Disoccupato. Ricomincio da capo nella mia nuova terza vita

Qualche settimana fa vi avevo accennato ai cambiamenti per sentirmi in vita, inteso come dentro la vita, nel suo pieno fluire. Non è per niente una sensazione scontata.
Il 2 settembre ho consegnato la mia lettera di dimissioni, e il 22 settembre, cioè sabato scorso, è stato l’ultimo dei 20 giorni di preavviso. Sono stato assunto in data 16 novembre 2007; 4 anni, 10 mesi e 6 giorni di onorato servizio in un fast-food aquilano. Ultimamente mi capita di dire disonorato. E’  un termine un po’ forte, ma ci sta. Per com’è andata a finire, per com’è sembrato a me, almeno. Metto sulla bilancia il piatto carico di ciò che ho dato, sull’altro ci appoggio le ricompense ricevute in questi anni faticosi, incluso l’ultimo inaspettato No. Faccio quello che si fa di solito alla fine di un percorso: il bilancio con la bilancia, che stavolta pende dalla parte di una profonda delusione.
Qualcuno mi leggerà e, da bravo cane cercatore di tartufi, indicherà ai miei ex-superiori questo articolo provocando rabbia e offesa, come già è capitato. Peccato, perché io davvero non ho quest’intenzione. L’offesa come forma di difesa va per la maggiore quando si è a corto di argomentazioni. Le mie argomentazioni sono le esperienze, il lavoro, le sensazioni che io voglio condividere con voi. Per farlo devo essere sincero, altrimenti che scriverei a fare? E la sincerità presuppone verità che possono ferire, certo meno dei comportamenti. Bisognerebbe stare attenti ai propri comportamenti, se non si vuole ricevere parole di verità taglienti per bocca di una persona ferita. Bisognerebbe stare attenti a non ferire, insomma, prima che a dire: Le tue parole sono cattive.
A fine agosto ho chiesto un’aspettativa non retribuita per motivi di studio. Un periodo di sette mesi senza lavorare né percepire stipendio, per scrivere la tesi. Mi aspettavo un: Sì, Matteo, naturalmente! col sorriso. Invece non mi è stata concessa. Il perché, nonostante le molteplici spiegazioni chieste e volute riascoltare, io non l’ho capito.
Come tutti voi saprete, perché son cose che si sanno e, se non si sanno, è facile reperirle in rete o dal proprio sindacato di fiducia, l’aspettativa non retribuita è una sospensione totale del contratto. Totale significa proprio totale, altrimenti non si direbbe totale, ma, che so, parziale. E’ una consapevole rinuncia allo stipendio, ma anche ai contributi, alle ferie e ai permessi che per tutto il periodo dell’aspettativa non vengono maturati. In soldoni, chi si mette in aspettativa non retribuita sa che conserverà esclusivamente il posto di lavoro, nient’altro, e costa all’azienda circa 0 (zero) centesimi. E’ un diritto del lavoratore chiederla, ma resta facoltà dell’azienda accettarla. Facoltà che è più una formalità di solito, non dove lavoravo io.
Qual è l’unico problema che può creare chi chiede un’aspettativa non retribuita? Be’, tutto sta nella gravità dell’assenza. Faccio un esempio. Mettiamo il caso che io sia l’unico in un’azienda in grado di utilizzare un complicato programma al computer che regola il rilascio di bombe atomiche, e che chieda un’aspettativa non retribuita. Capite bene che non si può fare a meno della mia persona così su due piedi, se non si vuole scatenare una guerra mondiale aerosilurante. In tal caso comprenderei il No, almeno per il tempo necessario a formare un altro dipendente perché possa adempiere alla mia delicatissima mansione senza provocare la fine del mondo. Ma io lavoravo in un fast-food, mica all’Aeronautica Militare, e quello che facevo erano panini e patatine, cioè quello che fanno tutti i dipendenti della medesima catena, mediamente più di 30, eseguendo procedure meccaniche che si apprendono in pochi giorni. La motivazione del problema aziendale che avrebbe creato la mia sostituzione m’è parsa e continua ad apparirmi ridicola. Si tratta di un contesto in cui c’è un continuo uscire ed entrare di risorse umane. Vuoi perché scadono i contratti e molti non vengono rinnovati, vuoi perché qualcuno se ne va, ehm ehm. Insomma, una realtà abituata ad assumere personale nuovo e a formarlo velocemente.
All’Ispettorato del Lavoro hanno voluto sapere i motivi delle mie dimissioni. La Fornero ci tiene tanto, perciò ha riformato il sistema. Non è più sufficiente una letterina veloce veloce, ma bisogna recarsi all’Ispettorato del Lavoro per convalidare le dimissioni davanti a un addetto, l’ispettore, che vuole e deve accertarsi della reale volontarietà delle stesse. Mi hanno detto che, nel mio specifico caso, considerato l’ambiente di lavoro e le mie mansioni, il rifiuto dell’aspettativa è una chiara presa di posizione nei miei confronti. Hanno detto anche altre cose che eviterei, perché a me le parolacce piace dirle, ma non ripeterle.
Perciò mi sono licenziato, e oggi ho cominciato la tesi.
Dovrò fare a meno delle abitudini, cercando di costruire giorno dopo giorno. Sarà un tempo complicato pure perché al cambiamento che ho scelto se n’è sommato un altro che ho subito. Quando si dice: Mi è mancata la terra sotto i piedi. Sì, il mio sostegno. Col senno di poi ho capito cos’è la serenità, a cosa corrisponde in termini di sensazioni fisiche, ora che al posto del cuore ho un enorme buco nero che risucchia anche l’ossigeno e mi fa mancare il respiro. Devo ripartire, e sono già ripartito da qui: le abitudini, tutte, a 0. E dopo lo 0 viene l’1.

[Madre Trans]

Si avvicina con passo contrito e testa semichina sul cotto tirato a lucido di Villa Madre.
– Mi sento così triste, depressa, per il giardino che sta diventando una distesa di fango e merda di cani. Non sono andata neanche a fare la visita che avevo questa mattina. Puoi chiamare il numero verde e rinviarla al primo giorno utile?
– Certo. Mi dai il foglio con i vari dati?
– Eccolo qui – risponde col braccio teso, continuando a guardare il pavimento. Io vado in camera, compongo il numero, intanto leggo. E leggo: ECOGRAFIA TRANSVAGINALE.
– Buon giorno ospedale, dicaaa?!
Oddio, ha risposto già?! Neanche il tempo di… metabolizzare.
– Ehm sì, buon giorno! Dovrei rinviare una visita medica.
– Che visita?
– Un’ecografia transvaginale.
– …
– … …
Credetemi, mai come in quel lungo silenzio che ha fatto seguito ho desiderato con ardore una morte rapida e indolore.

Dove c’è Il Gorilla c’è casa

Di ritorno dall’incontro con Francesca Bertuzzi, c’ho tutta una friccicheria addosso che mi accingo a riversare su queste pagine. Vi aspettavo al varco, maliziosi porcini che non siete altro. Mi spiace deludervi, ma no, non è l’incontro che pensate voi. Si è trattato di un’unione d’anime e parole attorno a La Paura.
Ero già stato a Orte per la presentazione di Una Valigia Tutta Sbagliata, ricordate? Quella fu l’occasione prima di rischiare la vita in autostrada, con la spia dell’olio che decise di emettere una rossa luminescenza esattamente a metà del tragitto, sulla Firenze-Napoli, e neanche un autogrill all’orizzonte; e poi di dichiarare tutto il mio amore a questo paesello incantato di 9mila abitanti; a Giuseppe e Stefania, librai che come loro non ne ho ancora beccati, e alla piccola libreria Il Gorilla e l’Alligatore, che quanto mi piace, quanto la vorrei. Attenti ché, in uno dei miei molteplici minuti di instabilità mentale, potrei organizzare una spedizione colpo di stato e conquistarla, cambiare la serratura e, dopo 25 anni, possederla legalmente per usucapione.
Non conoscevo di persona Francesca, eppure sono bastati pochi minuti di chiacchiere pre-evento perché si instaurasse fin da subito la giusta sintonia. Eravamo tranquilli, come se dovessimo fermarci a un caffè, e parlare del più e del meno, di come ci vanno le cose, dei nostri libri, mica presentare il suo bestseller davanti a tanto pubblico entusiasta. Insomma, è andata benissimo. Ogni risposta mi dava spunto per altre dieci domande. Siamo andati oltre i suoi libri, scavando nei meccanismi dell’editoria. Fino ad Amazon, al self-publishing, tornando poi a Giuditta e Veronica, le protagoniste de La Paura, al legame che si instaura con la piccola Emma, al senso di soffocamento che permea il romanzo e il lettore, fino alle ultime commoventi pagine. Le letture di Giuseppe sono state efficaci e dense di emozioni, sarà stata l’ansia da prestazione per lo spettacolo teatrale del quale sarebbe stato protagonista qualche ora dopo. Avete mai conosciuto un direttore di banca\libraio\attore teatrale? Io sì.
Quello che m’interessava era far emergere il talento e la personalità di Francesca Bertuzzi, con alle spalle già due romanzi di successo pubblicati da Newton e un terzo al quale sta lavorando. E fare bella figura io, ci mancherebbe pure. Quando un signore si è avvicinato e ci ha detto: Sono un professore di Fisica, e sono terribilmente affascinato dal modo in cui riuscite a trasmettere le emozioni, sconosciuto a me che vivo di formule e numeri. E’ bello vedere due ragazzi giovani come voi e con una così grande cultura, io mi sono voltato a vedere se ce l’aveva con qualcuno alle mie spalle.
Ringrazio Francesca, autrice riconosciuta, gentile, sorridente, complice di una chiacchierata che non sarebbe mai venuta così bene, se lei non fosse stata esattamente così com’è. Giuseppe e Stefania per avermi voluto intervistatore dell’evento. Orte, per averci ospitato nel meraviglioso giardino di piazza Colonna, che le foto non rendono il quantitativo di bellezza presente. Per motivi di spazio, ne ho pubblicate soltanto tre. Sulla mia pagina Facebook, se volete, ne trovate tante altre e, sempre se volete, potete pigiare su Mi Piace, tanto per diventare un po’ più interattivi. Grazie tantissimo pure al bel pubblico che ci ha riempito di complimenti, poi. Tanto entusiasmo non me l’aspettavo, e quindi lacrimuccia.
Chiudo questo post con un messaggio d’incoraggiamento che Francesca mi ha lasciato in un’intervista, e che ha voluto ripetere al pubblico di Orte, fatto anche di giovani spaventati dalle difficoltà del futuro.

Per quello che ho potuto vedere, lungo la strada si possono incontrare sbarramenti, persone che hanno un certo potere e che decidono di non farci andare avanti. Quando ci si trova all’angolo, bisogna ricordarsi che queste persone sicuramente un potere ce l’hanno, ma è solo quello che noi decidiamo di dare loro. A volte può bastare cercare un’alternativa per trovarla.

La Paura, l’occasione per una chiacchierata con la rivelazione del thriller italiano

Ho letto, non oso dire divorato viste le tematiche, i due romanzi di Francesca Bertuzzi, Il Carnefice e La Paura, entrambi pubblicati da Newton Compton. L’occasione di presentarla, il 7 settembre a Orte, che sarebbe venerdì – forza, segnate sul calendario del vostro smartphone di ultimissima generazione! – ha aiutato i miei gusti ad avvicinarsi a un genere verso il quale non ho mai provato troppo fascino, il thriller. Se qualcuno mi avesse detto che un’autrice italiana, e di origini abruzzesi, poco più che trentenne, mi avrebbe entusiasmato attraverso storie noir, bagnate di sangue, vite sospese sull’orlo del precipizio, con uno stile veloce, secco, un continuo invito a voltare pagina, fino fermarmi a bocca aperta sull’ultima riga e una lacrimuccia, avrei risposto: Dài, non scherziamo! Questa è roba da John Grisham, Michael Konnelly. Maschi e americani, insomma.
Francesca Bertuzzi mi ha incuriosito fin da subito, da quando cioè il suo Carnefice, l’anno scorso, è balzato in testa alle vendite. Per un maniaco delle classifiche come me, un fenomeno simile non poteva passare inosservato. Così l’ho contattata e intervistata, in tempi non sospetti, per Sololibri.net (clicca qui).
Il difficile per gli scrittori, ma potremmo dire per gli artisti in generale, non è tanto fare successo, quanto confermarsi. Forse è proprio per questo che autore ed editore, reduci da un esordio folgorante, di solito preferiscono lasciar passare qualche tempo prima di uscire con un’opera nuova. Il caso di Francesca Bertuzzi è l’eccezione che conferma la regola. La Paura esce esattamente un anno dopo Il Carnefice, quindi prestissimo e, opinione personale, è persino più bello del primo, anche perché molto diverso. L’autrice dimostra che cambiare le regole del thriller canonico è possibile. I colpi di scena cinematografici delle ultime pagine del Carnefice lasciano il posto a una storia di gente comune, che arriva al lettore in tutta la propria carica emotiva, e alla quale è impossibile non affezionarsi. L’autrice porta sulla carta uomini e soprattutto donne, attori e attrici di vite insoddisfacenti che, tutto a un tratto, si ritrovano nel vortice di un ciclone terribile, costrette a diventare eroi in un thriller anche un po’ sentimentale. Se qualcuno ha storto il naso, io sono stato piacevolmente sorpreso dall’attenzione che Francesca dedica alla caratterizzazione dei personaggi, che fa dei protagonisti persone che ti coinvolgono nei loro guai, con la stessa potenza della realtà.
Quella che all’inizio sembra dover essere la storia di due ragazze che non si conoscono, Giuditta e Veronica, e di una bevuta in una notte drammatica, diventa la storia di una delle due soltanto, Giud, e di una promessa che Veronica riesce a strapparle prima di morire, per mano di un sadico che le ha stordite e legate in un capanno isolato, l’una di fronte all’altra. Veronica muore, Giud riesce a liberarsi e a raggiungere, grazie all’aiuto di Gio, incontrato per caso, l’indirizzo che Veronica era riuscita a sussurrarle. Ci trova una bimba di cinque anni, Emma, e un borsone con 50mila euro in contanti. Giud sa che Emma, che non sembra aver avuti altri che sua madre accanto, ora è in grande pericolo. La vita di Giuditta prende una piega inaspettata. In Emma e Gio sembra ritrovare nuovo vigore verso la ricerca di quella felicità alla quale ormai aveva rinunciato. La volontà di rispettare una promessa silenziosa e l’affetto per Emma la spingono a far luce sull’accaduto. Giud finisce per credere di non avere nulla in comune con Veronica, e che la sua cattura è stata solo il frutto di una sfortunata coincidenza; che si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Invece non sa che qualcuno le ha rapite per un motivo preciso, e che i suoi intenti malati non si erano affatto esauriti con l’uccisione di Veronica.
La paura si fa ansia, mancanza di fiato, apnea, istanti decisivi in cui scegliere una strada costa caro, errori dovuti al bene, legami dolorosi segnati da un passato torbido che, pagina dopo pagina, viene a galla.
Ho un sacco di domande per l’autrice, e non vedo l’ora che arrivi venerdì per intervistarla davanti al caloroso pubblico dell’Ottava Medievale. L’appuntamento è per venerdì alle 17, presso il Giardino di Piazza Colonna, Orte. Ringrazio Giuseppe e Stefania della libreria Il Gorilla e l’Alligatore per avermi voluto intervistatore dell’evento, che trovate anche su Facebook. Come al solito, ve lo ricorderò quasi fuori tempo massimo. Se potete, siateci!