Ci vediamo domenica

Sono le 13, è ora di pranzo e fuori è notte. Piove da ieri, lampi e tuoni, e la temperatura è scesa in caduta libera. Come l’aereo che qualche giorno fa è finito in un vuoto d’aria, pure se i vuoti d’aria non esistono, e ha perso quota all’improvviso precipitando per 900 metri in 10 lunghissimi secondi. Avete idea di quanto possano essere lunghi 10 secondi? Io ho imparato la reale percezione del tempo drammatico col terremoto. E’ durato 30 secondi, almeno 100mila battiti di cuore concitato.
Immagino i passeggeri sbattuti sul soffitto dell’aereo che tentano di inviare sms ai loro cari per l’estremo saluto.  L’aereo ha ripreso quota. Il capitano ha rassicurato l’equipaggio:
– La situazione è sempre stata sotto controllo.
– Sì, certo. Mortacci tua! – gli avrei risposto.
Questa sgradevole esperienza ha risolto uno dei miei interrogativi più antichi. A che servono le cinture di sicurezza sull’aereo? A non essere sbalanzati sul soffitto, per esempio. Ecco a che servono. Per la cronaca, io sarei morto in seguito a un attacco cardiaco fra il secondo 3 e il secondo 5.
In queste settimane mi leggete un po’ meno perché sto lavorando al nuovo romanzo. Detto così sembra che l’abbia scritto in 15 giorni, e invece ci lavoro da 3 anni. Sono a buon punto della terza stesura, quella definitiva prima di proporlo alle case editrici.
E’ cambiato un sacco di volte seguendo il percorso altalenante della mia vita. Questo romanzo conta molto per me. Per com’è stato pensato, per le emozioni che mi ha fatto vivere già prima ancora di diventare un libro. Non so quando uscirà, né se uscirà. Però che uscirà lo sento. Non parlo soltanto di sensazioni di lettura, ma di esperienze concrete, incontri, roba di vita da film. Lasciamo perdere com’è andata a finire, e ricominciamo. Un giorno vi racconterò pure questa, che è bella (a seconda dei punti di vista).
L’aria fredda e l’assenza di luce non mi aiutano. Non appartengo alla specie, un po’ mitizzata secondo me, di quegli scrittori cupi che dichiarano di vivere il massimo momento di creatività quotidiana fra le 3 e le 6 del mattino. Poi fanno colazione con un calice di sangue fresco prelevato dal corpo agonizzante di una vergine dalla carnagione lattea, e si rimettono a dormire nella bara parcheggiata nella cripta segreta del castello. Proprio no.
La mia condizione ideale di scrittura è il mattino assolato. Quando apro la finestra e accolgo nella stanza refoli d’aria di una freschezza rigenerante. Nei giorni così vado a scrivere in giardino, sull’erba con la schiena appoggiata a un albero. Spero di poterlo fare pure la prossima primavera. Dico “spero” perché Madre pare seriamente intenzionata a far cavare tutti gli alberi della tenuta. Temo che, stanca del giardino e del giardiniere, voglia adibire quello spazio a campo da tennis professionale, e affittarlo. In tal caso mi ritroverei improvvisamente catapultato fra gli italiani fortunati, con un’attività e una fonte di reddito anch’io, ma dovrei cercarmi altri alberi sotto i quali poter scrivere.
Pensando a un luogo dove passare le stagioni fosche dell’anno per scrivere meglio, e cercandolo – voi non ci credete, ma io ci conto veramente di andarci a vivere, quindi lo cerco e nei casi peggiori mi compro una casa – mi sono imbattuto in Kos, un’isola greca appartenente all’arcipelago del Dodecaneso. Non la conoscevo, e invece scopro che è meta di valanghe di turisti ogni anno. Non ci sarà il sole e il calore per 365 giorni su 365, però ha il mare ed è un’isola. Due aspetti che mi chiamano con lo stesso canto ammaliatore delle sirene di Odisseo. Perciò non è detto che la prossima estate non decida di farmi le vacanze a Kos. Magari in 7 giorni partorisco 4 romanzi che le sfumature di grigio, rosso, e bianco (?) (oddio qual era l’altro colore? Non mi viene voglia neanche di cercarlo, scusate tanto!) son roba da pivellini.
Vi anticipo che ho pensato a una sorpresa pre-natalizia tutta per voi. Diciamo un regalino che grazie al prezioso lavoro di due validissime collaboratrici potrò farvi, sperando di contribuire così alla magia del vostro Natale. Ve ne parlerò nel prossimo post, ché i regali mica si fanno un mese prima!
Procedo con l’ultima chiamata per l’ultimo evento live dell’anno che mi riguarda. Abruzzo In Lettere ha studiato e realizzato una performance tutta dedicata a Una valigia tutta sbagliata, alla quale parteciperò anch’io in veste di autore “attore” (e poi dicono che i giovani artisti d’oggi non sono abbastanza completi). Indosserò un lupetto nero che mi sta malissimo. Lo faccio solo per la performance, ci tengo a dirlo. Domenica (2 dicembre) alle 18.30 al Circolo culturale L’Officina, in Piazza Dante a Giulianova. A fare da cornice l’arte pittorica di Marco Iacobelli. Fossi in voi verrei a riempire testa e cuore prima, e pancia poi, visto che a seguire c’è l’aperipizza.

Guardare i volti dei miei nonni a lungo

Al fioraio, fuori il grande cimitero de L’Aquila, abbiamo comprato soltanto una piantina di piccoli crisantemi gialli. Avremmo voluto prendere anche qualche margherita e qualche rosa colorata, ma Madre era certa di trovare i vasi accanto alle lapidi dei suoi genitori pieni di altri fiori. Temeva che non ci sarebbe stato posto per i suoi mazzolini.
– Con una piantina non sbaglio di certo, – ha detto.
A me i crisantemi piacciono molto, se non fosse per il nome che portano, che evoca morte, malinconia, disperazione. Però quelli erano diversi. Con i fiori piccoli piccoli e di un giallo che non c’entrava niente con sensazioni così cupe.
Ci siamo rimessi in viaggio verso Caporciano, a una mezz’oretta da L’Aquila. E’ il paese d’origine di Madre. Io al volante; Madre, al posto della passeggera, mi pregava in fa sovracuto di mantenere una distanza di sicurezza tale per cui, nella drammatica eventualità che l’automobile davanti inchiodasse, io avrei potuto scalare con estrema calma le marce, e portare l’autovettura ad arrestarsi come accompagnata da un vento di piume. Lunga vita ai freni! Secondogenita, dietro, ci illustrava molto orgogliosa l’andamento del suo lungo percorso interiore di “depiercizzazione” del viso. Trad: il processo che la porterà a liberarsi gradualmente di tutta la pesante ferraglia appesa a bocca, narici e orecchie. Non abbiamo capito se ha incluso anche le lance che le trapassano i lobi alle quali è particolarmente affezionata. Per quelle non promette niente.
Al cimitero del paese neanche un’automobile parcheggiata. Madre ha ripetuto ancora le storie dei seppelliti che s’incontrano prima di arrivare alle tombe dei nonni. Ce n’è una che le è rimasta a cuore e la racconta sempre con grande partecipazione, nonostante siano passati quasi quarant’anni dalla morte di questo bambino, investito da un camion mentre attraversava la strada. Lo conosceva e ora avrebbero avuto più o meno la stessa età. Quando siamo arrivati davanti alle lapidi dei nonni siamo rimasti in silenzio qualche istante. Non c’era nemmeno un fiore, fatta eccezione per un mazzolino di rose finte, rovinate nonostante la plastica. Ho appoggiato la piantina gialla a terra, ma non era abbastanza. Così ci siamo rimessi in macchina. Madre ricordava di un grosso negozio di fiori che si raggiunge da una strada secondaria e che raggruppa i paesi vicini. Abbiamo seguito i suoi ricordi fino a un cartello di legno con scritto FIORI.
– Io ho un terreno, ma non so più nemmeno qual è. Me ne hanno espropriato un pezzo per farci questa strada.
Quando siamo arrivati, il vivaio era chiuso. Sulla porta il cartello:
RIAPRIAMO ALLE 15.30, VI PREGHIAMO DI NON DARE DA MANGIARE AI GATTI!
Due gatti ciccioni dormivano su uno scaffale di metallo, al sole, e ne ho visto un altro nero che si grattava sotto un SUV. La tentazione di tornare a L’Aquila si scontrava con il pensiero delle lapidi vuote, con solo una piantina di piccoli crisantemi giallissimi. Così abbiamo deciso di cercare un posticino casereccio dove pranzare, e poi tornare al vivaio a prendere i fiori. Prima, abbiamo seguito un’indicazione verso un agriturismo che si è rivelato uno spettacolare casale, per carità, chiuso sbarrato, però. Poi mi sono ricordato che Anita, una mia ex-collega di lavoro, aveva aperto un paio di anni fa un bar/tabacchi/edicola/trattoria da quelle parti. Abbiamo mangiato bruschette al pomodoro, mezze maniche rucola e pomodorini io, risotto al radicchio con aggiunta di tartufo Secondogenita, e bistecchina di maiale Madre, con contorno di broccoli ripassati in padella e spinaci al burro. Mi ha fatto piacere rivedere Anita: i suoi modi carini e il sorriso, la gentilezza che si riserva a un amico, pure se non ci vediamo mai. Era tutto gustosissimo. Anzi andateci, si chiama Dolce e Salato e sta proprio ai piedi di San Pio delle Camere.
Alle 15 e 20 già c’erano un paio di macchine ferme ad aspettare l’apertura. Quando la signora Silvana ha aperto, ci ha accolto un altro gattone a pelo lungo che dormiva all’interno e si è dimostrato felice di ricevere carezze e grattini. Quando incontro un gatto coccolone non resisto. Siamo tornati al cimitero di Caporciano con un mazzolino di rose colorate e un altro di margherite arancio. Ho sciacquato i piccoli vasi di metallo e li ho riempiti di acqua gelida, presa dalla fontanella accanto al pesante cancello di ferro sempre accostato. I fiori avevano i gambi troppo lunghi. Li abbiamo spezzati e infilati nei vasetti, assieme a delle foglie verde scuro decorative e ai ramoscelli bianchi che la fioraia ci ha lasciato in regalo.
Sistemare i fiori con cura mi ha permesso di guardare i volti dei miei nonni a lungo, e tornare a vent’anni fa, nel loro salotto, la stanza più calda nei gelidi inverni aquilani, sulla poltrona di pelle bordeaux, davanti al camino.
Nei loro occhi in bianco e nero ci ho visto un infinito di amore. E poi dolcezza, protezione, domande, le mie, speranze, le mie, forza, quella che mi danno, preghiere, le mie, solitudine, la mia, vicinanza, la loro, fra loro e con me, sicurezza, quella che cerco, paura, quella che rifuggo, freddo e silenzio, in quel cimitero, buio, però insieme, e tutte le albe del mondo, ancora più insieme.
Amore.