucina nuova, il giardino. Sono uscito, ho fatto qualche passo, c’erano le erbacce altissime, e l’ho avvertito chiaramente. Ero arrivato dove dovevo arrivare. Così ho detto: – La prendo!
Com’ero felice! Non era l’aver trovato una casa il motivo della mia felicità, ma l’aver trovato un modo per iniziare a costruire il mio palazzo di sogni, da solo, senza certezze, qui, proprio dove volevo. Anzi, una certezza improvvisamente l’avevo trovata: quel giardino speciale.
Non che fossi un esperto di giardini, né si può dire che questo si distinguesse per magnificenza, cura, o altro. Eppure il pensiero che fosse un luogo particolare – più una sensazione che un pensiero – è rimasto latente per tutti i mesi che sono trascorsi da allora. Finché un giorno ho capito: il silenzio.
E’ così strano sentire quel silenzio, a un passo dallo stadio, dalla stazione di Campo di Marte, dai viali. Che poi non è proprio un silenzio totale, quello mi inquieterebbe. E’ come se tutt’attorno fosse calata una specie di cupola filtrante, che lascia passare solo il suono del vento, degli uccelli e dei tuoni. Come se non ci fosse la città.
Ho sempre trovato il silenzio una caratteristica rara, nei luoghi e nelle persone. Da ammirare e invidiare, per me che parlo e parlo. Un dono da abbracciare con la mente, quando appartiene a qualcuno che, senza parlare, sa starti accanto. Un dono da preservare e di cui godere, quando sei in un luogo immune ai rumori.
Ecco, tipo il mio giardino.Dove sentire la mia voce interiore, quella sincera. Non ha molto senso mentire qui, tanto siamo solo noi due. A chi la dobbiamo far credere? Ascoltarmi e capirmi di più.
Domandarmi come va? e rispondermi alla grande!

[Il potere della mente]

In libreria.
Si avvicina con passo felpato, ma si avverte chiaramente.
Mi ricorda la scena di Jurassic Park. Quando il ragazzo sta nell’automobile col bicchiere d’acqua in mano, e a un certo punto l’acqua inizia a tremare in modo ritmato. E’ il ritmo dei passi. I passi del Tyrannosaurus Rex.
Un donnone immenso ricoperto da un tendaggio scuro mi sorride davanti la cassa. Durante questo suo gesto carinissimo tutti i suoi menti si mettono a ballare una rock dance acrobatica.
– Questo – dice porgendomi un libro.
Pensa magro, la nuova attesissima opera di Raffaele Morelli.

Cose mie che vanno a finire negli ebook

Succede che leggi una tua cosa nel corso di un reading, alle due di notte ubriaco e gonfio di birra, e questa cosa va a finire in un ebook.
Il reading era Torino Una Sega, a Firenze, un evento che se sapevo che ci sarebbe stata tutta quella gente mi sarei chiuso in casa dalla paura.
L’ebook raccoglie tutte le letture, ed è codesto (come si dovrebbe dire in tutta Italia e invece si dice solo da queste parti).
Il mio pezzo, grazie a Scrittori Precari che l’ha pubblicato separatamente, sta anche qua (per chi non volesse perdere tempo a scaricare, spulciare).
Evviva.

Io ci ho provato a instaurare un dialogo con l’agente

Avete una vaga idea di cosa può voler dire vivere a Firenze, in una stradina alberata fra lo stadio Artemio Franchi e il Mandela Forum?
Avete una vaga idea di cosa può voler dire un sabato sera prigioniero in una stanzina al pian terreno, mentre da destra arrivano i boati dei tifosi della Fiorentina, che accompagnano con una ola fotonica i nomi dei giocatori in modalità stereo, e da sinistra i melodiosi acuti di Alessandra Amoroso in concerto?
No. Con tutto il rispetto non potete immaginare com’è convivere con la paura che un hooligan di cattivo umore per la sconfitta della propria squadra del cuore ti entri dalla finestra e se la prenda con te.
Sabato si giocava Fiorentina-Roma. Una partita molto delicata per la qualificazione in Champion’s League. (Tanto mi interessa la questione che ho dovuto fare una ricerca mirata su Google per capire se e quanto fosse delicata la partita, e come si scrive Champion’s League). Così, penso bene di trascorrere la mia vigilia pasquale il più lontano possibile dal luogo prescelto per l’apocalisse (casa mia). Mi fermo da Niccolò a mangiare una pizza fatta in casa… croccantissima.
A mezzanotte inoltrata agg’ decis’ e turnà (espressione interamente ripresa da un sito internet culturale napoletano, pure l’accento e gli apostrofi). Pensavo che a due ore dalla fine della partita fosse tornato tutto regolare e invece. Povero illuso.
Già da Viale dei Mille si vedono i lampeggianti blu rischiarare il cielo. Sono tantissimi, sembra una base aerospaziale da cui sta per partire il lancio del secolo. Vado avanti, fiducioso che in quelle poche centinaia di metri che mancano succederà qualcosa che mi permetterà di raggiungere la mia stradina alberata. Arrivo al blocco. Cinque uomini armati mi scrutano nell’anima, come se nascondessi trenta chili di eroina nel bagagliaio. Alzo il finestrino. Dovrei proseguire dritto, ma farò il giro prima che mi sparino, penso. Povero illuso 2 – il ritorno.
All’imbocco della mia strada, la strada di casa mia intendo, quella alberata, un nuovo posto di blocco. Meno presidiato. Un solo poliziotto sta davanti alle transenne. Sembra annoiato e stanco. Una forza dell’ordine senza forze.
Prima di sfondare la barricata tento un dialogo.
– Salve signor… buonasera – dico. Mi veniva da dire signorsì.
– Ma no-o vedi l’elicottero? – dice lui accennando col capo al cielo dove svolazza un elicottero, appunto.
– Sì, lo vedo.
– Eh, che te fa pensa’ ‘sta cosa?
– Che mi fa pensare?
– Eh, che te fa pensa’? Di’, su!
– Non lo so! Veramente! – dico la parola veramente col tono di La prego non mi spari.
– Che te ne devi annà da qua! – esclama lui accompagnando il concetto con eloquente movimento palmo-mano-sinistra/fianco-mano-destra.
– Vorrei, ma non posso!
– E perché, sentiamo!
Incrocia le braccia e mi guarda con la stessa espressione del tenente di Squadra di Polizia che deride il ciccione.
– Perché io abito là, proprio dietro di lei!
E indico il portoncino di casa mia, nell’ombra immobile e silenziosa del vialetto.
– Se solo lei potesse scansare questa transenna… – aggiungo. – E permettermi di entrare…
Sta riflettendo. Nutro delle speranze che si infrangono in un: – No, fra un’oretta liberiamo tutto e rientri.
Ma dove vado io un’ora? Poi guardo l’orologio e mi viene una straordinaria idea: la compassione.
– Ma è Pasqua, agente!
Qualcosa di divino gli attraversa lo sguardo arcigno.
– Va bene, sposti la transenna e passi! Poi la rimetta dov’è, però.
Scendo dalla macchina, sposto la transenna. Mamma mia quanto pesa, penso. La transenna mi sfugge di mano. Cade a terra provocando un frastuono micidiale. Dietro di me suonano dei clacson. L’agente si allarma e afferra la ricetrasmittente. Io non ci capisco più niente. Salto in macchina e quasi lo investo. Dallo specchietto retrovisore lo vedo che tenta di fermare una coda di automobili che gli sfrecciano a pochi centimetri da lui, fregandosene del posto di blocco che ormai è saltato. L’ho fatto saltare io! Fischia col fischietto. Agita la ricetrasmittente. Nessuno rispetta la sua autorità.
– Grazie di cuore – gli dico da lontano mentre apro il portoncino. – E buona Pasqua eh!

[Madre Calendar]

Parte la suoneria di Profondo Rosso, quella abbinata al numero di Madre.
– Pronto?!
– Matteo… sei tu?
– Madre, ma non mi riconosci?
– Scusa, è che sei lontano da così tanto tempo che è normale che abbia qualche dubbio.
-…
– Sai, qui si sente molto la tua mancanza.
Sento una lacrimuccia nascere e crescere. Allora rido con fragore per nascondere questo imprevedibile accenno di commozione.
– Dai che è arrivata l’estate ormai. Fra poco torno!
– Ma che è arrivata che stiamo a marzo!
– Ma quale marzo che stiamo a maggio! – ribatto nel tentativo di farle sembrare di meno il tempo che manca.
– Ma quale maggio che domani è Pasqua! – esclama lei. – Vedi di riprenderti. Mi sa che lavorare in mezzo ai pupazzi ti ha mezzo scemito.
– (In mezzo ai pupazzi) …

Non piangere perché qualcosa finisce, sorridi perché è accaduta

Ma muoiono davvero quelli come Gabriel Garcia Marquez? (Come se ce ne fossero tanti, poi.)
No, mai.
Perché lasciano un bagaglio di energia vitale incredibile, che si rinnoverà per sempre.
Le parole diventano, fra le sue mani che digitano, venti impetuosi, tempeste di calore, nottate magiche in luoghi straordinari, amori impossibili ed eterni, come tutti gli amori impossibili.
Ecco, se non è vita questa, non so cos’altro possa essere chiamato così. E allora, chi lascia agli altri la vita, chi è capace di questo dono, non muore mai davvero.

Porto queste sue parole tratte da L’amore ai tempi del colera incollate all’anima. Perché io sono uno che ride spesso, piange spesso, ama raramente e non smette di farlo facilmente, qualche volta perdo fiducia in me stesso. Insomma, sono uno come un altro con la paura di non essere all’altezza. Allora rileggo i 13 spunti di Marquez e mi ricordo quanto valgo.

  1. Ti amo non per chi sei ma per chi sono io quando sono con te.
  2. Nessuna persona merita le tue lacrime, e chi le merita sicuramente non ti farà piangere.
  3. Il fatto che una persona non ti ami come tu vorresti non vuol dire che non ti ami con tutta se stessa.
  4. Un vero amico è chi ti prende per la mano e ti tocca il cuore.
  5. Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è esserci seduto accanto e sapere che non l’avrai mai.
  6. Non smettere mai di sorridere, nemmeno quando sei triste, perché non sai chi potrebbe innamorarsi del tuo sorriso.
  7. Forse per il mondo sei solo una persona, ma per qualche persona sei tutto il mondo.
  8. Non passare il tempo con qualcuno che non sia disposto a passarlo con te.
  9. Forse Dio vuole che tu conosca molte persone sbagliate prima di conoscere la persona giusta, in modo che, quando finalmente la conoscerai, tu sappia essere grato.
  10. Non piangere perché qualcosa finisce, sorridi perché è accaduta.
  11. Ci sarà sempre chi ti critica, l’unica cosa da fare è continuare ad avere fiducia, stando attento a chi darai fiducia due volte.
  12. Cambia in una persona migliore e assicurati di sapere bene chi sei prima di conoscere qualcun altro e aspettarti che questa persona sappia chi sei.
  13. Non sforzarti tanto, le cose migliori accadono quando meno te le aspetti.

E quanto vale (non valeva, vale!) Gabriel Garcia Marquez.

Violetta l’addetta e Mario, uomo pragmatico

Continua la saga Interinal Agency – alla ricerca del lavoro perduto, col ricordo di Mario.
Aspettavo il mio turno per un colloquio quando questo signore barbuto irrompe nell’agenzia, fa finta di non vedere le 78 persone in fila, aspetta che la disoccupata di turno termini di implorare Violetta l’addetta di Ali. (Fa ridere Violetta l’addetta, ma si chiamava davvero così.)
– Devo firmare un contratto! – esclama accomodandosi davanti a lei.
Violetta sgrana gli occhi azzurri e accelera il battito di ciglia con l’estèscion.
– Che contratto? Chi è lei, mi scusi?
– Mario, Mario mannaggia… (parte accidentalmente una bestemmia).
– Bene Mario, ora con calma mi dica che contratto deve firmare.
– Quello che sta attaccato alla porta. Là l’ho letto! Cazzo!
– Cosa ha letto, l’annuncio?
– Eh, e mi interessa. Quando se comincia?
– Ma… dovrebbe sostenere un colloquio prima. L’ha chiamata qualcuno?
– No, so venuto da solo.
– Qui non funziona che uno legge l’annuncio sulla porta e automaticamente viene assunto.
– Minghia quanto siete contorte voi femmine!