Noi siamo un vulcano

Dopo la proclamazione (che Madre chiama la premiazione) e il pranzo, e prima di abbandonarmi sul letto con ancora indosso l’abito blu di sartoria e le scarpe londinesi, ho scritto un lungo post su Facebook che voglio salvare anche qui perché non si perda fra tutti gli altri. Sono parole trascinate dalle emozioni come dalla corrente di un fiume. Ho chiuso gli occhi e sono uscite le parole, liquefatte con l’ansia. Voglio poterle rileggere di tanto in tanto per fare un viaggio indietro nel tempo e nelle sensazioni. Questo post sarà il gettone da inserire nella mia macchina del tempo ogni volta che vorrò rifare tutto da capo: risvegliarmi il 25 luglio 2013 e ritrovarmi alle 9.30 nell’aula 1.6 del palazzo di Coppito 1, facoltà di Informatica, L’Aquila.

E’ andato tutto come era impossibile che andasse, così bene dico. Sono stato il primo alle 9.30, puntualissimi. L’aula ancora andava riempiendosi. La commissione si è seduta ai banchetti, e io su una sedia davanti. Ho distribuito le slide. Ho iniziato a raccontare quello che avevo realizzato, la mia applicazione; mi sentivo felice di spiegare le mie intuizioni mentre lo facevo. Ero coinvolto, entusiasta, l’ansia era sparita. Ho parlato 19 minuti invece che 13, e nessuno mi ha interrotto. Hanno seguito la mia applicazione in esecuzione sul PC. Io non vedevo la freccetta bianca – la mia posizione era parecchio scomoda perché fosse comodo per loro – cliccavo a sensazione sperando che si trovasse nel punto che immaginavo io, e due volte sono andato a finire sul desktop con tutti i miei file letterari, che quelli avranno pensato: boh! Mi hanno fatto alcune domande, tutte sensate, azzeccatissime. Erano dentro la discussione, e io ero felice di rispondergli. Mi hanno invitato a lavorarci ancora su, a non abbandonare perché potrebbe rivelarsi una bella possibilità per il futuro. Mi hanno congedato. Ho sentito un grande applauso. Mentre portavo via le mie cose una professoressa mi ha chiesto se poteva tenere le slide.
Alla proclamazione non mi aspettavo niente. Il massimo dei punti a disposizione era 6, io partivo da 88. Quando la Presidente ha detto: “Ti proclamo dottore col punteggio di 95 su 110” ho pensato che si erano sbagliati tutti, che non era possibile. Poi ho capito che mi avevano dato un punto in più del massimo. Mentre seguivo le proclamazioni degli altri ripensavo a quel punto in più del massimo e scansavo qualche lacrima dalle guance. Poi ho parlato con un membro della commissione e gliel’ho chiesto. Lui mi ha detto che qualche volta lo fanno. Quando uno studente realizza una tesi sperimentale che vale quasi una specialistica e la applica alla vita quotidiana. Io l’ho ringraziato e lui mi ha detto: “Auguri!”. E ho ricominciato a piangere.
I festeggiamenti continueranno fino a tarda notte. Io già lo so che non smetterò di pensare a quel punto in più del massimo. Che ho visto brillare negli occhi delle persone che mi vogliono bene e che si sono fatte centinaia di chilometri per me e centinaia di chilometri dovranno farsi per tornare in sincronia con le loro vite e i loro impegni. E quelle che da vicino hanno pensato a tutto, ma proprio a tutto.
Vi voglio bene, come voglio bene a tutti voi che mi state bombardando di congratulazioni. Vi voglio bene veramente. Oggi sono la persona più felice del mondo. Auguro a tutti di vivere momenti di felicità così intensi, circondato da tutto questo bellissimo amore.

Sono stati tre giorni intensissimi, faticosi e felici, passati insieme alle persone più importanti della mia vita, inclusa Madre che è riuscita a contenere la gioia per l’agognata laurea del Primogenito solo fino a un certo punto. Si aspettava di dover presiedere a uno spettacolo poco edificante: il figlio trentaduenne che si laurea col voto più basso, pensava. E invece si è dovuta ricredere, e mi sono dovuto ricredere anch’io. Si è avvicinata e mi ha detto: – C’era un 110, un 100 e poi il tuo 95, e tutti gli altri dietro.
La verità è che vivo felice da un po’, da quando ho capito di essere tornato in carreggiata. Ho sempre cercato di lasciare semi di buoni ricordi nel cuore delle persone care. E loro hanno ricambiato con una festa esplosiva h24, fatta di tanti piccoli pezzi di personalità diverse, tutte legate dal filo d’acciaio del bene fra noi. Nonostante gli impegni, il lavoro, le distanze. Non scorderò neanche un vostro gesto. Ce li ho tutti qui, in testa, non come le cose che mi dimentico per via di questa memoria di pannamontata, ma come quello che non va più via, perché è troppo profondo il segno e luminoso il colore. E grazie a tutti voi, amici della rete, per avermi investito con la vostra ondata di energia straordinaria. Trovate sempre il modo di esserci, di condividere la mia felicità, e io la vostra. Non c’è una sola scheggia di malinconia, non una macchiolina d’inchiostro nello specchio d’acqua di quella giornata, solo spinta, boato, luce, fumo, calore, lava incandescente, zampilli di fuoco nel cielo. Noi siamo una grande forza: un vulcano.

Domani mi laureo

Ebbene sì! O almeno, non mi viene in mente, e spero non esista, alcun motivo per cui le cose dovrebbero andare a finire in un modo diverso. Non sento ancora i morsi dell’ansia. Mi distraggo telefonando al mondo intero e parlando del più e del meno, ma non di domani, come se non ci fosse un domani, appunto.
Ho ritirato le copie della tesi in copisteria e fanno la loro porca figura. Con quello che le ho pagate vorrei anche vedere. Mi sono appena voltato a guardarle, ora mentre scrivo, e mi è venuto da ridere. Ogni tanto vado alla ricerca di prove tangibili che, senza ombra di dubbio, confermino che ciò che penso accadrà veramente, che non mi trovo in uno dei miei sogni della notte, in cui sono sempre lì lì per laurearmi e poi mi sveglio con la delusione ai massimi storici. E quindi le guardo, lì sul tavolo, blu e argento.
Voglio, non vorrei, ma proprio voglio, che questo giorno resti nella memoria dei miei ricordi più belli e di quelli di coloro che ne faranno parte, come hanno fatto parte di tutte le sfumature dei momenti della mia vita. Hanno gioito con me, hanno pianto con me, si sono incacchiati con me, mi hanno detto bravo. E quindi dev’essere tutto perfetto. Più che perfetto direi bello. Un bella giornata, ecco. Poi dicono che domani esploderà l’estate quella vera, potrei interpretarlo come un segnale di qualcosa del tipo: scatena l’inferno Matte’!
Sarò il primo, alle 9.30. Un quarto d’ora e poi non lo so come mi sentirò. Ho provato a immaginarlo, ma non ci sono riuscito fino in fondo. Scoppiavo a piangere prima. Queste settimane sono state intensissime dal punto di vista emotivo. Una specie di preparazione alla bomba di gioia che mi esploderà dentro domani, e alla quale, in verità, non c’è modo di prepararsi efficacemente. Mi è capitato di piangere senza motivo davanti alla tivù, davanti alla pentola che bolliva, davanti alle tartarughe acquatiche basite, davanti al computer, davanti al niente, ma che nella mia testa aveva forma e colori di quello che sarà domani. Le presentazioni letterarie mi hanno insegnato a dominare l’ansia e a scegliere le parole giuste nelle occasioni pubbliche. Ma stavolta quello che quel quarto d’ora significa nell’arco di una vita, la mia vita, è troppo forte per le mie orecchie, troppo veloce per i miei occhi, troppo faticoso per il mio cuore perché io riesca a controllarlo, e a controllare gli stati d’animo saltellanti dei quali sarò pubblica vittima. Anche questo post è un modo per distrarmi, telefonare a qualcuno e chiacchierare. Io sto chiacchierando con voi, pure se voi non mi rispondete. Io sto chiacchierando, infatti!
Sarà una giornata avventurosa. Non so cosa devo fare, cosa mi devo portare dietro, se la tesi o soltanto le slide, e il computer che non si sa bene se potrò accendere. Madre mi ha chiesto se devo portarmi la Carta d’Identità, a me prima è venuto da ridere, poi ci ho pensato su e mi è venuto pure il dubbio. Non conosco il rituale. Questo fa dell’essere il primo dei laureandi un dramma dalle potenzialità suicide probabilissime. Io sono bravissimo a fare quello che fanno gli altri. In questo caso consiglio agli altri di non fare quello che farò io. E non ho capito bene nemmeno l’aula, di aule 1.6 ce ne sono due. Questo succede nelle città dove arriva un terremoto forte, le cose che funzionavano non funzionano più, vengono costruite alternative alle quali si dà lo stesso nome, e poi ristrutturate e rimesse in moto le originali. E ora esistono due 1.6, in due luoghi sensibilmente lontani, però.
E sarà una giornata di festa, passata per intero con le persone più importanti della mia vita, come non ci capita spesso in questa vita degli adulti in cui abbiamo dovuto abituarci a stare bene lontani, ad accontentarci di sentirci quasi tutti i giorni e vederci poche volte l’anno. Capite che una giornata così è preziosa, poi metteteci che è il giorno della mia laurea…

Cose che dovremmo tenere bene a mente quando scriviamo: qual è il confine fra dire la verità e diffamare?

diffamazioneFino a che punto è lecito spingersi coi propri “pareri”?
Dov’è che finisce l’opinione e comincia l’insulto?
E quando questo diventa punibile?

Leggendo, scrivendo, vivendo quotidianamente la “rete letteraria” – ma sì, chiamiamola così – ho maturato la sensazione che chi si diletta a scrivere sul proprio blog, ma anche chi commenta il sito o il blog di qualcun altro, le domande su scritte (inclusa quella nel titolo) non se le sia mai poste nella vita. La convinzione di potersi esprimere in assoluta libertà, perché nella rete tutto è permesso, la fa da padrona, e il passo fino a ragionamenti selvaggi e offensivi è più breve di quanto si pensi.
Il social-opinionista si carica di un’onnipotenza immotivata che è lui stesso ad attribuirsi, e si convince di non essere soggetto a nessuna regolamentazione, a differenza dei giornalisti, per esempio. Le parole nella sua bocca, anzi sulla tastiera del computer – a voce e vis-à-vis non si azzarderebbe mai – si fanno armi capaci di causare piccoli o giganteschi disastri. E quindi:
a) Si dichiara un addetto ai lavori – lui sa sempre bene di cosa parla, qualunque sia l’ambito di discussione –  nonostante l’unico ambiente di “lavoro” che frequenta veramente dalla mattina alla sera sia la sua cameretta.
b) Rilascia pareri non richiesti sugli usi e i costumi di chi dice di conoscere pur non avendolo mai incontrato, né averci scambiato quattro parole direttamente.
c) Forse senza rendersene conto insinua e, in nome del sacrosanto diritto d’opinione, assolve o condanna. Insomma, giudica.
d) Infine completa l’opera con un clic pubblicando la sua menzogna che, di bacheca in bacheca e di tweet in tweet, si moltiplica fino talvolta a raggiungere i media nazionali e a rovinare nomi, immagini e carriere. Giustamente? (Nel caso di Valerio Scanu: Sì!) Ingiustamente? (Nel caso di Marco Carta: No!)
Scherzi a parte, vediamo di capirci qualcosa, io per primo.

Il fatto che tutti coloro che posseggono un computer e una connessione possano scrivere e divulgare su internet ciò che vogliono non significa che la rete sia una zona franca. Il nome, l’immagine, l’onore e la reputazione restano a tutti gli effetti diritti inviolabili, anche nella virtualità di internet. A tutelarli ci pensa l’articolo 595 del codice penale che, in sintesi, afferma: commette il reato di diffamazione chiunque, comunicando con più persone, offende la reputazione altrui. Detto così sembra chiarissimo, eppure ci sono alcune possibili interpretazioni inesatte nelle quali incorre il pensiero comune, e pure il mio, che ho sciolto informandomi. Mi è capitato di leggere e di sentire spesso che la verità non costituisce diffamazione. Non è così. La verità non costituisce diffamazione se espressa nei modi consoni.
Poniamo il caso che io sia incacchiato nero col signor Rocco Sfascione, meccanico che una ne aggiusta e cento ne rompe dal quale ho la certezza di essere stato appena raggirato, e decida di raccontare la vicenda sul mio blog. Posso farlo, fare il nome di Rocco e pure segnalare l’officina, ma non posso scrivere in preda alla rabbia che Rocco Sfascione è un pezzo di mierd e pure un brutto figlio di. E nemmeno una delle due soltanto. Sì, anche se probabilmente Rocco è entrambe le cose, proprio così. Quindi badate bene alle parole! Almeno voi che scrivete dovete essere in grado di utilizzarle efficacemente senza cadere nel facile tranello dell’insulto. La verità può essere utile a qualcuno che si trova o si troverà nella vostra stessa spiacevole situazione, fate benissimo a diffonderla, anzi dovete, ma rimanete nei ranghi verbali per rimanere nel giusto!
Abbiamo detto che il reato di diffamazione sussiste quando la comunicazione del messaggio arriva a più persone. Anche questa affermazione può generare interpretazioni imprecise. Infatti non significa che più persone devono aver letto le vostre simpatie. E che quindi io, sul mio blog che non legge nessuno, posso scriverci quello che mi pare perché: tanto fa 5 contatti l’anno. Proprio per niente. E’ sufficiente che la comunicazione di un determinato messaggio arrivi a più persone, indipendentemente dal fatto che quelle persone siano o meno effettivamente venute a contatto con le mie convinzioni su Rocco Sfascione. Conta che la montagna sia lì, meta visibile, non quanti “maometti” si siano messi in cammino per raggiungerla. E non conta nemmeno l’intenzione. Quindi non ve ne uscite poi con: Credimi, io non volevo offendere nessuno. Non avrei mai pensato che il tuo sensibile cuore… No, qui non si tratta di sensibilità, né di credere o no alla volontà di non ledere. Non è necessario che l’intenzione di chi dia luogo a quelle determinate espressioni sia necessariamente di offesa. E’ sufficiente che le parole adoperate siano socialmente interpretabili come offensive. Perciò, ancora una volta, attenzione alle parole! Le parole hanno un significato molto preciso che gli assegna un peso la cui interpretazione è insindacabile, e quindi su cui c’è poco da discutere.

Questo post non deve dissuadervi dal raccontare soprattutto le brutte esperienze. Anzi! La rete, oltre che un rapido mezzo per trasmettere le informazioni, dovrebbe intessere un intreccio di condivisioni umane affinché l’errore, l’ingenuità oppure il sopruso subito da qualcuno possa diventare il successo di qualcun altro.
A tal proposito vi segnalo l’ultimo articolo di Carolina Cutolo su Scrittori in Causa, un’altra di quelle piattaforme sacrosante e preziose per gli aspiranti autori. Carolina parte dalla vicenda di Linda Rando, blogger denunciata per diffamazione dall’editore 0111 e condannata in primo grado (ne ho parlato anch’io qui: Clic), per cercare di fare chiarezza sul rapporto verità/diffamazione. E’ un articolo utilissimo non soltanto per chi quotidianamente affida alla rete le proprie impressioni, ma anche per tutti coloro che nella vita si sono trovati almeno una volta a pensare che fosse meglio tacere l’ingiustizia piuttosto che raccontarla.
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Ho prelevato l’immagine in alto e qualche info più tecnica da Dot Florence.

Non deve esistere nessun “ormai”

C’è una cosa che a un certo momento della mia vita ho creduto che si sarebbe autoconsacrata come il mio best fallimento, il più doloroso dei rimpianti: la tesi. Avevo ventotto anni e poi ventinove e trenta, trentuno. Dicevo a tutti che ci stavo lavorando, che stavolta l’avrei fatto sul serio. Lo dicevo pure a me stesso: Dopo pranzo, da domani, da lunedì, dal mese prossimo, con la nuova stagione, da gennaio mi ci metterò d’impegno. Non era mai così;  finché queste balle, sempre più grandi e difficili da tenere nascoste, hanno cominciato a dar noia anche a me ed è crollato tutto silenziosamente. Non se n’è accorto nessuno che io mi trovavo sotto un cumulo di tristezza, e con questo non voglio prendermela con altri che con me stesso. Ho sempre avuto un talento speciale nel costruire sorrisi capaci di rassicurare le preoccupazioni degli altri: Va tutto benissimo, anzi, questo è un momento particolarmente positivo, devo dire. Preferivo mentire che metterci un po’ di volontà per capire se si vedeva un filo di luce e domandarmi se valesse la pena seguirne la direzione.
Una certezza pesante si era accomodata sullo stomaco. Aveva un ghigno che sembrava dire: Ormai non ce la farai più, ammettilo! Lascia perdere! Mica vorrai buttar via altro tempo a prendere in giro te stesso e gli altri? E io non me la sono mai sentita di contraddirlo. Era troppo facile continuare, andare avanti come se fra me e le responsabilità di uomo adulto vi fosse una rassicurante distanza siderale che non si accorciava mai. Quindi perché preoccuparmi?
Mi sono messo a lavorare prima in un supermercato e poi al McDonald’s. Scrivevo tutto il resto della giornata, presentavo i miei libri, conoscevo gente, ridevo, mentivo ed ero solo, schiacciato dal me stesso inconcludente che mi ricordava sempre che avevo un conto in sospeso che mi avrebbe precluso la felicità.

Un giorno di un anno fa mi sono guardato allo specchio e mi sono trovato orribile. Non per gli anni che si vedono e i capelli che non si vedono più, ma per quell’aria di rassegnazione nello sguardo che mi ha gelato. Erano davvero i miei occhi? Ero io quello? Il Matteo pieno di sogni, pieno di roba da fare, progetti da realizzare, città in cui andare a vivere, storie da raccontare? Che cosa stavo facendo fermo immobile ad aspettare? Ad aspettare cosa?
Ecco, quello è stato il momento in cui ho capito che il mio rimandare durato anni  non era altro che una dichiarazione di resa mascherata. Mi stavo arrendendo. Per la prima volta nella mia vita mollavo io. Dovevo ammetterlo, come diceva il ghigno, oppure strapparmi di dosso la ragnatela di sbagli e cambiare il naturale epilogo delle cose in un altro che fosse il mio di epilogo.
Mi sono aggrappato a quell’ormai che segnava il limite del tempo stabilito e delle mie possibilità. Quale limite? Non c’è nessun limite alle nostre possibilità. Dobbiamo ripetercelo e ricordarcelo ogni volta che siamo sul punto di mollare. No, mai. La laurea si allontanava e io la guardavo perdere i contorni. Finché ho iniziato a correre. C’è sempre un modo e un tempo per festeggiare. Mi sono licenziato, mi sono rimesso a studiare a 31 anni suonati e stonati. L’ho riacchiappata per il bavero della giacca. E’ stato un anno faticoso, con sul collo il fiato della paura di toppare pure stavolta, ma dentro e attorno raggi lucenti di cui avevo dimenticato l’abbaglio e il calore.

Ecco che volevo dirvi, che c’è una cosa bella che ho concluso in questo mese che sono mancato dal blog, proprio quella cosa che ormai pensavo che non avrei concluso mai: la tesi. L’ho consegnata in segreteria e la discuto fra quindici giorni. Mi sento avvolto da una nuvola e non è il fumo dell’ennesima caffettiera che ho appena portato a fusione. Non temete, Villa Madre è ancora salva e neanche stavolta c’è stato bisogno dei pompieri. E’ come se avessi trattenuto il respiro per dodici anni di errori e soltanto oggi avessi riassaporato il gusto dell’aria, con una certezza in più: che non deve esistere nessun “ormai”.
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L’immagine raffigura un ominide felice nell’atto di gettare consegnare la tesi appena stampata al bidone della spazzatura in segreteria. Devo pure dire che è stata scattata dal mio amico Franco, in arte Pisquontuit. Siamo così amici che ci ha tenuto a ricordarmi che quando si pubblica un’immagine va sempre indicata la fonte, altrimenti c’è il rischio che qualcuno, per esempio lui, mi denunci.