Il mio Capodanno trendy

La sua zona è interessata da un problema sulla linea telefonica, annuncia la voce del servizio clienti di Vodafone un istante dopo aver digitato l’opzione 3, quella per ricevere assistenza sull’ADSL. Resto appeso al telefono per quarti d’ora a subire la stessa strofa dell’ultimo singolo di uno dei 2 fratelli Gallagher – non chiedetemi quale – intervallata ogni 5 secondi dall’invito: “La preghiamo di attendere, un operatore le risponderà il prima possibile”. A dire: “Aspetta e spera. Le consigliamo di riagganciare e andarsi a vivere la sua vita” facevano più bella figura. Con la canzone dei R.E.M nell’orecchio, anzi con quella stessa strofa in loop, ho in sequenza e con una mano sola:
– Riordinato la stanza.
– Messo a bollire l’acqua.
La preghiamo di attendere, un nostro operatore le risponderà il prima possibile.
– Pesato gli spaghetti (è giunto l’atroce momento di tornare a darsi una regolata calorica).
– Salato l’acqua alle prime bollicine e poi buttato gli spaghetti in pentola.
La preghiamo di attendere, un nostro operatore le risponderà il prima possibile.
– Seguito un’intera causa di Forum incentrata sui diritti dei ratti, pubblicità di Eminflex e sentenza incluse.
– Pranzato con tanto di caffè e barretta ai cereali da 70 kcal, per concludere.
– Digerito.
– Fatta pipì e un’altra cosa.
La preghiamo di attendere, un no…
– Riagganciato.
Mi connetto con la chiavetta da 2 giorni. Non so quanti miliardi di megabyte sto scaricando, se sto pagando e quanto. Ma non è questo il vero problema che sta interessando la mia zona, né la misteriosa sparizione di 30 milioni di euro destinati alla ricostruzione. Se li saranno persi, può capitare con gli spicciolini. Magari sono rimasti nella tasca di qualche jeans o giacca. Appena se ne accorgeranno li restituiranno, vedrete. Il solito sfigato io, che in questo lunghissimo 2011 non ho ritrovato nemmeno 1000 lire in una pozzanghera (sono all’avanguardia, e mi preparo già alla dolorosa retromarcia della valuta). La questione che urge immediatamente risolvere ha un nome composto di una sola parola eccitante e agghiacciante allo stesso tempo: Capodanno.
Partiamo dal presupposto che tutte le colpe sono mie, perché mai come quest’anno ho rimandato continuamente la decisione e, ora che siamo agli sgoccioli, non ho la più pallida idea di come rendere leggendario quello che potrebbe essere l’ultimo Capodanno della Storia, ma anche no (Maya permettendo). Il dubbio, che si ripropone sicuro come la morte è al solito:
– Cena con gli amici in una graziosa casetta di montagna. L’abbiamo fatto per diversi anni tranne quello scorso, a casa mia. Non potremo neppure quest’anno perché manca, come dire, la materia prima. Il cibo? No, la casetta di montagna che dal terremoto è ancora inagibile.
– Seratone in un locale. Cenone, brindisi di fine anno con zampone e lenticchie a mezzanotte, Lady Gaga fino alle 6 di mattina e ti organizzano pure i turni al cesso.
– Cenone in famiglia ed eventuale, ma non certo, brindisi al nuovo anno in giro per la città.
Togliendo la prima a malincuore per cause di forza maggiore, ché a me le cene tutti assieme nelle casette di montagna fanno tanto senso di vicinanza, ho riflettuto sulla seconda. Non è per gli 80 barra 100 barra 140 euro, cioè sì. Inteso in questo senso però. Io faccio una Muraglia Cinese di rinunce per un intero anno, per mettermi da parte la grana, come una formichina fa col grano, poi arriva Capodanno e bisogna fare i figheiri, rivestiti, lucidi e carichi di banconote ripulite in poche ore. Mi piange il cuore a lasciare 100 euro alla cassa di un locale in cui, alla fin fine, neppure mi diverto granché. Diciamolo chiaramente, io alle 2 comincio a sbadigliare e alle 2 e 20 mi ritrovate buttato su un divanetto umido di gin e lemonsoda a russare pesantemente con tanto di bollicina che esce ed entra dalla narice destra.
E se quest’anno decidessi di trascorrere il Capodanno a casa con Madre e destinare quei 100 euro a un piccolo dono utile, capace di cambiare in meglio le mie abitudini e desideratissimo da me medesimo? Ecco, sì. Farò così e lo farò oggi. E poi quest’anno l’86 per 100 degli Italiani trascorreranno il Capodanno in famiglia, quindi altro che sfigato, mi sentirò veramente trendy!
E voi, programmi per la notte più lunga dell’anno?

Mia nonna ha chiesto a Babbo Natale un David per nipote

Difficilmente il Natale poteva andar peggio della Vigilia e quindi è andato meglio. Molto del merito va riconosciuto alla capacità tipica di certi esseri umani di imparare dal passato per non commettere gli stessi errori in futuro. Incredibile ma vero, in casa Grimaldi in ciò siamo bravissimi. Anzi sono (loro), ché io, quando ho qualche dubbio, mi taccio e quindi grossi guai non ne combino. Eccezion fatta per quel paio di momenti in cui stava per saltare di nuovo tutto in aria. Basta un commento sulla sfoglia troppo dura del timballo a spingere la pallina di neve. Durante la discesa, cresce di diametro e diventa una valanga, arriva a valle e non risparmia nessuno. Siamo riusciti a selezionare gli argomenti di discussione opportuni in un tacito accordo genetico; ognuno dentro di sé sa quello che deve e soprattutto non deve dire. Intanto mai nulla che abbia a che fare con la vita, più precisamente coi propri piccoli o giganteschi fallimenti, quotidiani o di sempre. Sono quelle le cose che fanno imbestialire: l’essere giudicati, il sentirsi paragonati, uscire sconfitti dall’uno e dall’altro. Meglio parlare della manovra che è peggio di un’inversione in autostrada di notte senza fari, oppure di Berlusconi che rivedremo fra non molto. Abituatevi all’idea. Giusto il tempo per l’Italia di tornare al baratto di pere e patate, e assisteremo alla sua irruzione sulla scena con una frase a effetto del tipo: “Avete visto che io non c’entravo niente?” o ancor peggio: “Prima delle mie dimissioni le cose andavano meglio” il che merita quantomeno il beneficio del dubbio.
Quando hai in casa anche solo un parente, tutto quello a cui devi badare è tenergli chiusa la bocca su certi punti delicati, che poi sono gli stessi che tutto l’anno tenti di zompettare nei discorsi coi tuoi, che riduci ai minimi termini proprio in virtù del terrore che approdino al porto proibito. Uno fa tanta fatica per 363 giorni e al 364esimo arriva la nonna, neanche si siede che non-lo-dire, non-lo-dire, non-lo-dire!SDENG! (L’ha detto!) E da lì si propaga nei meandri delle colpe radicate.
“Sei tu che hai rovinato tutto…”
“Non ti è mai importato niente di niente e di nessuno. La casa… i figli… il nostro f-u-t-u-r-o!”
E via discorrendo. Ci siamo capiti benissimo.
Ieri, a differenza della Vigilia, mia nonna è stata più attenta alle parole che mai; certe persino le sussurrava nella mia direzione, quasi a domandarmi il permesso di pronunciarle con un tono di voce più squillante. Devo comunicare che è improvvisamente venuto a mancare il suo consueto regalo a cui tanto mi ero abituato (100 pippi sonanti in busta aperta). Imperdonabile! Non nego che mi ha scombussolato i piani, a partire dal Capodanno che in assenza di money mi sono imposto frugale e riflessivo, più la prima che la seconda. In sostituzione, ha depositato sul tavolo del salotto un set di (2) creme, ma mica creme qualunque, gel!
– Il gel detergente anti-impurità. La scheda (clicca qui) dice: purifica la pelle delicatamente e in profondità, svolgendo una visibile azione opacizzante. Mi fa pensare che mia nonna voglia combattere la traslucidità del mio faccione, sulla cui esistenza non sono per niente d’accordo, e lo stia facendo con la discrezione di chi offre un chewing-gum a uno dall’alito pestilenziale. A occhio disattento parrebbe un gesto di disinteressata generosità d’animo, invece lo sta facendo solo perché vuole sopravvivere. Sempre dalla scheda del gel: funziona perché l’estratto di Spiraea Ulmaria riduce la secrezione di sebo. Capito? Se nel corso di uno dei vostri percorsi di natura, doveste imbattervi in un cespuglio di ‘sta pianta qui, strappatene un rametto e passatevelo sulla faccia con violenta decisione. Questa cosa del sebo è orrenda e io non la voglio commentare, se non dicendo che non è vero: la mia pelle non sa di cosa stia parlando tal creatore della crema viso, figuriamoci se può secernere sebo. Procediamo col secondo e ultimo prodotto del set.
– Il gel addominali scolpiti. Non servirebbero altre parole, diamo comunque un’occhiata alla scheda (clicca qui): gel di facile assorbimento, agisce efficacemente sulle zone adipose favorendone la riduzione e il rassodamento. Ora, cerchiamo di capirci. Anche chi non li ha visti sarà d’accordo sul fatto che i miei addominali non assomigliano per niente a quelli stampati sulla scatola. Individuo che, per quanto mi riguarda, al posto della faccia potrebbe avere pure il culo di un maiale, visto che tutto ciò che di lui ci è dato sapere è che si è trapiantato il busto del David di Michelangelo e l’ha rivestito di pelle umana. Questo non vuol dire che io debba applicare sulle ondulate masse del mio petto selvaggio una roba sicuramente gelatinosa, sul miracolosa nutro qualche dubbio, mica per sentirmi parte di una società di figheiri, no. Per piacere a mia nonna!
Natale salvato in extremis. Il Santissimo Stefano se ne va e chiude il baraccone, mentre respiro con in corpo l’affanno e una stecca e mezza di nocciolato Lindt davanti alla Sirenetta che continua a batterli tutti.
Quaggiù e in giro leggo uno spirito del Natale sempre più inconsistente, intangibile, spirito appunto. È un caso che nei commenti non sia intervenuto nessuno a tessere le lodi del Natale? Qualcuno che sta facendo già il conto alla rovescia per festeggiare il prossimo?

25/12/2011 – The day after

Una Vigilia schifosa. Potrei sforzarmi di inventare un post augurale preceduto dal racconto di una serata di Vigilia principesca, a capo di una tavolata di 151 persone allegre, festanti e brindanti. Evito perché tanto siamo io e voi. La verità è che quella che doveva essere la nostra Vigilia di famiglia si è trasformata in una cena triste.
Madre ha passato l’intera giornata a cucinare.
“Matte’, quanti sono 2 decilimetri di panna da cucina?”
Deci che?”
Decimetri. Dài che è tardi e fra poco viene tua nonna!”
“Forse decilitri. La panna mica è una distanza che si misura col metro.”
“Eh, quanti sono? Non mi far perdere tempo ché c’ho ancora 166 euro di pesce da pulire!”
“Dipende da quanti ce ne sono nel pacchetto.”
“Qua dice 500 ml.” Lo pronuncia proprio ml senza vocali; non emmeelle né millilitri, ml.
“Allora devi fare un’equivalenza, da decilitro a millilitro. Prima viene il centilitro e poi il millilitro, quindi…?”
Accanto alla tempia di Madre spunta la lampadina di Archimede Pitagorico di quando aveva un’intuizione geniale: “Quindi 2 decilitri sono 200 litri!”
“NOOO!!! Sono 200 millilitri.”
Madre esausta: “Insomma, quanta cazzo di panna ci devo mettere? 10 pacchetti?”
“Un po’ meno di mezzo!”
“E tanto ci voleva? Fammi capire, ma tu ti stai laureando per questo?!”
L’atmosfera in cucina fra l’ironico e il disperato pareva quella giusta. Ho abbandonato Madre fra i magici fumi del suo regno di pentole e fornelli. Mi ha salutato così: “Oddio, non so da dove cominciare!”. Sono uscito per il classico aperitivo di Vigilia che son quelle cose che, se manchi, ti insultano come se, alla luce della crisi, tu abbia deciso di arrotondare le magre entrate mensili spacciando eroina davanti alle scuole.
Sono tornato presto e c’era già mia nonna, vestita di un’eleganza rigorosamente cinese che ci tiene a sottolineare. Poi una cosa ha rovinato tutto accendendo uno a uno quegli interruttori che in certe occasioni ci si sforza ti mantenere giù, ricorrendo anche a una conveniente finzione, nel caso serva. Non entro nei dettagli. E quindi via alle danze. Sono volate parole pesanti, in tal caso lontanissime dalla verità. Negli occhi di Madre ho visto materializzarsi una delusione sconfinata. Per il Cenone a lungo pensato e preparato; per l’atmosfera rovinata; per la rinnovata consapevolezza che non siamo proprio ‘sta grande famiglia; per i suoi figli dei quali non è soddisfatta. Mia nonna, a 81 anni, tirava fuori argomenti alternativi per spostare la discussione e salvare il salvabile. La guardavo e ascoltavo, ammirato dalla sua lucida intelligenza. Comunque non si è salvato niente. Mio padre l’ha riaccompagnata a casa alle 23. Madre l’ha salutata con gli occhi arrossati, umidi e carichi di tristezza e rabbia; ha sorriso. Si è seduta sulla madre-poltrona rossa senza sparecchiare. Ha steso le gambe su una sedia ammorbidita da un vecchio cuscinotto e si è appisolata. Io mi sono messo a letto a leggere ‘Trilogia della città di K.’ di Agota Kristof (se non l’avete letto fatelo, perché la solitudine di Lucas e Claus vi resterà impressa nel cuore, e poi è scritto benissimo). Ho spento luce e telefono prima di mezzanotte. Ho rimandato gli auguri al giorno dopo, sperando in un umore migliore.
Oggi lo spettacolo torna in scena con un titolo diverso: Natale in casa Grimaldi, e gli stessi attori. Tremo all’idea che possa ripetersi identico a ieri sera. Comunque vada, se ne andrà. Tento di raccogliere semi dalla tempesta. Ho capito che devo portare a termine un progetto sbagliato in partenza. Devo farlo per chi ci tiene molto e anche per me, se no non cambio e non cambia.
E il vostro, che Natale è? Spero bello. Se qualcuno di voi ha ricevuto un dono leggendario da quel Babbo del quale tutti parlano, me lo racconta ché ho bisogno di meravigliarmi?

Da solo contro 93mila Volatili

Per me, sopravvivere a un’intera giornata a Roma Capoccia assieme a 2 scatenate dello shopping, che sbavano a Via Condotti, fotografano la vetrina di Dolce&Gabbana con le scarpe nelle cassette della frutta e i cioccolatini sopra, e rapinano Zara, non è cosa da poco. Non riesco a ricordare il momento in cui si è parcheggiata nel mio cuore la cellula di ansia latente che si risveglia ogni volta che compio un’operazione di moto a luogo verso Roma. I sintomi sono i soliti 2.
– Il respiro si fa sempre più affannoso con l’avvicinarsi della Stazione Tiburtina, per poi bloccarsi definitivamente al momento in cui abbandono l’ultimo gradino del bus. Da quel momento vivo in uno stato di totale apnea che si conclude nel preciso istante in cui rimetto piede sul bus per L’Aquila.
– Ho paura che qualcuno mi avvicini con la scusa di chiedermi se ho da accendere e all’improvviso mi dia una coltellata o mi spari. Mi succede solo a Roma. Chissà come mai i romani mi ispirano certi pensieri.
Questo forse prova che sono affetto da Romafobia; se esiste, io ce l’ho. Comunque sto migliorando. Gli addobbi di Natale per le strade. Questa scia bianco-rossa-verde percorre il cielo e ci ricorda che ahimè viviamo in Italia. Meravigliosi e malinconici al tempo stesso. Quando siamo giunti al cospetto del palazzone di Fendi, abbiamo indetto il minuto di silenzio di fronte a cotanta maestosità. Un’immensa cintura di lucine dorate (dalla riconoscibilissima fibiona Fendi un pochetto pacchiana) lo avvolge e sta al centro di una pioggia di stalattiti argentate, che secondo me sono Swarovski avanzati alla signora Carla e riciclati alla bell’emeglio. A pranzo ci siamo fermati in un ristorantino nei pressi di Piazza di Spagna. Primo del giorno + bibita = 7 euro. Ieri orecchiette con gamberetti e zucchine, più precisamente 12 orecchiette, 3 gamberetti (nel piatto di qualche fortunato ne ho contati 4) e una chilata di zucchine. In compenso il cameriere faceva delle evoluzioni ammirevoli ogni volta che c’era da appoggiare un piatto e questo valeva il prezzo di quello che si è rivelato, più che un pranzo, un antipastino leggero leggero. Ho concluso a Spizzico con un triangolo equilatero di 40 cm di lato di Margherita e un’insalatina scondita che io l’olio proprio non sono riuscito a individuarlo. Abbiamo compensato con una cena all’Indiano in zona Colosseo, gestito da una signora indiana credo, – se no che stiamo a fa’? – tanto gentile quanto ferrea padrona. Praticamente ha deciso tutto lei. E per fortuna! Dopo aver letto e riletto il menu c’è mancato poco che mi mettessi a piangere.
Abbiamo camminato per circa 11 ore e, eccezion fatta per 2 sacchetti di caramelle gommose e ‘Cose Preziose’ di Stephen King, non ho comprato niente. Mi sono rifatto gli occhi con i portafogli Piquadro; quello nero col righino azzurro esercita su di me un effetto afrodisiaco, potrei eiaculare al solo contatto. La Feltrinelli di Galleria Colonna era talmente piena zeppa di gente che non pareva neppure una libreria. La crisi ha abbassato il budget favorendo forse l’acquisto dei libri che fanno fare sempre bella figura, tranne quelli di Fabio Volo, quindi non regalateli, potreste perdere delle amicizie. Non vorrei parlare di Fabio Volo perché l’esperienza mi dice che appartiene a quei discorsi che non ci cacci niente. Ho letto 2 dei suoi romanzi dei quali non ricordo neppure i titoli, e non mi sono piaciuti. E quindi non li consiglierei, mi limito a dire questo. Ho tirato fuori il discorso solo per raccontarvi l’ultima su Twitter.
Ieri notte, stanco morto e risorto, ho scritto il seguente tweet:

Twitter la deve smettere di consigliarmi di seguire Fabio Volo. Con tutto il rispetto, No.

Ecco. Lui (il signor Volo) l’ha letto e l’ha ritwittato, di fatto scagliandomi contro uno stormo di 93mila Volatili, che sono i suoi followers. Un confronto che si è rivelato un’esperienza mistica. Direi una paranormal activity. Un’emozione adrenalinica che non ricordavo dai tempi in cui un fan di Anna Tatangelo incollò un mio articolo ironico all’interno del forum ufficiale della beniamina di Sora e chevelodicoaffà!
Ognuno c’ha gli uccelli che si merita.

Twitter e il pavoneggiamento editoriale

Mi sono iscritto su Twitter. Se non ce l’hai, sei out, mi dicevano i miei amici. Il brutto è venuto dopo, quando si è trattato di stabilire cosa fare, solo e disperato in una landa deserta di silenzio. È questa la prima sensazione. Sei lì che guardi le nuvolette azzurrine con la barra nera in alto e la scritta twitter con l’uccellino dopo la erre finale. Hai riempito il profilo, messo la tua foto migliore, quella in cui sembri un figheiro con l’occhio languido che sussurra: “Twittatemi!” prima di bagnarsi le labbra con la lingua; bene, e mo’?!
Non disperare, ben 2 sono le cose possibili:
– Trovi il modo di farti seguire da un consistente numero di persone e cominci a sparare minchiate a raffiche condensate di una quindicina al minuto.
– Se pensi di non avere molto di interessante da dire, ma tanta voglia di assorbire quanta più informazione dal mondo, non ti resta che followare (che in Twittese moderno sta per seguire) il mondo intero.
Così, io e la mia fedele @ (chiocciola) attaccata al culo ci siamo messi in cerca. In un paio di ore abbiamo followato praticamente chiunque. Da Daria Bignardi a Fiorello, da Ivan Cotroneo a Michelle Hunziker, da Salvo Sottile a Gerry Scotti, Valentino Rossi, Elena Santarelli, Pamela Prati. Merda Secca? C’è un utente che si chiama così? Bene noi (sempre io e la fedele chiocciola, che per posizione, forma e consistenza potrebbe essere scambiata per una palletta di cacca, ma è una chiocciola) ti seguiremo Merda! Per non parlare delle case editrici. Ci sono tutte e forse di più. Credo che molte, al di fuori di Twitter, non esistano nemmeno, però lì si sentono pompate da tutti quei follow. 4mila poveri disgraziati che si convincono che basti followare le case editrici e chiamarle in causa con la chiocciolina, in tal caso riuscendo persino a farsi ri-followare, perché un giorno qualcuno li contatti, gli faccia scrivere una roba di un centinaio di fogli di Word per candidarli al premio Calvino, farglielo vincere e pubblicarli. Se le cose andranno come devono andare, loro si riveleranno ognuno il nuovo caso letterario dell’anno, vincitore del Premio Strega e Campiello, un milione di copie fama e ricchezza. No, non funziona così. Dietro quelle chiocciole abitano quasi sempre poveri disgraziati. La differenza fra loro e quei 4mila sta nel compito che hanno: diffondere news e creare attorno al profilo, e quindi alla casa editrice, attenzione e seguito. Ammettendo che riusciate a beccare un editor coi contro-balloons, pensate che non siano sufficienti i 300 manoscritti a settimana che riceve mediamente e i 15 libri che sta editando in contemporanea? Smettete di adularli e inzuppare con la bava il dorso delle loro scarpe lucide, perché non riceverete nulla in cambio.
Quando poi sono cominciati a comparire nella mia Home tweet del tipo:

Ho appena dato il 5 a @MioNonno_editore che chiacchierava con @MerdaSecca del suo ultimo libro ‘Quando la merda si fa secca’ davanti a un orange juice sulla terrazza del #Gran #Palace #Mirror #Ritz @Paris_Hilton #Hotel a 6+3 stelle di platino di Londra.

beh non sono proprio più riuscito a sopportare e ho fatto piazza pulita. Li ho rimossi tutti, ma proprio tutti. Che mi frega di tanto pavoneggiarsi? Il mercato dei libri fa meno fatturato di quello dei lombrichi vivi, la gente preferirebbe donare un organo senza anestesia che leggere un romanzo. Eppure credersela e far partecipi tutti delle proprie piccole insignificanti glorie quotidiane non passa mai di moda. Guai che qualcuno non venga a sapere che a Borgo San Ceppo, vicino alla fontanella delle suore, hai incontrato Ralph Cicciobello, attualmente 39esimo nella classifica dei libri sui bambolotti più venduti. O che ha telefonato in redazione quel tale aspirante autore, magari il primo dopo mesi in cui nessuno ti ha cagato, e lì giù a prenderlo per il culo su cielo, terra e social network che Dio t’ha donato. Cari editori, tiratevela di meno, perché le cose vanno maluccio. Piuttosto, cercate la passione persa per strada e, sulla strada, zaino in spalla, cercate gli occhi di chi sa accendervi con le parole gli interruttori dell’anima e pubblicatelo. Soltanto lui, pure se non è amico di un vostro amico, né il nipote. E smettetela di rompere le palle ai vostri followers con tweet che si capisce a un miglio che li avete scritti per far rosicare.
Usatelo in modo diverso ‘sto Twitter, che devo dire, mi garba. A proposito, se qualcuno vuole followarmi per farmi sentire un po’ meno solo e per scambiare 4mila chiacchiere con me, lo faccia (cliccando qui) ché io sono contentissimo.

Il linguaggio della Terra

Ieri e poi oggi è di nuovo accaduto qualcosa nella parte di mondo che abito.
A L’Aquila, nel primo pomeriggio di ieri, il cielo è diventato blu. Prima di cena ha cominciato a grandinare. Il ghiaccio rimbalzava a terra e lasciava nei nostri occhi uno stupore poetico che ci trasmettevamo l’un l’altro. Poi è arrivato un vento fortissimo. Il suo urlo furioso mi ha paralizzato, mentre tutto il resto si muoveva e sbatteva, e gli alberi cadevano sulle strade. Sono dovuti intervenire a rimuovere un gigantesco tronco, che tagliava a metà l’asfalto del rettilineo che porta a casa mia. Una volta al sicuro, sotto le coperte e con la radio accesa per non sentire il boato, chiacchieravo in chat con un amico che sta a Teramo. Mi chiede se avesse appena fatto il terremoto a L’Aquila. Io gli rispondo che poteva anche darsi; visto il macello di rumori che arrivavano da fuori magari c’era di mezzo pure una scossetta. Controlliamo e la scossa c’era stata sì, ma con epicentro localizzato proprio a Teramo. Da quel momento la terra ha tremato per tutta la notte in provincia di Teramo. 18 le scosse che si sono susseguite, tutte di magnitudo superiore a 2. La più forte alle 4 di mattina, di 3.4.
Stamattina mi sveglio e fuori nevica. Fiocchi pesanti, carichi d’acqua. Comincio a scrivere. Ogni tanto butto gli occhi fuori e la neve non smette. Da un certo momento in poi non ci guardo più. Quando smetto di scrivere mi accorgo del sole, che rimane. Il cielo è di un azzurro velato da una sottilissima foschia, però luminosissimo. Lo guardo e penso che è incredibile che si tratti dello stesso cielo di ieri e di poco fa. Come se non tutto avesse bisogno di tempo per mostrare l’altra faccia. Come se il cielo e la terra avessero la capacità di trasformarsi senza percorrere le tappe del cambiamento. Diversi dalla roccia e dal mare che la modifica nei secoli, fino a levigarla e a restituirle una forma nuova ogni giorno. Impercettibile metamorfosi. Il cielo urla, non sussurra. È un segno di potenza e prepotenza.
Ieri ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte all’ennesimo segnale impossibile da comprendere a pieno, per me che sono un essere umano. Sono andato oltre, perché ho capito che c’era dell’altro in quel vento, in quel frastuono, in quell’abbattersi di tronchi e cartelli pubblicitari, in quei terremoti e in quella neve vinta dal sole. Il linguaggio della Terra che parla, talvolta in modo educato, talvolta urla e calpesta i nostri ragionamenti, sempre per dirci qualcosa che secondo me ha a che fare con la ribellione.
Vi capita mai di cogliere segnali nelle cose attorno, che non riuscite a decifrare? Di chiedervi per ore cosa significasse quell’incontro, quello scontro, quella coincidenza, quella non-coincidenza? Andate oltre oppure vi rispondete che si tratta di una casualità?

A ognuno il proprio destino. A Jovanotti il suo e pure a Francesco Pinna

Sono reduce da una settimana di inutili corse. Appuntamenti e scadenze da rispettare, serate a cui avrei voluto mancare, ma non potevo. Mi fermo un attimo a pensare. Penso pure mentre corro; quando mi fermo, il pensiero si fa più ragionato. È meglio pensare da fermi. Lo analizzo assieme alla logica delle cose. Lo ricostruisco dal momento della sua venuta al mondo. Lo posso capire, perché mi focalizzo solo su quel pensiero.
Rifletto sulla disgrazia capitata a Francesco Pinna e di conseguenza sul bizzarro modo di muoversi del destino. Penserete che è un argomento ormai fuori moda. Adesso va tanto far finta di essere stato stuprato e denunciare un rom e bruciare i campi rom e sparare sui rom. [Poi, se i rom s’incazzano, c’hanno pure ragione.]
Non so perché la notizia di Francesco Pinna si sia così radicata nella mia mente da non permettere alle altre di acquisire un grado di priorità superiore. L’età del ragazzo forse: quei 20 anni che, quando li vedo negli occhi degli altri, penso sempre che sono l’età della vita, della passione e del ghiaccio che vuole gelare il mondo. Il lavoro che faceva al momento della tragedia, anche. Lavorava all’allestimento dell’enorme palcoscenico sul quale sarebbe dovuto salire Jovanotti, per la tappa triestina del suo Ora Tour 2011. Un’impalcatura ha ceduto; gli è crollata addosso causando la sua morte e il ferimento di diversi colleghi, uno dei quali ha dichiarato all’ANSA:

Sai quanto guadagna un ragazzo come lui? 5 euro l’ora. Si può morire per questo?

Se di euro ne avesse guadagnati 8 o 10, sarebbe rimasto più o meno lo stesso discorso: non si puòdeve morire per questo. Il (mio) punto non è legato alla mole degli incidenti sul lavoro che non accennano a diminuire – solo per citare i cantieri, dovremmo raccontarne migliaia l’anno -, ma al significato che mi sono sentito immediatamente in dovere di dare alla disgrazia di Francesco Pinna. Cerco un senso nelle cose che un senso non ce l’hanno. [Vasco l’ha trovato nei suoi clippini francamente imbarazzanti. Beato lui!]
L’ho cercato nel terremoto e non l’ho trovato, per esempio. Lo cerco nella morte di un ragazzo 20enne che ama la musica, che si paga gli studi con un lavoro di facchinaggio e avrebbe speso quei soldi per il biglietto del concerto. Beh, non lo trovo, proprio no.
Jovanotti dice di essere devastato dalla notizia perché, quando si va in tour, ci si sente tutti parte di una stessa grande famiglia. Ma che dici, Jovanotti? Non è vero, non è così. Non c’è nessuna stessa grande famiglia. Ce ne sono molte, diverse, squilibrate per condizione di vita. Quella del 20enne, che inchioda ferraglie per pochi soldi, erige il trono sul quale si accomoda la star e muore, schiacciato dalla necessità del fasto, delle luci che non avrà, ma che si ostina a costruire. E quella di Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti, senza colpa, ci mancherebbe, ma che non c’entra proprio niente. I componenti di una grande famiglia si ritrovano la sera attorno allo stesso tavolo, dormono in stanze diverse di una casa comune, se sono lontani si telefonano. Perché, Jovanotti, devi dire che Francesco Pinna faceva parte della tua stessa grande famiglia? Perché lo devono dire gli altri cantanti, amici tuoi, che all’improvviso si sentono protagonisti di uno show che, per una volta, non prevede che siano loro illuminati dall’occhio di bue?
È  vero che a ognuno tocca convivere col proprio destino. A Jovanotti il suo. E pure a Francesco. Distinti e lontanissimi. Altro che stessa grande famiglia. Questo volevo dire.

Poi inventi il modo

Oggi avrei dovuto raccontarvi le stra-galattiche emozioni vissute in fiera. Avrei esordito con qualcosa del tipo: “Proprio non potete immaginare chi ho intervistato mentre faceva la pipì in piedi alla turca dell’unico bagno del Palazzo dei Congressi!”, oppure: “Fatemi subito ringraziare Titti, Nanni, Mimmi, Pussi, Betti, Patti, Babi, Step, Pollo e Gallina per essere passati allo stand e aver creduto in me portandosi a casa una copia di Supermarket24”. Avevo pure pianificato il rapimento della signora Dacia Maraini, nel caso avesse rifiutato il mio invito a prendere un caffè assieme. E invece niente fiera, niente rapimenti, niente emozioni. Alla disavventura di Madre nello scorso post narrata si unisce quella di Papi, la mia amica che avrebbe dovuto accompagnarmi e che l’ultimo (e unico) libro che doveva leggere, ma alla fine non ha letto, è 3 Metri Sopra Ar Cielo che però le hanno rubato sul bordo della piscina (quello sì e il portafogli no) e lei ha pianto. Tanto grande è stato il trauma, che non ha più aperto un libro. Mentre il giovedì si recava al lavoro con un lieve mal di pancia, ha emesso un rutto – così lei descrive il fatto – e, senza avere il tempo nemmeno di accostare e aprire lo sportello, ha riempito l’abitacolo di materiale gastrointestinale espulso dalla bocca. Per la serie: Come rimettere pure l’anima nella propria macchina. Ha fatto dietrofront e ha ripreso la via di casa, alla guida di una vasca di vomito a motore. Per fortuna non è fidanzata con un comune mortale, ma con un Santo martire destinato per direttissima al Paradiso. Il Robi gliel’ha ripulita tutta quanta con le sue nude mani, mentre lei si dedicava a guarire sorseggiando tisane.
Quello che nello scorso post ho descritto come un giorno NO, ha risvegliato tutte le demotivazioni che, quando si incontrano dopo tanto, si mettono a far baldoria, condividere esperienze e fallimenti e allora altro che i 5 giorni mensili delle ragazze! Oggi va meglio, ma ho la sensazione che il mio umore viaggi ai ritmi della Borsa. Ieri perdeva il 4 per 100 oggi guadagna lo 0 virgola 1 e gioisco prima del nuovo crollo. È un po’ che le cose funzionano male, come in Italia così nella mia vita. Colpa di una gestione sbagliata durata troppo. Sono alla ricerca di una soluzione che mi porti fuori dallo stallo degli ultimi anni che, agli occhi di chi non mi conosce, potrebbero apparire persino eccitanti. La verità è che non sono riuscito a condurre in porto nessuna delle mie navi-obiettivo. Questo è un bel problema. Quando ne parlo, ho la sensazione di non essere capito. Di essere giudicato e io veramente ora non voglio essere giudicato. Non mi sta bene che qualcuno lo faccia, oltre a ferirmi senza scuotermi. Mi giudico già abbastanza (male) da solo.
Forse bisognerebbe cambiare il reggente, come hanno fatto in Italia. Nominare un governo tecnico per la gestione temporanea della mia vita, che mi riconsegneranno non appena l’avranno rimessa sul binario giusto. Forse io sono come Berlusconi. Mi rassicuro, mi tiro su con le mie barzellette che fanno ridere tutti (davanti a me, poi provano pena appena do loro le spalle) mentre la mia vita va a puttane (ecco che torna la somiglianza col Premier). Nel frattempo mi consulto coi miei vicini di anima. Insieme mettiamo su un piano di risanamento fatto di manovre dure, di ottimizzazione del tempo e delle risorse che io tendo a disperdere giorno dopo giorno. I giorni diventano anni e io continuo a far ridere tutti.
Saranno mesi di rinunce, per stare meglio poi, fatti di regole ferree e svuotamenti. Bisogna buttar via la spazzatura, le occupazioni che risucchiano e non mi portano da nessuna parte così come le pippe mentali che mi tengono pomeriggi incollato a una canzone triste che mi impantana. Scriverne non fa parte del loop. Significa ammettere che così non va. Scriverne mi serve ad andare dritto verso l’obiettivo numero 1: la mia laurea.
[La canzone triste è questa. Pure se la mia tristezza non c’entra niente con l’amore.]
Mi consolo con la foto del bellissimo stand Camelozampa con la sorridente editora Saorin e coi Supermarket24 sparsi qua e là.

[Madre Titanic]

Ieri è stata una giornata NO di quelle che un pianto all’una di notte ci sta bene come la Nutella su una doppia crema catalana caramellata. Madre ha subìto un incidente a bordo della mia automobile. La cosa non l’ha minimamente turbata. Come poteva essere altrimenti? Lei è inossidabile, indistruttibile, ignifuga, dura come il diamante e, da quando frequenta la comunità di recupero dell’acquagym, è diventata pure impermeabile e inaffondabile come il Titanic. Ehm.
La mia automobile è una Chevrolet Matiz acquistata 6 anni fa e della quale devo ancora pagare metà del suo (di allora) valore commerciale (adesso vale meno di un pacchetto di patatine Puff, ma quanto vale adesso non conta) in comode rate mensili di euro 190 che si esauriranno il primo luglio 2013. Aaahhh! Dolore!
L’autrice del tamponamento è un’ottantenne con gli spilloni in testa, a bordo di uno scassacatorcio degli anni 20 che, in retromarcia dal suo parcheggio tombale, non si è accorta dell’arrivo di Madre e così l’ha presa in pieno. Il culo dello scassacatorcio, dopo aver sfondato lo sportello della mia Matiz, si è accomodato sul sedile del passeggero.
Madre sta benissimo. Lo stesso non si può dire dell’automobile, se ancora vogliamo chiamarla così, e della ottantenne pilota, che forse non stava tanto bene neppure prima. Lo dimostrano le parole proferite immediatamente dopo la botta: “Signora, ma lei da dove arriva?”
“Dal cielo, come la Madonna! Sono apparsa all’improvviso dietro di lei.”
Ne consegue che oggi, giorno di riposo settimanale chiesto mesi fa per poter passare la giornata in compagnia della Sara, della Francesca e della Rachele a firmare copie e fare il figo allo stand Camelozampa, che espone a Più libri più liberi di Roma, l’ho passato invece a L’Aquila a fare i giri fra le assicurazioni e il mio meccanico di fiducia in compagnia di Madre. Capite che fra le 2 opzioni non c’è solo qualche differenza. È come trovarsi in paradiso, quando all’improvviso un buco nero ti risucchia e ti sputa in una dimensione terrificante, fatta di dolcissime urla materne, per poi scoprire che il meccanico ha fatto ponte, perdendo la mia fiducia, e allora bingo!
Aggiungiamo al piatto ricco il pizzico finale di demotivazione, causata ieri mattina dal nuovo crollo delle mie aspettative. Le braccia, al cospetto di certe risposte, si scusano, ma proprio non ce la fanno; si staccano dalle spalle, piombano a terra e rotolano nella fogna più vicina. La crema catalana caramellata non ce l’avevo, la Nutella neppure, così mi sono sfogato con un bel pianto che va di moda, soprattutto nelle alte sfere. A differenza della nostra ministra, l’ho fatto non perché non riuscissi a pronunciare la parola sacrificio, ma perché piangere fa bene alla salute. Lo dice il professor William Frey in un’intervista all’Indipendent.

Penso che ci sentiamo meglio dopo aver pianto perché ci siamo liberati di qualcosa. Le sostanze chimiche che sono prodotte quando siamo sotto stress, probabilmente sono rimosse attraverso le nostre lacrime quando noi piangiamo. La capacità dell’uomo di piangere gli permette di sopravvivere.

Il professore pensa che le lacrime siano necessarie. Senza, non potremmo espellere totalmente lo stress incamerato e ciò farebbe aumentare il rischio d’infarto. Col pianto notturno devo essere riuscito a buttar fuori quasi tutte le energie negative, al punto che stamane la giornata è iniziata con la bella notizia che noi tutti aspettavamo. Il ristorante tipico ha sganciato il money, spiccioli di rame compresi. Il bonifico di euro 419 e 20 centesimi risulta sul mio conto corrente online. Tiro un bel sospiro di sollievo e telefono al mio amico Leoluca per informarlo che non c’è più bisogno di fare quelle azioni lì delle quali avevamo parlato, giusto per far capire al ristoratore che mica passiamo il tempo a spogliare i manichini.
Voi avete qualche rimedio quando l’umore va giù e non ce la fate più? (Guarda che non esiste solo lei, devi muoverti un po’ ooo-ooo…)

Ridammi i miei soldi, stra-maledetto T!

Il furto perpetrato ai miei danni da un tipico ristorante di Porretta Terme, del quale scelgo di mantenere (ancora per poco) l’anonimato, non sembra per ora proiettato a un’amichevole risoluzione.
Riassunto puntata precedente [
– Al termine della cena di martedì scorso, peraltro molto gradita, il folle digita, con estrema nonchalance, 465,70 euro al posto di 46,50 e mi porge il POS affinché io inserisca il PIN (senza controllare l’importo, non lo faccio mai, stronzo che non sono altro) e io lo faccio.
– Mi accorgo solamente a casa, 3 giorni dopo, della sparizione della somma di euro 419 circa, equivalente per intenderci a metà della mia busta paga, a 500 chilometri di distanza dal tipico ristorante in questione.
– Chiamo il fisso del ristorante. La signora, prima mi deride quanto basta per farmi sentire un idiota, come se la colpa fosse mia, cosa alla quale più volte mi pare che alluda, poi m’invita a chiamare il signor T, titolare e fratello del digitatore folle. (Il nome e il cognome saranno svelati assieme a quello del tipico ristorante, qualora la faccenda persista su questa cattiva strada, non soltanto a voi lettori, ma anche al mio avvocato, alle forze dell’ordine, e pure al Pentagono e all’Area51).
– Telefono al signor T che mi chiede un fax con lo scontrino della ricevuta del POS e l’IBAN del mio conto corrente, promettendomi il bonifico fra il lunedì e il martedì della settimana entrante, cioè ieri.
– Io ci aggiungo un paio di righe riassuntive, tanto per avere la certezza di evitare fraintendimenti e concludo: “Per qualunque comunicazione può contattarmi al numero 3497xxxxx3.” Invio il fax il venerdì stesso.
Fine riassunto puntata precedente che trovate nella sua interezza a questo link]
Visto che quei 419 euro mi mancano più di quanto ad Heidi mancasse Peter, rinchiusa nella villona di Clara con quella simpaticona della signorina Rottermeier, a Francoforte, stamattina, dopo aver verificato che sul mio conto non s’era mossa una foglia, decido di richiamare. Se avessero ricevuto il fax, avrebbero già chiamato. Ce l’ho messo apposta il mio numero, mi ripeto. Beh, mi sbagliavo. Il fax è arrivato, ma nessuno se l’è cacato.
“Ristorante La VxxxxxA buongiorno?”
“Buongiorno, sono Matteo Grimaldi. Volevo sapere se avevate ricevuto il fax che ho inviato venerdì.”
“Quale fax?”
“Quello con i dati per il bonifico. Ha presente la faccenda del POS che invece di scalarmi 46 euro me ne ha scalati esattamente 10 volte tanti?”
“Un attimo che le passo il titolare.”
Non faccio in tempo a dire: “Sì, grazie” che la sento presentarmi così: “È quello del bancomat”.
Cioè, io sarei quello del bancomat?
“Pronto?”
“Salve, io sono quello del bancomat, lei dev’essere il signor T.”
“No, sono il fratello.”
“Ah, allora è lei che ha digitato, quella sera!”
“Sì, come sta?”
“Io bene. Voi?” (Il locale è ancora tutto intero, sì? Aspettate qualche altro giorno ancora e vedrete… le pietre proprio, piovere dal cielo, ma grandi grandi!)
“Ha ricevuto il bonifico?”
“Ehm. No, ho chiamato proprio per sapere qualcosa.”
“Mi può richiamare fra 5 minuti che chiamo T?”
Passano 5 minuti. Penso che 5 minuti uno lo dice tanto per dire e allora ne aspetto altri 3. Richiamo; squilla libero, ma non mi risponde nessuno. Metto l’acqua a bollire, il sale. Mi sbuccio un mandarino, poi un’arancia. L’acqua bolle, butto 130 grammi di spaghetti (quando mi innervosisco mi sale la fame). Richiamo. Potrebbe suonare all’infinito, eppure è ora di pranzo e quello è un ristorante, mica l’ufficio del signor Sindaco. Mi preparo per andare al lavoro. Porto con me la solita mela. È una specie di tradizione, io guido masticando mele. Visto che guidare e contemporaneamente mangiare una mela non mi basta, decido di richiamarlo, con l’auricolare eh! Stavolta risponde.
“Ristorante La Vxxxxxx, buongiorno!”
“Buongiorno sono sempre quello del bancomat. Ho chiamato circa 15 volte, ma nulla.”
“Sì, mi scusi, ma… Comunque T mi ha detto di dirle che si scusa tanto, ma…”
“…” (?)
“…si è dimenticato di farle il bonifico!”
“…” Non credo alle mie orecchie.
“Pronto? Mi sente?”
“Sì, la sento. È che la cosa mi lascia un po’ perplesso.”
“Glielo farà entro venerdì!”
“Bene, allora richiamo per confermarvi l’avvenuta ricezione.”
Io penso che se mi fosse capitato, e non mi è mai capitato, di appropriarmi, pure involontariamente, di una somma di denaro che non mi appartiene, mi sentirei così male, ma così male, che potrei farmi anche 500 chilometri per riportare i soldi a chi li ho sottratti. Mi preoccuperei di chiamare, scusarmi almeno 10mila volte. Farei in modo che capisca che mi dispiace sul serio, oltre che cercare di porre rimedio al guaio il prima possibile. Invece questi se lo dimenticano. Sì, come alle elementari rispondevo alla suora quando mi beccava senza compiti: che me li ero dimenticati. Certo!
Che faccio se venerdì non mi vedrò restituito il maltolto?