[Madre e i gatti-tigre]

Madre odia i topi e tutte le creature di qualunque specie, colore – non parliamo delle dimensioni – ad essi riconducibili, e quindi agisce di conseguenza e senza lasciare prove, come ha imparato da anni di fedele spettatrice di Quarto Grado, Chi l’ha visto? e Amori Criminali. Fra le stanze di Villa Madre aleggia ancora il mistero per l’inspiegabile morte del criceto, donato alla secondogenita per festeggiare il primo dentino caduto. Tutti i genitori convincono i figli della generosità dei topi, che elargirebbero soldini e gomme da masticare in cambio di denti da latte; Madre le ha fatto ingabbiare direttamente l’animale, ma non è un incontro a lieto fine il loro. Infatti la piccola secondogenita, dopo un iniziale prevedibile entusiasmo, che si manifestava in abbracci particolarmente passionali e gare alle macchinine da scontro, nelle quali il topo impersonificava la parte della macchinina, se n’è stancata, e della bestiola ha dovuto occuparsene il primogenito sotto l’occhio vigile di Madre. Finché  non è accaduto il fattaccio. L’umore di Madre si faceva più irrequieto col passare dei giorni per colpa del fastidio che le dava il cigolio della rotella che il roditore, evidentemente dedito alla vita sana (in trappola sì, ma di corsa), manteneva in perenne movimento; non tanto da sveglia, quanto in veste di dormiente continuamente destata da quel ti-tiii di ingranaggi. Ebbene, il criceto è stato ritrovato senza vita una mattina di novembre di 24 anni fa. Non posso rilasciare ulteriori dichiarazioni, nonostante io sappia molto più di quanto sembri. C’è un particolare che ha insospettito il medico legale: la vaschetta dell’acqua, secca e ricoperta di uno strato di calcare, emanava sensazioni di dimenticanza. Se a tutte le altre donne del mondo è sufficiente percepire appena lo squittio in lontananza per arrampicarsi sulla sedia più vicina e mettersi a urlare come una sirena d’ambulanza, Madre la sedia più vicina l’afferra come una mazza da baseball e dà vita a una spietata caccia al ratto per tutta Villa Madre. La maledetta belva di Satanasso, come la chiama lei, riesce sempre a cavarsela, invece Madre si ritrova, affannata e con in mano un pugno di mosche, a dover riordinare Villa Madre messa a soqquadro dalla guerra in cui tutto è permesso, pure ribaltare il nuovo divano ad angolo Chateau d’Ax verde smeraldo sul quale nessun appartenente al ceppo sanguigno di Madre può rilassare le sue membra neppure per un attimo, se no si sgualcisce; le gambe pesanti si curano, una piega sul divano no. I continui fallimenti di trappole per topi e spicchi di formaggio avvelenati con polveri di creazione madrina, ai quali il fognante non si sarebbe avvicinato neppure se preventivamente ipnotizzato da Giucas Casella, avrebbero sconfortato chiunque, ma non Madre, che ha deciso di rivolgersi a un’equipe di esperti, da secoli alla ricerca di tecniche sempre più infallibili per stanare il nemico, e ha dato a me il compito di contattarli: Voglio almeno 2 gatti, ma non comuni gatti. Gatti-tigre! Sarà fatto! Dopo settimane a valutare annunci nella sezione regalasi a solo amanti gatti; a strappare numeri di telefono dai biglietti affissi nelle bacheche universitarie, all’ospedale, sulla porta del veterinario, pure nel cesso del cinema; a guardare fotografie su internet messe da chi ha urgenza di sbarazzarsi di intere cucciolate di felini; numerosi appuntamenti e casting, nei quali Madre era unica e insindacabile giudice e io suo non-ascoltato consigliere, è arrivato quello decisivo, in una rustica villa di periferia che Madre ha dimostrato di invidiare elencandone una interminabile lista di difetti: il giardino è poco curato, i mattoncini esterni sono di un colore che sbatte, il cancello è arrugginito, l’aria puzza… finché non ci hanno raggiunto i 2 amabili padroni ansiosi di presentarci i gattini definiamoli vivaci. L’uomo e la donna, anziani solo all’apparenza, ci hanno descritto le belvette come 2 tesori un po’ inselvatichiti, nel tentativo di far passare inosservata la loro aggressività. Madre l’ha colta e l’ha amata: Li prendiamo! La cattura è durata poco meno di ore 3. L’uno, marroncino e bianco con la punta delle orecchie nera, si è aggrappato alla faccia della donna che tentava di ficcarlo nel trasportino, e l’ha decorata con gli artigli; l’altro, classico grigio tigrato, ma non classica docilità europea, si è arrampicato sulla quercia, ma l’uomo non era da meno. L’ha afferrato per la coda e quello ha dapprima finto di cedere la presa, e poi si è accanito contro il vecchio padrone completando l’opera del fratellino. Se a qualcuno fosse venuto in mente di affiancare le immagini delle due facce violate, avrebbe intravisto una Gioconda coi baffi. La conclusione della storia vi lascerà l’amaro in bocca, ma la mia sincerità mi impedisce di modificare il reale svolgimento degli eventi. Giunti in Villa, prima di liberarli, Madre ha preparato al meglio il loro habitat: 2 scodelline di crocchette; 2 con del latte appena munto appartenente alla madre-mucca; un’enorme cesta riccamente decorata di fiocchetti rossi e blu come i colori dell’Aquila; una vasca di ceramica con ghirigori giapponesi della scuola del ceramista Shimaoka Tatsuzo, contenente sabbietta per defecare mescolata a pregiati cristalli cattura-odore; un largo e basso vaso, nel quale Madre ha fatto coltivare dal giardiniere di Villa una piantagione di Nepeta Cataria, conosciuta comunemente con il nome di erba gatta. I 2 mici-tigre, annusandone le foglioline, non sapranno resistere alla tentazione di masticarla e fare a Madre le fusa, pensavamo. Posiziono il trasportino in direzione del grazioso angolo; apro la gabbietta e già un sorriso ci colora il viso al pensiero di quanto bene staranno i nuovi arrivati a Villa Madre, che sbucano fuori come missili, travolgono le ciotole, sbattono sul cestino e lo capovolgono, e prendono a correre verso la siepe che divide Villa Madre dai vicini, la oltrepassano e, in un lasso di tempo durato pochi istanti, spariscono all’orizzonte. Da allora non li abbiamo più rivisiti.

Il coraggio dell’inesistenza del destino

Quando vedo lampeggiare un numero con prefisso metropolitano vengo attraversato da un brivido eccitato all’idea di chi potrebbe essere, e non serve che vi specifichi che (quasi) mai è. Mi succede con lo 06, ma più con lo 02, ché Milano, editorialmente parlando, ha quel certo non so che. Terrò sempre a mente il rumore del balzo che ha fatto il cuore quando la signorina al telefono si è qualificata così: Sono Francesca di Feltrinelli. Vorremmo incontrarla. Erano i giorni del terremoto, e io non avevo la minima idea di dove avrei passato il resto della mia vita, né di come: se a scrivere ancora, o alla ricerca di un’attività che mi garantisse sicurezze. Quella che sarebbe dovuta essere la mia casa editrice, un paio di settimane prima dell’uscita di Supermarket24 (per fortuna non dopo), decide di chiudere i battenti, perché in Italia non si legge, perché le cose non andavano come sperato e altre motivazioni simili per niente originali. Di colpo la botta di non ritrovarsi una destinazione né un punto di partenza, dopo il terremoto, né più un editore, dopo aver lavorato a Supermarket24 per 2 anni. Pensate al Ciak si gira! innescato dalla parola Feltrinelli nella mia testa. La favola del ragazzo, pescato dal gancio in mezzo al cielo direttamente fra le macerie che, dopo anni e anni di fatica, porte sbattute in faccia (questa è l’espressione più abusata nel settore degli aspiranti qualcuno), riceve una telefonata dalla Feltrinelli, che lo pubblica e gli fa vendere 24 milioni di copie. La mente genera le immagini di cui ha bisogno; se non può viverle attraverso le esperienze, lo fa attraverso l’immaginazione. Quante cose si possono pensare in pochi istanti al telefono prima di rispondere: Va bene, con piacere! E sentirsi poi raffreddare tutti gli entusiasmi così: La chiamo dalla sede di Milano, ufficio del personale, per il curriculum che ha lasciato alla libreria Feltrinelli International in via Cavour a Firenze. L’avevo lasciato nel mio camminare, convinto che cambiare strada fosse non dico facile, ma possibile, in una città che racchiudeva tutti i miei desideri. Conservavo una speranza nella disperazione. Al primo colloquio ne è seguito un secondo, e poi la proposta: un part-time alla Feltrinelli che avrebbero dovuto aprire di lì a qualche mese a Prato. Io mi sono fatto facili conti e ho dedotto che con un part-time non ce l’avrei fatta, e l’ho detto al signore con la cravatta azzurra. Come se la vita procedesse sull’unico binario di logiche materiali, calcoli di quanto serve a fare cosa. Quando ho capito che avevo appena sputato su un sogno avrei voluto riparlare con lui, che al colloquio continuava a domandarmi: E’ certo di voler lasciare questa possibilità? Non riuscivo a oltrepassare il limite che vedevo in quei pochi soldi mensili, per tuffarmi finalmente in un lavoro bellissimo, per circondarmi di libri da mattina a sera, a un quarto d’ora di treno dai miei migliori amici. L’impatto con la consapevolezza corrisponde al momento del secondo errore, ma di questo non me ne faccio una gran colpa. Avevo perso tutti i numeri e, al posto di fare 200 telefonate pur di ripropormi, mi sono convinto che, quando il treno passa, è passato per sempre. La visione destinale, che ha fatto da sfondo a tutte le decisioni prese nei miei primi trent’anni, era riuscita a condizionare pure quella. Come se ogni passo andasse per conto suo e non mio, tanto poi si arriva lì, comunque. Non è vero. Non si arriva da nessuna parte se non vuoi andarci veramente e, se non dimostri di volerci arrivare, devi sapere che non correrai il rischio di perdere nulla, certo, ma neppure di guadagnare felicità. Io non ho corso il rischio, non ho perso nulla di questa immobilità paludosa, e non ho guadagnato un solo istante di felicità. Quel che di buono è accaduto è che questi anni hanno cambiato le mie credenze. Faccio Sì-Sì col capo mentre lo scrivo. Hanno ridato centralità alla volontà, alla fatica, ai meriti, all’insistenza, togliendola al potere delle casualità, delle coincidenze, della buona sorte come unica fautrice di destini stellari. Credo di più nella salita di uno scalino alla volta, e non di 5 in un solo balzo. Credo nelle pause fra una rampa e l’altra, e credo sia utile anche tornare indietro qualche volta, per andare avanti poi. Continuo a pentirmi di quella decisione, che è un rimorso e non un rimpianto, come tutte le scelte sbagliate, al contrario delle non-scelte. Però ora ho un bagaglio arricchito da una credenza popolare sottratta: il coraggio dell’inesistenza del destino.

L’eleganza del Moccio

Mentre imbevevo di grandi lacrime l’ultima pagina de L’eleganza del riccio, mi sono ricreduto sull’impressione che le cose, sul finale, stessero procedendo un po’ troppo in fretta. Più che un’osservazione critica, la mia si è rivelata una forma di dispiacere simile a quello che si prova durante il viaggio di ritorno verso casa da una vacanza bellissima. Fin dal primo momento sei consapevole della brevità dell’esperienza, che nasce proprio come momento di divagazione per spezzare il quotidiano a te destinato. Sai che finirà, e non può sorprenderti l’arrivo repentino del termine ultimo, l’istante in cui metti piede in macchina, chiudi lo sportello e saluti sorridendo dal finestrino coloro i quali non conoscevi e che vorresti frequentare indefinitamente per tutto quello che hanno saputo depositare nel tuo terreno fertile. Così mi sono sentito quando ho chiuso L’eleganza del riccio, per non poter più rivedere la portinaia Renée Michel e la piccola Paloma; dover lasciare il maestoso palazzo al numero 7 di rue Grenelle – Parigi, con le famiglie facoltose che lo abitano e le comprensibili superficialità di cui Renée non ha nessuna voglia di farsi carico. Per fortuna ero solo a piangere, accovacciato dove ci si accovaccia in bagno, nel mio sacro primo momento di lettura mattutina. A vedere un quasi trentunenne piangere, come un adolescente ai titoli di coda dell’ultima puntata di Dowson’s Creek, non è che ci si senta proprio in mano a una salda gioventù. Non mi capita spesso di commuovermi per un libro, più per un documentario, per dire. Ricordo benissimo l’elefantessa partoriente su Rete4. Non ci riusciva, alla ricerca della giusta posizione fra lamenti di dolore, e un’elefantessa che si lamenta non emette esattamente il cinguettio di un fringuello. Finché ce l’ha fatta. L’applaudivo, steso sul letto a pangia in giù e, con la bocca impastata di bava emozionale, esclamavo: Che bello! La commozione non è indispensabile per decidere una buona storia, come non è intento di tutti i bravi autori provocare la discesa di una lacrimuccia dagli occhi del lettore. Certo che, quando capita così come è capitato a me, non può che essere figlia di un coinvolgimento fisico e mentale, e questa sì che è un’ottima variabile decisionale. Per scegliere se acquistare oppure no un libro, che ha già venduto tanto in mezzo mondo, cerco sempre di rispondere a un interrogativo che mi autopongo, spesso pure ad alta voce: Come mai, secondo te, sta piacendo a così tanta gente? Che tipo di lettori sono costoro che lo amano? Sono o potrebbero essere inclini a te (me), oppure proprio no? Faccio un esempio partendo da una premessa rischiosa: Federico Moccia è uno che vende molto. Vi prego, andate alla ricerca dell’aspetto costruttivo guardando oltre, leggendo fra le righe; non limitatevi all’insulto intrinseco nell’esempio stesso, che vi rassicuro c’è, però c’è anche dell’altro insomma. La domanda che mi autopongo in libreria è: Cosa abbiamo in comune io e i lettori dei libri di Moccia? Si potrebbe rispondere frettolosamente: Niente! marcando il punto esclamativo fino a strappare il foglio, ma vi assicuro che non è così semplice. Ogni risposta va motivata attraverso documenti inconfutabili o almeno una serie di indizi utili, altrimenti rimane soltanto un’opinione che non può assicurarmi che, sempre per esempio, io non sia il lettore ideale dei libri di Moccia. (Aaahhh dolore!) Così mi metto alla ricerca delle mie risposte che trovo nei suoi lettori e lettrici entusiasti, perché è con quelli che devo confrontarmi per capire se potrò essere uno di loro, e quindi se vale la pena, per me, acquistare un libro di Moccia. Li studio sui social network, leggo i commenti lasciati sotto alle schede nelle librerie virtuali e, signori, no. Io non sono così. Non potrei mai essere amico di una che, per scrivere perché, utilizza 2 caratteri soltanto, contando pure l’apostrofo dopo la X, oppure di uno che aggredisce i detrattori esordendo con: Voi non capite gnente dei giovani che racconta Federico. Ma gnente scritto proprio gnente. Questa indagine non vuole stabilire se Moccia è la voce più talentuosa della narrativa moderna o un disadattato arricchito col cappellino, ma dà a me la certezza che le sue opere non toccherebbero le mie corde, non nutrirebbero la mia fame (ma riscalderebbero il salotto di Villa Madre forse più del pellet ecologico che alimenta la stufa).
A questo punto dico che vorrei diventare amico di quanti più lettori possibili de L’eleganza del riccio. Coloro che hanno invidiato l’abilità di Renée nel celare la sua vera natura: la cultura, gli interessi e la grandezza interiore che per nulla si confà all’immagine di una portinaia, l’ultima della scala sociale per chi continua a darle compiti, ma non fa un solo tentativo per riuscire a vederla davvero. Coloro che hanno amato Paloma, sorprendendosi di imparare tanto da una ragazzina con istinti suicidi e incendiari, che non riesce proprio ad apprezzare la vita perché in gabbia, lei che si riscopre così simile a Renée. Coloro che hanno capito subito che il nome del gatto Lev era ispirato al grande Tolstoj, e si sono emozionati perché Anna Karenina resterà sempre uno dei più bei romanzi che abbiano mai letto. Coloro che sanno cos’è una pioggia d’estate, che colpisce e non risparmia niente, e l’hanno saputa superare e pure apprezzare perché li ha cambiati e in meglio. Beh, sarebbe bello essere amici.

Dal letame nascono i fiori

2 giorni consecutivi di riposo dal lavoro fanno parte di un disegno cosmico che trova realizzazione ogni 6 settimane, quando Venere entra in trigono penetrante con Marte. Dalla loro unione nascono tanti satelliti su ognuno dei quali sta un fiocco rosa o azzurro a seconda del sesso dei piccolini. In questi 2 brevissimi giorni ho riscoperto il piacere che si prova a scrivere con la mente libera dai pensieri di stupide routine, riposata dalla fatica fisica e dalle discussioni con nemici e parenti, magari pure all’aria aperta del parco a perdita d’occhio che abbraccia Villa Madre, sotto un baobab secolare o un pino marittimo pendente e piangente. Se vivo, morto o X non è dato ancora saperlo. Non riapriamo la ferita se no Madre irrompe con violenza sulla scena e nel post, armata di falce, alla ricerca del latitante e fantasioso giardiniere che le consigliò i pini marittimi per abbellire la sua tenuta, in una città che si stabilizza sui -15 nelle notti da novembre a gennaio, e pronta ad accogliere la poetica rogna di un metro di neve in un unico giorno di febbraio che ha dato ai pini la mazzata finale. E’ stato un inverno speciale a L’Aquila, che ricorderò perché io quella neve tutta assieme non l’avevo vista mai. Me ne parlavano di questa incredibile nevicata del 1956, quando la gente passeggiava sui tetti e da lì si tuffava nel mare bianco alto più di 2 metri, come le Macine del Mulino Bianco fanno nel fiume di latte. Avete mai letto gli strazianti micro-racconti sulle confezioni dei biscotti? Quello delle Macine mi ha tagliato il cuore a metà. Finisce così:

E la Macina diede un’ultima occhiata al bianco fiume di latte sotto di sé, e si tuffò.

Poi non chiediamoci come mai il tasso dei suicidi fra i minori è in vertiginoso aumento.
Ho guardato le fotografie nella rete; ho immaginato quanto una nevicata possa aver trasformato il mondo conosciuto in un altro certamente più allegro, in mezzo a tanto stupore proveniente dal cielo. Ho visto la gente ridere, con gli abiti appesantiti dall’acqua, mentre scavava un varco per liberare la porta di casa; condividere modi e maniere domestiche di arrangiarsi per numerosi pranzi e cene senza poter fare la spesa, cedendo all’amico uova, scatolette di tonno o invitandosi a vicenda, con la promessa di un: A buon rendere! a quando ce ne sarà bisogno. Una calamità comune e condivisa è capace di legare più di un sentimento. Mi capita di pensare alla fortuna di essere nato e di crescere in un tempo e in uno spazio in continuo e talvolta brusco mutamento, nel quale si susseguono, inaspettati come una sberla in pieno viso, dolori che lasciano il posto alla riflessione e poi all’apprezzamento dell’emozione provata, quando a primavera un brillante sole vince sul freddo e torna la tanto attesa puzza di meXXa. Ecco, questo è il punto focale. I pochi allevatori rimasti nel circondario madrino di questi tempi usano il letame per concimare i loro terreni. E mica lo fanno a palate, no. Loro utilizzano delle elegantissime macchine spargiletame che percorrono le strade di campagna, ma anche le principali e, prima di arrivare ai fondi interessati dall’operazione, si perdono per la via tanti di quei residui di letame in pezzi grossi come blocchi di pietra che poi chi fa footing o i pensionati a passeggio – specie animale in via d’estinzione ormai, e Licia Colò stavolta non potrà far nulla per salvarla –  sbadatamente calpestano e, nei casi drammatici, scivolano e ci cadono sopra improfumandosi, come fanno i cani quando si rotolano sugli escrementi di qualche animale simpatico a pelo. Madre vive reclusa a Villa Madre e in costante apnea. Pure le maledizioni per le gomme della madre-car impastate di cacca le manda in apnea. In attesa di una copiosa pioggia purificatrice che non sembra voler arrivare, ci tappiamo il naso consolandoci con le parole di De Andrè, capace di trovare del buono e bello ovunque, e di cantare che dal letame nascono i fiori.

Presidente, faccia qualcosa per L’Aquila!

Ieri l’attuale Presidente del Consiglio (tecnico) Mario Monti, a una certa ora, è atterrato col suo Falcon 90 all’areoporto di Preturo, a 300 metri da Villa Madre, e io non lo sapevo. Non che debbano telefonarmi per informarmi degli spostamenti del monte Mario – se L’Aquila non va al monte, il Monti va a L’Aquila – però che nessun telegiornale nazionale dia la notizia fra le principali né le secondarie mi pare molto strano, tenuto conto della solerzia con la quale ci informano delle lacrime di quella – ah no, è solo un po’ di congiuntivite stavolta – e della paccata di miliardi di quell’altra, che è sempre la stessa. Monti viene a L’Aquila con la moglie Elsa e mezzo governo al seguito, e nessuno lo dice. Sarà mica colpa della parola L’Aquila, sulla quale aleggia il tacito divieto di pronunciarla davanti a una telecamera come crociera, Isola del Giglio, Costa Concordia, moldava, scoglio e scivolato-nella-scialuppa, se hai appena pescato la carta di Francesco Schettino in una serata in allegria passata a giocare a Taboo. A L’Aquila, soprattutto nelle settimane successive all’aprile di quasi 3 anni fa ormai, è venuta tanta di quella gente a portare parole di compassione che c’è mancato poco mi convincessi di vivere al Cottolengo di Torino, dove si narra che, oltre ai poveracci nati con inguardabili malformazioni, vi siano segregati, in cunicoli sotterranei, mostri ottenuti attraverso l’accoppiamento forzato fra donne e animali come cani e cavalli. Insomma tutti a piangere lacrime di gomma per la sventura capitata al forte e gentile popolo di pastori aquilani. Ogni volta pareva un funerale nuovo. Pure il Papa, con un impercettibile ritardo di un mese rispetto ai suoi colleghi George Clooney per l’America e Carla Bruni a rappresentare la Francia, candido come la colomba della pace, come la fumata di quel benedettissimo giorno dell’Habemus, come una sposa in posa davanti al ristorante; ha sollevato le mani per fare la magia; tutti hanno chinato il capo per beccare qualche effluvio miracoloso, ma nessun effetto sulle loro vite né tantomeno sulle loro morti, né ho ammirato qualche palazzo ricostruirsi per la sola forza dell’energia dell’amore papale; poi è tornato alle sue stremanti occupazioni quotidiane, per esempio il ribadire che i profilattici sono pericolosissimi. Sento che sto per partire con un pippone sul Papa racchiuso fra parentesi quadre che potete saltare se oggi vi siete fatti la comunione. Ormai è tardi per fare retromarcia e allora avanti tutta! [Mi capita di domandarmi: Ma a cosa serve costui? e poi mi domando pure: Quali differenze sussistono fra Benedetto XVI e la regina Elisabetta d’Inghilterra, tanto per nominarne un’altra di quelle? Se ci pensate hanno un sacco di cose in comune quei 2, a partire da quel loro saluto distante, gelido come il rapporto fra monarca e plebeo. Sarà una supponenza pure involontaria, per carità, però arriva. Qualcuno glielo dica che rischia di trasmettere molteplici messaggi non corrispondenti a verità, certamente:
– Io vivo in un palazzo e tu in una stamberga;
– Io ho 450 servitori e tu non sei degno di servirne uno e, non si sa perché, ma brucerai fra le fiamme;
– Io mi affaccio dalla finestra, ti saluto e rientro subito a mangiare e bere, e tu aspetti ore il mio saluto, poi torni a casa e non mangi perché hai dovuto pagare la benzina e le tasse sull’unica tua proprietà e su un sacco di altre cose. Le hai pagate pure per me e mi hai fatto la spesa cosicché io possa riempirmi la pancia e sparare a zero su ciò che proprio non arrivo a comprendere perché, nonostante i tanti decenni di studio, sono una persona profondamente ignorante della vita vera, che poi è quella che ho la faccia di insegnare al mondo;
– Io sparo una cazzata carica a 1000 di inciviltà e tutti i tiggì la portano a esempio;
– Padri e madri seguono i miei dettami di violenza, disprezzo, razzismo – non c’entra niente col cognome che porta – mentre tu non vieni ascoltato neppure dalla tua di madre, che però ascolta me, uno sconosciuto parlante col mantello d’ermellino e la faccia cattivissima;
Potrei continuare con altre impressioni affini sull’amato urbi et orbi. Sì, significa proprio: amato da tutti gli orbi del Pianeta. Mi ci metto d’impegno e voglio credere che la non-povertà del Papa sia solo una continua casualità, o che qualcuno lo costringa alla ricchezza. In altro modo non si spiegherebbe l’incoerenza di certi inviti alla carità, a privarsi per donare a chi non ha, fatti da chi non incarna propriamente l’esempio del sacrificio e della privazione. Soltanto per togliersi di dosso quella ferraglia sbrilluccicante prima di andare a dormire impiegherà un paio d’ore. So che la Chiesa finanzia centinaia di missioni umanitarie, ma continuo a ritenere che, proporzionandolo al patrimonio di cui dispone, non sarà mai abbastanza. Nell’ipotesi in cui il Papa si ritrovi a fare la dichiarazione dei redditi, risulterebbe un nullatenente, perché nulla di ciò che amministra è realmente suo. Un po’ come se qualcuno vi offrisse la possibilità di vivere un’intera vita fra agi e ricchezze, con la garanzia che nessuno mai potrà togliervi oro, appartamenti, lusso, potere. Cosa contano le carte di fronte alla prospettiva di una vita da nababbo?]
Fine del pippone che di sicuro tornerà. Benedetto è insolente e non si accontenta di poche righe, lui vuole pagine e pagine da me e io lo accontenterò, ma non ora perché dobbiamo ripercorrere le tappe fondamentali del passaggio di Monti a L’Aquila. L’ultima volta che da queste parti si è visto un Presidente del Consiglio è datata novembre 2010 e non serve che vi dica chi era costui e com’è stato accolto alla sua 27esima e ultima volta nel capoluogo d’Abruzzo. Chissà perché da allora non s’è fatto più vedere. Già è un sollievo trovare una faccia nuova, non così pimpante, ma accontentiamoci. Il tour inizia dalla Casa dello Studente, ormai un grande buco fisico e nel cuore, anticipato dalle fotografie degli 8 ragazzi che hanno perso la vita. Monti le passa in rassegna con la mano, si guarda intorno disarmato da tanta distruzione ed esclama: Non me l’aspettavo così. Qualcuno nascosto fra la folla gli grida: Presidente, faccia qualcosa per L’Aquila! e lui risponde: Sono qui apposta. Giunto in piazza Duomo si lascia andare: Questa città è stupenda, posso immaginare come sia stata in passato. Vedo un entusiasmo palpabile. Quando poi s’intrufola nel bar Nurzia, per il tradizionale caffè, loda il coraggio della titolare: Complimenti per la prova di orgoglio e di forza che avete dato riaprendo l’attività qui. Siete la speranza della città! Ha parlato di un piano efficace; di una città del futuro, modello di integrazione fra patrimonio storico e innovazione; coinvolgimento della comunità nel processo decisionale. Le priorità sono la ricostruzione delle case E della periferia e il completamento dei piani di ricostruzione dei centri storici. Ottimismo e belle parole, che non sono mancate in un passato recente del quale ci ricordiamo tutti a memoria. Speriamo che stavolta siano parole diverse, nuove e pesanti, resistenti e sicure, oltre che di speranza.

Mafalda per L’Aquila

L’Aquila: a che punto siamo? si domanda la piccola Mafalda ad alta voce, protagonista di una campagna di informazione rivolta a tutti i mezzi di comunicazione italiani. L’appello è di dedicare quotidianamente uno spazio, anche piccolo, a quanto resta da fare e a quanto è stato fatto e si farà a L’Aquila. Una riflessione, un pensiero, una sensazione che sia una piccola luce su questa città, che rischia di piombare nel luogo dei pensieri tristi dimenticati. Ci voleva una testimonial d’eccezione; chi meglio della piccola Mafalda, la bambina dallo spirito ribelle, profondamente preoccupata per l’umanità e per la pace nel mondo che, attraverso i suoi interrogativi semplici e disarmanti, ai quali a volte è impossibile rispondere, mostra le contraddizioni e le difficoltà del mondo degli adulti. L’immagine può essere utilizzata come logo da tutti coloro che, sposando lo spirito di informazione alla base di tutto questo, vorranno tentare di spiegare, appunto, a che punto siamo. Grazie di cuore a Quino per aver sposato l’iniziativa concedendo l’utilizzo del personaggio Mafalda. Esiste anche una pagina Facebook dedicata. Il mio invito a voi è quello di  fare un po’ vostra questa iniziativa senza tempo. Quando avrete voglia di scrivere e dire 2 parole su quanto è accaduto, sta accadendo, sulle speranze, sulle delusioni, una considerazione vostra, il resoconto di una gita fra queste mura. Non per forza subito, ma sono sicuro che prima o poi vi verrà voglia di parlarne; allora ricordatevi di rispondere a Mafalda!

L’effetto dei molti anni non lo puoi truccare

Ho sognato di invecchiare. Ve lo dico con in sottofondo un gran vento, che a Villa Madre si percepisce sempre più forte di quello che è, per via delle persiane che non si fissano mai bene, si scontrano e ritraggono; il filo della tenda da sole, col pomello di plastica all’estremità, che sbatte contro i vetri. Dal frastuono sembra che fuori si stia scatenando un tifone. Il contrasto aumenta il senso di tranquillità in Villa in cui tutto tace, immobile, quando manca Madre. Poi magari esci e ti ritrovi a constatare che si trattava solamente di un venticello pre-primaverile incapace persino di scompigliarti il ciuffo, per chi ce l’ha. Presenti esclusi.
Non ho avuto mai paura di invecchiare, protetto dalla sicurezza di mantenere integre tutte quelle caratteristiche non soggette all’azione logorante del tempo. Perciò è stato un sogno destabilizzante, perché di paura ne ha aggiunta una. Ho vissuto i miei primi 30 anni certo che invecchiare è sempre e comunque. Che sia dai 10 ai 15 e poi ai 20; che sia dai 21 ai 30, che parlano di shock e invece non è; perché dovrei temere i 40 o i 50 o i 70, se finora è andato tutto liscio? Ho scoperto che esiste una risposta e che quella paura è tutt’altro che estranea; l’ho fatto attraverso un sogno. Tanti anni cambiano il volto, anche pochi in verità, però l’effetto dei molti anni non lo puoi truccare. Nel sogno capitava all’improvviso, da una notte all’altra. Nella vita è un processo graduale che difficilmente riesci a seguire di pari passo col suo evolversi. Un giorno ti guardi allo specchio, come nel sogno, e un siero paralizzante percorre in pochi istanti i canali venosi, lasciandoti immobile davanti a un volto che non riconosci. Non era lo stesso sorriso di sempre e non lo accettavo. All’inizio non ci ho dato peso. Cercavo, attraverso prove costruite apposta per rivedere quello che non c’era più, di compiere un viaggio indietro nel tempo dell’espressione giovane. Impossibile. Lo specchio restituiva sempre la stessa verità; non si può chiedere a uno specchio di mentire. La bocca era rattrappita, gli occhi ricoperti da una luce grigia emanata dalle pieghe della pelle. Ho provato rabbia, impotenza. Avrei voluto uccidermi se ciò avesse portato all’omicidio dell’immagine riflessa con tutti quegli anni addosso. Non per le rughe o per la pelle rovinata, ma per quel sorriso che non riuscivo a riprodurre, perché le labbra arrivavano fino a un certo punto e quel punto non era ridere. Tutto era vecchio ed ero vecchio anch’io, che non potevo trasformare l’incubo in una certezza sempre avuta: il mio sorriso non cambierà, che lo specchio all’improvviso smentiva.
Mi sono svegliato domandandomi se è davvero così: se invecchiando s’indebolisce pure l’aura intangibile che parla di noi agli altri da una vita, il motivo per il quale gli altri ci vogliono accanto, o pregano per non incontrarci, rendendoci irriconoscibili persino a noi stessi.

L’affinità elettiva con Wind

Perdonate l’assenza dagli schermi. Non sono andato in vacanza alle Galapagos con le mie tartarughe acquatiche preistoriche al seguito, per liberarle nella natura incontaminata e così finalmente disfarmi dei loro discreti bisognini quotidiani e godermi il tepore dei primi caldi di stagione direttamente ai tropici,  ma sono in piena guerra contro il mostro: lui, e i miei limiti. Tutto ha inizio da un problema dal nome tedesco Vodafone e il cognome americano Station. Non funziona male: l’ADSL è abbastanza stabile, va alla velocità di un settantenne anestetizzato e riflessivo, però ha dalla sua che, quando capita qualche guasto sulla linea, mi parte la chiavetta e quindi posso comunque navigare. Ad aprile scade il primo anno e passerà dai 19 euro promozionali iniziali (che poi, non si sa perché, ogni mese son sempre 24 o 25) fino ai 34 che prevede il mio piano Casa, che hanno pure tolto dal loro portale. Evidentemente si saranno resi conto di quanto facesse schifo. Perché proprio Vodafone? Perché, tolta Telecom, era l’unica alternativa praticabile. Ci sarebbe da farne una stagione intera di Voyager sui misteri che avvolgono i codici criptati presenti sulle bollette della Telecom. A ognuno dei quali corrisponde una cifra in euro virgola centesimi che, sommate, ti fanno cascare le mani. Se vuoi decifrare una bolletta della Telecom hai solamente 2 possibilità:
– Ti fai prestare la Stele di Rosetta dal British Museum, comoda, leggera, tascabile direi.
– Telefoni a Meluzzi che parla e scrive il geroglifico, il demotico e il greco antico.
Di tentativi con altre compagnie telefoniche ne ho fatti un’infinità. Ricordo ancora di quando Infostrada, dopo avermi corteggiato per settimane e convinto ad abbonarmi, è arrivata al punto di buttarmi fuori dal club a mia insaputa, per via delle 15 barra 20 chiamate a settimana al servizio clienti per segnalare la spia che sul modem ballava la macarena e non si fissava mai. La roccaforte di Villa Madre è stata edificata in cima a un altipiano a 400mila chilometri dal centro abitato, dove viene da pensare che capre, mucche, maiali, istrici e stambecchi di montagna non avranno mai bisogno di una connessione veloce, quindi perché scomodarsi a installare ripetitori in zona? Vodafone, attraverso quella ciofeca plastificata della Vodafone Station, era riuscita nella mirabile impresa, solo che 34 euro promessi al mese mi paiono veramente troppi per meno di mezzo mega in download, velocità certificata dallo speed-test. E così, cerca cerca, mi sono imbattuto in All Inclusive Pack di Wind che pareva pensata apposta per me, che ho già All Inclusive sul cellulare. Ogni volta che valuto una promozione della Wind mi pare che l’abbiano pensata per me; è una sorta di affinità elettiva fra me e la Wind. Chiavetta inclusa, 10 euro al mese per 2 anni, fino a 10 giga al mese a massima velocità con un risparmio effettivo di 25 euro, che poi è di più. Non pensarci, tanto a Villa Madre Wind non prende, mi ripetevo. Passando davanti a un punto Wind la tentazione è stata troppo forte (25 euro corrispondono a un settimo di pieno in più al mese!) e sono entrato. Ti do una chiavetta di prova, senza fare abbonamenti né niente, attaccala al computer e vedi se in casa tua c’è campo. In realtà la signorina non è stata così gentile. La chiavetta ho duvuto strappargliela dalle mani facendo uso di una certa brutalità poco indicata verso il gentil sesso, soprattutto l’8 marzo. Ebbene, esiste un solo punto di Villa Madre in cui la chiavetta sembra andare in stato pre-orgasmico, le tacchette del campo schizzano a 5 e la connessione sfiora i 2 mega in download. Il punto in questione è localizzato sul ripiano della credenza, sotto ai bicchieri di cristallo, accanto alle fotografie dei madre-antenati, all’angolino della porta scorrevole che apre l’accesso alla cucinetta, dentro cui solitamente riposa Madre sulla ormai celebre madre-poltrona rossa. Scartando l’ipotesi di dover trascorrere le mie giornate in piedi, col computer in mano, a piantonare la cucinetta, mi domando: Possibile che non esista un fattapposta, che lo piazzi nel punto di massimo campo, ci infili dentro la chiavetta e lui becca la connessione e la spara wireless per tutta la casa?  Ebbene sì, il fattapposta è il router 3G lincato sussopra. L’ho acquistato e funzionerebbe benissimo se solo riuscissi a configurarlo. Ho sfasciato tutte le impostazioni del pannello di controllo e, giunto al punto di non-ritorno, stamane l’ho portato al negozio recitando con discreto successo la parte dell’incapace combinaguai. Domani dovrei ritirarlo configurato con la chiavetta. Io non so voi, ma a me pare di aver fatto una grande scoperta. Mi sento come Cristoforo Colombo sulla sua caravella che avvista la terra americana, o anche come Licia Colò che scopre una specie sconosciuta di tarantola. E’ come se il fattapposta l’avessi inventato io, insomma. Beh, non proprio. In quel caso forse sarei riuscito pure a configurarlo da solo senza sprogrammare mezzo mondo e andare al lavoro depresso sfogandomi con chiunque: Sono solo un povero incapace! senza stargli poi a spiegare il perché.
La stangata di marzo è alle porte e mi par di capire che il mio potere d’acquisto, già vicino allo zero, toccherà delle profondità glaciali. Meglio cominciare a tagliere da qualche parte. Ho già deciso che quest’estate andrò al lavoro in bicicletta.

Morirò, dottore?

Immerso nel candore minimalissimo della modalità fullscreen di WordPress, che mi ha fatto scoprire il mio web-designer, grafico, ideatore delle copertine dei miei libri, genio tuttofare e fratello del più celebre Mario, Super Pino, vi racconto della recente gita forzata nel ridente ospedale San Salvatore dell’Aquila. Solite analisi annuali, che io sono per il prevenire è meglio che curare, e visita dermatologica per una roba secca che mi è spuntata sull’indice e sul medio della sinistra mano, rimandate 18 volte causa virus intestinale prima, causa neve poi, e cause varie mentre, tutte ricollocabili all’ansia che mi sale alla sola idea di mettermi in coda per il prelievo. L’accettazione sta sul palco di un modesto teatro, con davanti centinaia di seggioline di plastica bianca occupate da signore e signori che invecchiano nell’attesa. Arrivo che sono appena passate le 8 e un quarto e c’è già il pienone. Basta mettersi in coda, a capirlo dove comincia! Mi sento toccare la spalla. Una donna mi dice: Ehi, devi prendere il numero! Non volevo passare avanti a nessuno. Dove si prende il numero? I numeri stanno sopra al termosifone là in fondo, ribatte prima di fare dietro-front verso il suo posto in platea. Procedo immaginando di trovare, fissata da qualche parte, una macchinetta elettronica di quelle delle Poste delle città che non siano appartenenti a un Paese sottosviluppato. Quando la signora diceva sopra al termosifone voleva dire proprio sopra alla ghisa imbollentita su cui giace un rotolo di numeri senza nemmeno il supporto rosso che sta all’angolo a destra del banco nei supermercati, altro che macchinetta che premi e fa tidì mentre esce il bigletto. 228 e il piccolo monitor segna 30. 2 ore dopo è il mio momento, prima o poi arriva per tutti nella vita. Di ore il corpo ne percepisce circa 105mila, equivalenti a 4375 giorni cioè 11 anni e 9 mesi. Lo dimostrano le rughe sotto, sopra, a destra e a sinistra dei mei espressivi occhi nocciola, la barba fino all’ombelico, i capelli che sono diventati la metà della metà imbiancandosi ulteriormente non per la neve e non per la forfora, che combatto doccia dopo doccia, e la lieve zoppia che mi accompagna fino alla signorina dietro lo sportello di vetro. Bisognerebbe sempre trovare il modo migliore per dire qualcosa a qualcuno, soprattutto se quel qualcosa è domandare a chi consegnare l’ampollina dorata. Io l’ho fatto così: Scusi, l’urina la do direttamente a lei? Mi viene in mente la pratica sessuale di fare la pipì addosso al partner, in questo caso lei, e il risultato è una risata che non controllo. Ride pure lei e poi mi dice: La sorprendo con effetti speciali, di fiale d’urina per le sue analisi ne occorrono 2! Il panico nei miei occhi le fa aggiungere: Ne prenda pure una nel cestello, il bagno sta vicino l’entrata. Io lo faccio, ma non sono in me. Procedo verso la porticina con la fiala vuota in mano e produco un unico pensiero: ODDIO! Cioè, riempire una fiala di urina non è mica una cosa che si fa così su 2 piedi, voglio dire. Ci sono un sacco di aspetti psicologico/pratici da tener presente: sangue freddo, mira, precisione. Purtroppo l’attesa biblica del mio turno e la stanchezza già di prima mattina fanno sì che manchino 2 dei 3 sopracitati, e non sto parlando del sangue freddo.
Superata la fase preliminare tocca aspettare per il prelievo. Pappalardo urlerebbe: Ricominciamoooooo! Scatta il mio numero, mi alzo gaudente e vengo interrotto dalla voce dell’infermiera che si affaccia e, rivolta a un ragazzo, esclama: Dai Marco vieni! Io resto in piedi fuori la porta, col mio numeretto fra le mani uguale a quello lampeggiante, solo che io sono fuori e Marco – chi è Marco? – senza numero sta dentro. Guardo all’interno con fare interrogativo e minaccioso. La donnona si risente del mio sguardo: Solo un attimo di pazienza e poi tocca a lei. Io dovrei avere un attimo di pazienza mentre tu fai le analisi a uno che, per il solo fatto di conoscerti, salta tutta la fila? Come si può chiedere un attimo di pazienza a uno che aspetta attimo dopo attimo da più di 3 ore? Ora entro e le ficco la sua siringa nel culo, penso. Poi cambio idea in funzione del fatto che mettersi a far polemica con chi un minuto dopo dovrà centrare la vena sul tuo braccio e tirar su 4 fiale di sangue non è proprio consigliabile, se ci tieni a tornare a casa, così sopporto l’ingiustizia in un omertoso silenzio.
Dopo 45 anni luce sono finalmente faccia a faccia col dermatologo che liquida la mia visita, pagata 33 euro di ticket, con queste parole: Si tratta di un granuloma. Da quel momento non c’ho capito più niente e gli ho chiesto: Morirò, dottore? No, ha risposto e m’è parso pure dispiaciuto. Che gli avrò fatto di male, chissà. La sua pelle ha reagito a qualcosa di impossibile da identificare, probabilmente un’infezione. Io fossi in lei non ci farei niente. Ma se non ci faccio niente non se ne va, e io voglio che se ne vada, dottore! No, ma tanto non se ne va comunque. Provi questo unguento. Se entro una decina di giorni non nota effetti positivi lasci perdere. Buona giornata! Un attimo solo, mi scusi, vorrei anche farle vedere un neo. Per il neo c’è la visita dei nei. Ah, non sapevo bisognasse richiedere una visita specifica, comunque se potesse darci solo un’occhiata. Qualche giorno fa mi sono tagliato con la lametta e ho perso un po’ di sangue proprio in corrispondenza del neo. Sono preoccupato, la prego! L’uomo, colpito da tale umana disperazione, si alza dalla sua poltrona di pelle nera, si avvicina, sbatte un paio di volte le palpebre e conclude: Fatto, arrivederci!

Paolo Scimia agli inquirenti: Non ho mai lasciato solo Massimiliano!

Quando ancora tutti noi speravamo di ritrovare Massimiliano Giusti vivo, Paolo Scimia, il suo compagno di scalata miracolosamente scampato alla furia della montagna, è stato sentito per ricostruire le dinamiche di quella domenica da dimenticare.
Non ho mai lasciato solo Massimiliano, sono vicino alla sua famiglia e aspetto presto notizie confortanti, aveva detto ancora scosso dalla paura. Segue il suo racconto, così come l’ha fatto agli investigatori.

Domenica mattina ho incontrato Massimiliano intorno alle ore 8.10 a Fonte Cerreto e abbiamo preso la funivia delle 8.40. Siamo arrivati a Campo Imperatore e abbiamo iniziato la camminata per raggiungere il Corno Grande. Alla Sella di Monte Aquila abbiamo messo le pelli foca sotto gli sci per camminare sulla neve, poi siamo andati verso il Sassone. Durante questo percorso Massimiliano non aveva un passo velocissimo, ma sembrava tranquillo. Gli ho chiesto più volte come si sentisse e mi ha risposto che non aveva problemi. Dal Sassone all’attacco della via direttissima che porta sulla vetta del Corno Grande bisogna togliere gli sci e proseguire a piedi. Ho visto Massimiliano affaticato e, preoccupato, gli ho detto di fermarsi in caso di crampi. Egli mi ha rassicurato che si sentiva solo le gambe stanche. Lungo quel percorso gli ho fatto quella domanda ogni 5 minuti. All’attacco della direttissima abbiamo mangiato, poi mi ha detto che non voleva salire ulteriormente. Abbiamo quindi preso appuntamento al Sassone: io sarei salito, mentre lui sarebbe tornato giù. Quando mi sono girato però stava mettendo i ramponi: aveva cambiato idea. Un rampone gliel’ho agganciato io, continuando a ribadirgli che se avesse avuto i crampi si sarebbe dovuto fermare. Siamo poi partiti alla volta del Corno Grande sul Gran Sasso intorno alle ore 11.30 e abbiamo continuato per la prima mezz’ora a distanza di 10 metri l’uno dall’altro, senza mai perderci. Io avanti e lui dietro. Quando la salita si fa più ripida bisogna imboccare un canale stretto. Sono andato avanti e ho visto che dall’alto cadevano ghiaccioli pericolosi. Mi sono preoccupato, ho detto a Massimiliano di mettersi il casco, allacciarlo e aspettare. L’ho distanziato e ho urlato di fermarsi e andare indietro fino al Sassone. Non lo vedevo ma lo sentivo, mi è sembrato che avesse capito anche perché erano cose che avevamo pattuito prima della salita. Non potevo tornare indietro, altrimenti avrei rischiato di fargli cadere addosso dei blocchi di ghiaccio. Ho pensato di andare in vetta e con gli sci di raggiungere poi il Sassone dove mi doveva aspettare Max. Arrivato sul Corno Grande ho visto che dalla parte di Teramo era sereno, mentre sul versante aquilano c’era nebbia. Se fossi stato da solo sarei passato dalla parte di Teramo per arrivare con facilità al rifugio Franchetti. Ma poiché avevo appuntamento con lui ho preso il canale Bissolati, ho sciato dentro una slavina fino alla fine, per evitare crolli di neve. Arrivato alla fine del canale sono andato verso il Sassone per rincontrare Max, ma la visibilità era pari allo zero e lui non c’era. Sono sceso più in basso all’attacco del canale che porta a rifugio Garibaldi. Ho aspettato che il telefono prendesse e ho chiamato in primis il 118 nella piena bufera e ho spiegato tutto. Poi ho sentito Max e gli ho chiesto dove stava, mi ha risposto che aveva raggiunto il Corno Grande. Abbiamo discusso, evidentemente non c’eravamo capiti. Gli ho detto di non muoversi e aspettare i soccorsi. Ho raggiunto il rifugio Garibaldi, ma da un lato era chiuso con un lucchetto, alla finestra c’era la grata, ho scavato la porta principale sommersa di neve, ma anche questa era inaccessibile. Ho quindi formato una buca davanti alla porta del rifugio dove mettermi ad aspettare. Lì il telefono non prendeva e per dare notizie dovevo fare un tragitto di mezz’ora di cammino nella bufera. Ogni ora sentivo i soccorsi che mi dicevano di non perdere la posizione. Tornavo giù nella buca che la neve aveva puntualmente ricoperto e mi muovevo in continuazione per cercare di non congelare. Alla seconda telefonata con i soccorsi mi hanno detto che sarebbero arrivati entro un paio d’ore. Successivamente mi hanno riferito che erano bloccati da una bufera. Ho pensato che in quelle condizioni non avrei potuto superare la notte. Si erano fatte le 20.30 circa. Ero là dalle 14, ma non arrivava nessuno. Volevo aspettare Massimiliano che con gli sci sarebbe dovuto passare necessariamente su quella strada. Quando è sceso il buio mi sono sentito perso, ho pensato che non ce l’avrei fatta. Ho visto il chiarore della luna nella bufera e ho deciso di risalire al rifugio Duca degli Abruzzi, dove sono arrivato alle 22.30 circa. A quell’ora ho visto da lontano le torce degli uomini della Guardia di finanza che mi stavano cercando. Appena arrivato al rifugio, ho comunicato la mia posizione, ho preparato un tè e assunto dello zucchero. Dopo una mezz’ora mi hanno raggiunto i militari della Guardia di finanza, e solo più tardi il medico del Soccorso alpino.

Da quanto emerso, Massimiliano deve aver deciso di non aspettare i soccorsi in cima, come gli aveva ordinato il suo amico. Ha provato a tornare giù da solo, probabilmente spinto dallo stesso spirito di sopravvivenza che aveva indotto Paolo a proseguire fino al rifugio Garibaldi. La scarsissima visibilità e la poca conoscenza della zona devono aver giocato la terribile mossa che l’ha fatto precipitare per 300 metri nell’area che, per quei passaggi molto stretti costeggiati dagli strapiombi, è denominata Valle dell’Inferno. Da entrambe le parti il medesimo coraggio nell’affrontare il pericolo che decide 2 destini agli antipodi: di vita, miracolo, gioia, l’uno; di morte, sfortuna, passo falso, l’altro. Mando un abbraccio virtuale consapevole dell’inutilità, ma sincero, alla sua compagna Raffaella e a Camilla, la loro bimba di 5 anni.