Ieri. Via XX Settembre. L’Aquila

8 meno 20 della sera.
Le luci dei lampeggianti blu della polizia. La mia amica pensa a un posto di blocco, si aggancia la cintura di sicurezza che fino a quel momento non aveva indossato. Io dico che non sono sicuro di aver fatto la revisione alla macchina. Lei ride. Rallento, per evitare di dare nell’occhio. A terra ci sono 2 caschi da motociclista e un paio di scarpe. Ci sono pezzi di ferraglia ovunque. Qualcuno osserva dall’angolo una scena che a un tratto ci obbliga al silenzio. Mi rendo conto di avere gli occhi sbarrati su quei 2 caschi e le scarpe.
Un grave incidente. Ci diciamo solo questo io e la mia amica. Assecondiamo una tristezza che non può essere altro che leggera per l’ennesimo sconosciuto che ha sbattuto con la moto. Questo è tutto quello che sappiamo al momento. Procediamo, abbiamo una serata davanti. L’incontro, l’aperitivo, la cena. Lo slogan ripreso da una trasmissione televisiva che continuiamo a ripetere e ogni volta ci fa ridere di più. 2 bottiglie di Traminer e un’altra dal nome un po’ troppo altisonante per le nostre tasche di precari part-time. Scordiamo l’incidente finché alla mia amica arriva la telefonata di un’amica comune. Il ragazzo a bordo della moto ha fatto un volo di 10 metri. È arrivato in ospedale in condizioni gravissime e dopo poco è morto. Aveva 33 anni. Il nome alla mia amica non dice nulla, quando lo ripete a me smetto di pensare. È difficile da credere, ma prima ancora di sentirlo avevo già la sensazione di aver sbagliato a sottovalutare quel grave incidente. La sensazione che c’entrasse con me.
Lo conoscevo, non bene. Era il fratello della mia amica d’infanzia. Quando è nata mia sorella ho obbligato mia madre a chiamarla Roberta perché ci si chiamava lei, dell’ultima palazzina. Siamo cresciuti insieme. La ribelle che veniva da Roma e saliva sugli alberi e il pacioccone piagnucoloso che si aggrappava al tronco come un koala e non riusciva ad andare su né giù. Poi abbiamo litigato per una storia di bacche rosse e una scritta su un muretto e non ci siamo parlati per un sacco di anni. Da quando mi sono trasferito in periferia ci siamo persi di vista. Quando ci siamo rivisti abbiamo parlato di quella scritta e di quelle bacche – i ragazzini erano cresciuti ed era arrivato il momento di farci una gran risata – e poi ci siamo chiesti come stavamo.
All’improvviso questo. Mi dispiace da morire. Mi sembra così stupido quel che accade, certe volte. Delle robe terribili che non servono. Il dolore inutile e perenne, non me lo voglio chiedere che senso possa avere. Perché la risposta è: nessuno. È volontà dell’uomo tentare di costruire qualcosa che sia degno di un’intera vita indirizzata a quello scopo. Fa fatica l’uomo a farlo, ogni giorno, davanti alle difficoltà che si moltiplicano. Nessuna fatica per la distruzione ottenere il proprio risultato: azzerare tutto con in più un buco profondissimo nel quale ci finiscono i ricordi, le immagini, i cuori, i sogni, la fatica.
Via XX Settembre a L’Aquila è una strada sfortunata. Un cimitero ormai, come dice un mio amico.