Il trionfo della risata, passando ahimè per il professor Meluzzi

Qualche volta esplodo come una bomba. BOOOM!
Mi si sono ingrossate (non ci vuole molta fantasia per intuire l’oggetto dell’ingrossamento) a forza di contenermi in nome di quella diplomazia che contraddistingue le persone educate, quell’aplomb da salotto televisivo, per quanto nei salotti televisivi accada veramente di tutto.
Attenzione: se alla vista del professor Meluzzi in TV vi si gonfia la lingua, lance infuocate vi trafiggono lo stomaco e vi gratta tutto è consigliabile saltare il paragrafo racchiuso fra parentesi quadre in grassetto e passare oltre.
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Secondo me il prossimo grande omicidio di cui si occuperà Salvo Sottile a Quarto Grado sarà quello del professor Meluzzi, in diretta. Dio quanto è odioso quell’uomo (parere personalissimo, non so voi…) con quegli odiosi occhialetti rotondi da mago quindicenne che si tocca continuamente (gli occhialetti. Lo preciso perché per un attimo mi ha raggiunto l’immagine di Meluzzi che si toccava altro e, dopo l’immagine, il vomito). Quella parlantina saccente e odiosa (sì, odiosa, perché non ti può non mancare mai la parola giusta, non è umano dio mio! Dev’esserci almeno un istante nella tua lunga vita, uno soltanto in cui incespichi con i termini e ti blocchi a pensare a quella parola sulla punta della lingua che a te, merluzzone di un Meluzzi, non manca mai). Sai sempre tutto. Si parla di omicidi e tu sai chi è stato, si parla di violenza carnale e tu ne hai subite, si parla di vita nell’Universo e tu hai conosciuto ET, si parla di droga e tu… pure qua sai cosa dire. Non ti annoi a non avere mai un dubbio nella vita? Mica ti offendi, se esprimo la mia. Va be’ che (Meluzzi) pare offendersi anche per il solo fatto che a interloquire con lui non sia Dante Alighieri, bensì un comune essere umano che, prima di rivolgere all’esimio la sua umilissima domanda, quasi si sente in dovere di scusarsi di esistere. I principali sospetti del delitto davanti alle telecamere (in quel momento spente) ricadranno su Picozzi. Lo sanno tutti che Picozzi è geloso si Meluzzi. Meluzzi gode della stima delle tette di Barbara D’Urso e lui solo di quella del neo di Bruno Vespa, poveretto. E su di me, vai a capire il perché. Mi è anche simpatico Meluzzi. Ehm.]
Qualcuno mi dice che sono cambiato. Qua volevo arrivare. Mi rendo perfettamente conto che la digressione sul professor Meluzzi non è per nulla funzionale al concetto, ma son quegli sfoghi che vanno un po’ per i fatti loro. Pensate a che punto di (in)sopportazione sono arrivato. Dicevo, cambiato nel senso che adesso rido quando mi criticano, che adesso rido quando qualche deficiente viene a dirmi come si fa questo e quello dimenticandosi che questo e quello gliel’ho insegnato io, anni fa. Che prendo le mazzate con sportività, perché rido. La verità è che ho semplicemente fatto un calcolo dei pro e contro, e ho trasformato il mio sorriso in una detonazione. La mia forma di protesta (quando ne vale almeno un po’ la pena) è diventata una sonora risata.
“Scusami se rido, ma quello che dici è comico!”
Volete mettere l’efficacia, rispetto al dispendio di energie di una litigata che provoca pure un abbassamento di voce? Per non parlare poi della rabbia che si parcheggia sul fegato e lo mangiucchia a poco a poco. Che resta, disposta a rovinare ora per ora tutta la giornata. No, io ho smesso. Io rido e dico la mia. Chi tace di fronte all’ingiustizia è ingiusto per primo, chi urla (e l’ho fatto per anni) non ottiene quello che merita e comunque, anche dovesse ottenerlo, alla fine dei conti gli sarà costato troppo.
Una risata signori. Bella, di gusto, derisoria, scrosciante. Una risata vi seppellirà. (O disseppellirà, come dicono quei ganzoni di Spinoza, che morir dal ridere non rende giustizia a quel che mi capita ogni volta che li leggo.)
“Non ridermi in faccia.” “Scusami ancora, ma sono trent’anni che rido, non pretenderai che smetta di farlo adesso, proprio davanti a te.” Ecco, così.
Una risata può essere divertente, come pure complice. Una risata insieme, dolce, di cuore. Una risata è capace di proteggere da un brutto colpo, come uno scudo e di contrattaccare gelida. Definitiva, gelida, gelida. Gelida.
Combattete le vostre battaglie con una risata, porterete a casa grandi trionfi.

Buona fortuna a chi se ne va

Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno, si dice. Per favore cerchiamo di evitare gesti scaramantici poco eleganti perché non è di tirare le cuoia che parlavo, ma di andarsene: moto da luogo. Quale luogo? Beh, quello in cui stavano e che non gli piaceva, altrimenti non sarebbero andati via. Qualcuno è costretto ad andarsene, è vero, ma parliamo di chi vuole andarsene e ci riesce. Altri, tempo di sistemare poche cose e se ne andranno, far quadrare gli ultimi aspetti per evitare di lasciarsi dietro un vagone di rimpianti. Lo ripetono da una vita. Poi le cose si moltiplicano, gli obiettivi a portata di mano si allontanano fino a non poterne distinguere più forma e lineamenti. Una sconfinata attesa diventa una sconfinata rassegnazione, e non se ne vanno più. Invecchiano fra le stesse mura, con gli stessi propositi, uno in particolare: andarsene quanto prima. Quel che accentua il dolore è che ad andarsene sono gli altri. Certa gente che non gli avresti dato 2 lire, invece ce la fa e (a proposito di volgarità) te lo mette proprio là. A te che lo meriti di più, pensi tu. È come se la loro riuscita avesse l’effetto di chiudere la serratura della gabbietta al cui interno attendi paziente evoluzioni, e poi gettato la chiave nell’oceano. Dalle sbarre colorate di verde vedi la casa dei tuoi vicini. Se sposti un po’ lo sguardo a oriente puoi arrivare a seguire le automobili sfrecciare sulla statale. Raccontano che oltre i campi c’è un condominio e che al secondo piano ci viva un vecchio che racconta un mucchio di storie a cui non crede più neppure lui. Mi fa pensare a mia nonna. Quando mia nonna racconta i suoi anni più avventurosi, gli aneddoti, come ogni volta se l’è cavata, gli incontri con la Storia, le magie che hanno salvato i suoi cari, non riesco mai a capire dove finisce la realtà e inizia la fantasia. Ma mi commuove sempre.
Non si respira una brutta aria qui. Fredda, rigenerante. Le montagne proteggono e isolano L’Aquila massacrata. Non è alla disavventura che lego la volontà di andarmene. È una volontà vecchia, una non-volontà visti i risultati, le grosse radici che mi tengono a portata di passo.

“Se non vi piace il luogo che abitate, potete cambiarlo. Non siete delle piante.”

Non ricordo la fonte (né sono stato in grado di ritrovarla), ma il messaggio era più o meno questo.
Con chi vuoi prendertela?
E allora non resta che accanirsi su chi ce la fa a scrollarsi di dosso la ruggine e si mette a correre alla ricerca della felicità. Il giudizio è quasi sempre il comportamento dei codardi, di chi di fronte allo specchio dà la colpa delle sue imperfezioni alla scarsa luminosità, alla polvere.
Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno, c’è poco da chiacchierare. La verità è che sono migliori di te e di me. Pure se nessuno si azzarderebbe a sostenerlo, lo faccio io. Perché la gabbia l’hanno sfondata a calci e hanno respirato il cielo e visto le città.

Buon compleanno a Irvine Welsh, l’autore di Trainspotting

Oggi Irvine Welsh, l’autore di Trainspotting, compie 53 anni.
Fare trainspotting significa guardare i treni in stazione, che arrivano e che partono. Lo fanno i disoccupati per ammazzare il tempo. Renton e Begbie vengono avvicinati da un vecchio barbone mentre stanno urinando nell’ormai dismessa stazione centrale di Leith: costui chiede loro se stanno facendo del trainspotting. Da qua viene il titolo del romanzo d’esordio di Irvine Welsh, nonché il più fortunato. Ne venne realizzato il film omonimo, diretto da Danny Boyle e presentato al Festival di Cannes.
Trainspotting è la vita ai limiti della legalità di un gruppo di ragazzi edimburghesi di periferia, ognuno con la propria dipendenza. Spud, Sick Boy e Renton si fanno di eroina, Begbie sembra posseduto dal demone della violenza insensata. Il protagonista è Renton che dopo aver provato più volte a uscirne fuori invano, e aver visto i suoi amici più cari morire di AIDS, fugge da Leith nel tentativo di ricominciare tutto a Londra dove mette su un giro di affari di truffe. Torna a Leith soltanto per il funerale del suo amico Matty. A Londra vive con Kelly, per poco tempo però, perché la monotonia lo stringe in una morsa soffocante, così torna a casa dai suoi amici di un tempo.
È il momento della grande occasione e del tradimento. Vendere 2 kg di eroina a Londra. Tutto va a buon fine, Renton incassa le 16000 sterline pattuite, ma al momento di dividere i soldi con i suoi amici si allontana verso l’Olanda. L’amicizia tradita, l’amicizia che da carnale diventa inutile di fronte al denaro, al sangue che ha bisogno di sostanze più che di legami.
L’incredibile successo seguito alla pubblicazione del libro portò a Irvine Welsh una candidatura al premio Booker. Pareva una vittoria sicura e invece arriva la cacciata. La motivazione è “l’aver offeso la sensibilità femminile di 2 dei giudici”.
Quanto vi fa ridere la cosa?
Trainspotting inizia così:

Sick Boy era coperto di sudore; tremava tutto. Io me ne stavo lì schiaffato davanti alla tele, cercando di non dargli retta, a quel coglione. Mi buttava giù. Provai a concentrarmi sulla cassetta di Jean-Claude Van Damme. Come in tutti i film del genere, l’inizio era drammatico: era quasi obbligatorio. Poi, nel pezzo che veniva dopo c’era un grande sforzo per creare atmosfera, facendo tra l’altro entrare in scena il cattivo, e per far stare in piedi una trama proprio scacata. Comunque, Jean-Claude sembrava pronto a menare le mani da un momento all’altro.

Questo è un post di auguri, ma soprattutto di ringraziamento a Irvine Welsh, se non si era capito. Per averlo scritto, per aver arricchito la mia sensibilità con un grande dono. Non sarà femminile, né quella di un giudice del premio Booker, ma è pur sempre sensibilità.

Buona lettura e… sogni d’oro!

Non è vero che i sogni notturni seguono dinamiche inspiegabili della mente. Le classiche 5 pagine lette, con la disattenzione del sonno che avanza e la stanchezza del giorno che muore, avrebbero infatti il potere di condizionare fortemente il nostro sonno. O almeno questo dice un’inchiesta realizzata in Inghilterra da un’equipe di psicologi dell’Università del Galles. Dream Lab (traduzione simultanea: Laboratorio dei sogni) è lo studio condotto su un campione di 10000 persone in tutte le biblioteche della Gran Bretagna. Dai questionari è emerso che gli abituali frequentatori di luoghi culturali, circondati quotidianamente dai libri, tendono a ricordare meno i sogni e che le donne sarebbero più soggette agli incubi. Gli psicologi hanno cercato un legame fra letture e sogni.
Allora, sappiatelo. Le poesie fanno dimenticare i sogni e, nelle rare volte in cui al mattino il lettore di poesie ricorda il sogno, tende a tenerlo per sé. Al contrario di chi legge spesso storie d’amore che racconta i suoi sogni zuccherosi a chiunque incontri per strada. Sogni sdolcinati che pretendono di farsi raccontare e sogni poetici che non ci tengono per niente. Sogni socievoli e sogni asociali, intimi, solitari.
I racconti fantascientifici oppure i romanzi gialli portano immagini nitide, da una gran carica emotiva, non incubi però. Questo è curioso. Ci si aspetta che dopo la lettura dell’ultimo romanzo di Stephen King uno incontri nella notte vampiri, malvagie creature dei boschi e maniaci pronti ad afferrarlo e a fare di lui carne da macello. E invece no.
Svegliarsi col cuore che pare il primo rullo di tamburi lanciato dal capo tribù e tenere, per quanto possibile, gli occhi sbarrati per non rischiare di tornare fra le mani del malvagio demone. Ripercorrere l’inseguimento per tutta la città avvolta in una nebbia densa e silenziosa, l’agghiacciante momento in cui il demone ritrova la sua vittima fiutandola fra i vicoli. Possibile che non vi fosse una sola anima disposta ad aprirle le porte di casa, offrirle un rifugio sicuro?
“Per fortuna era solo un sogno!”
La colpa di chi è?
Dei fantasy che aumentano la frequenza di incubi notturni. Io non ricordo questi grandi incubi nelle settimane di lettura del ‘Signore degli Anelli’, ma se lo dice il dottor Mark Blagrove e il Chartered Institute of Library and Information Professionals…
Il fenomeno diventa rilevante se a leggere fantasy sono bambini o adolescenti. I fanciulli in tenera età sono più impressionabili dei grandi e questo fa sì che gli incubi aumentino di 3 volte rispetto alle notti degli adulti. Tipico dei bambini che leggono abitualmente fantasy è la lucidità nei sogni. Cioè loro, mentre sognano, sanno benissimo che stanno sognando e cercano il modo di uscirne, oppure di restarci, se l’avventura onirica li appassiona.
Quindi bisogna pensare anche a quale libro portarsi sotto le morbide coperte del letto perché, quelle poche pagine hanno il potere di rovinarci o rendere piacevoli (proviamo a guardare il bicchiere mezzo pieno) i nostri (bei ?) sogni, le nostre notti, diciamo quindi il 40 per 100 della nostra vita.
[Io sto leggendo ‘I love shopping in bianco’ e l’altra notte ho sognato che tornavo a casa dopo una lunga giornata di lavoro e sulla madre-poltrona, al posto di Madre, ci trovavo una pantera nera che mi dava il bentornato spalancando le fauci colanti bavetta sul pavimento. Considerando che Madre e la pantera in questione hanno non poche caratteristiche comuni, non so fino a che punto si sia trattato soltanto di un sogno.]

Weekbook. Partiamo incontrando Baronciani

Chi farà un salto su queste pagine nel weekend troverà un po’ più di letteratura. Questa specie di appuntamento del sabato e della domenica ha pure un nome: Weekbook. (Non iniziamo eh! Faccialibro sì e Settimanalibro no?!) Ringrazio Sololibri.net per la fondamentale collaborazione. Nonostante ormai mi conoscano benissimo, ancora non affidano ‘4 Chiacchiere (contate) con…’ a qualcun altro e di questo gliene sono grato. Non solo. Di tanto in tanto, se un libro m’è piaciuto o m’ha fatto schifino, lo scrivo e loro ospitano le mie recensioni. Weekbook sarà questo e altro.
L’altro si chiama ‘Ciak si legge!’ su Radio L’Aquila 1. Così annunciato potrebbe generare in qualcuno persino curiosità, ma non lasciatevi ingannare. Si tratta di un discorsetto semiserio del tutto personale che mi viene concesso riversare, dai microfoni di un’emittente radiofonica locale, direttamente sugli ascoltatori aquilani, popolo già abituato a forme di sventure notevoli. Ogni settimana il mio vocione per niente radiofonico – non è ciò che punto a fare nella vita, cerchiamo di farcene una ragione – si esprime su un libro letto, un sito visitato e piaciuto, un forum, un blog, qualcosa che comincia con quel www, neanche più necessario fra l’altro. Se sono stato a una presentazione, a letto con un’autrice, oppure presidente di giuria al concorso riservato a racconti inediti che abbiano per tema: ‘I neutrini della Gelmini – storie fantastiche del nuovo millennio’, mi siedo sulla poltroncina nera, nella “sala di registrazione”, all’interno del container da dove trasmettono dal dopo-terremoto, e parto.
“Ciao a tutti, bentornati a Ciak si legge! oggi parliamo dei neutrini della Gelmini…”
Per fortuna dura soltanto 5 minuti, secondo più, secondo meno e, sempre per fortuna, va in onda solamente una volta alla settimana: il sabato a mezzogiorno e in replica alle 19.00.
Spero abbiate notato il mio estremo gesto di generosità. Ho infatti aggiornato il blog molte ore dopo la messa in onda, così vi ho risparmiato la diretta della mattina. I più sadici potranno riascoltare la puntata alle 19.00 da questo link. Io lo segnalo a scopo informativo, ma voi vogliatevi bene! Pare che le richieste stiano inducendo la redazione ad attrezzarsi per i podcast che saranno disponibili presto nella sezione del sito della radio ad essi dedicata.
Ecco. Weekbook sarà più o meno questo. Un mix di interviste, recensioni, registrazioni per farvi trascorrere qualche minuto immersi nella natu… ehm cultura incontaminata (sembra la pubblicità di un agriturismo) con una tazza di tè verde bollente fra le mani, nella speranza che gli stessi stimoli che mi portano a scegliere gli argomenti possano fare da input per nuove discussioni, suggerimenti, condivisioni.
Bene. Appoggiate la tazza sul tavolo se no vi ustionate e partiamo con l’intervista ad Alessandro Baronciani. È un fumettista, disegnatore, artista, scrittore piuttosto noto. Per Rizzoli ha pubblicato con un buon successo la graphic novel ‘Mi ricci! L’amore ai tempi del T9’. L’ho conosciuto a una mostra a San Benetto del Tronto. Del come ne ho già parlato qua. Nonostante il piuttosto noto di pocanzi, io non l’avevo mai sentito nominare. Quindi conosciuto proprio nel senso: sono venuto a conoscenza della sua esistenza. Vi riporto il passaggio in cui Baronciani spiega la nascita dell’etichetta graphic novel.

Sul termine graphic novel, secondo me è andata così: un giorno dovevano mettere un nome in alto nello scaffale dedicato ai nuovi fumetti nelle librerie e hanno trovato quello. Il nome viene da una risposta che diede Will Eisner quando gli domandarono che cosa esattamente stesse disegnando. Novel in America è la parola che viene messa insieme al titolo e al nome dell’autore nella copertina dei libri. In Italia ci scriviamo “romanzo” loro ci mettono “novel”. Graphic sta per disegno o illustrato. Quindi romanzo grafico o illustrato. Che però in italiano un libro grafico non vuol dire niente mentre un romanzo illustrato ricorda troppo un libro per ragazzi e quindi l’hanno lasciato in inglese. Un po’ come negli anni ottanta quando si voleva far credere di pubblicizzare qualcosa di nuovo e lo battezzavano in inglese per creare più effetto.

Qui di seguito l’intervista per intero.

Ieri. Via XX Settembre. L’Aquila

8 meno 20 della sera.
Le luci dei lampeggianti blu della polizia. La mia amica pensa a un posto di blocco, si aggancia la cintura di sicurezza che fino a quel momento non aveva indossato. Io dico che non sono sicuro di aver fatto la revisione alla macchina. Lei ride. Rallento, per evitare di dare nell’occhio. A terra ci sono 2 caschi da motociclista e un paio di scarpe. Ci sono pezzi di ferraglia ovunque. Qualcuno osserva dall’angolo una scena che a un tratto ci obbliga al silenzio. Mi rendo conto di avere gli occhi sbarrati su quei 2 caschi e le scarpe.
Un grave incidente. Ci diciamo solo questo io e la mia amica. Assecondiamo una tristezza che non può essere altro che leggera per l’ennesimo sconosciuto che ha sbattuto con la moto. Questo è tutto quello che sappiamo al momento. Procediamo, abbiamo una serata davanti. L’incontro, l’aperitivo, la cena. Lo slogan ripreso da una trasmissione televisiva che continuiamo a ripetere e ogni volta ci fa ridere di più. 2 bottiglie di Traminer e un’altra dal nome un po’ troppo altisonante per le nostre tasche di precari part-time. Scordiamo l’incidente finché alla mia amica arriva la telefonata di un’amica comune. Il ragazzo a bordo della moto ha fatto un volo di 10 metri. È arrivato in ospedale in condizioni gravissime e dopo poco è morto. Aveva 33 anni. Il nome alla mia amica non dice nulla, quando lo ripete a me smetto di pensare. È difficile da credere, ma prima ancora di sentirlo avevo già la sensazione di aver sbagliato a sottovalutare quel grave incidente. La sensazione che c’entrasse con me.
Lo conoscevo, non bene. Era il fratello della mia amica d’infanzia. Quando è nata mia sorella ho obbligato mia madre a chiamarla Roberta perché ci si chiamava lei, dell’ultima palazzina. Siamo cresciuti insieme. La ribelle che veniva da Roma e saliva sugli alberi e il pacioccone piagnucoloso che si aggrappava al tronco come un koala e non riusciva ad andare su né giù. Poi abbiamo litigato per una storia di bacche rosse e una scritta su un muretto e non ci siamo parlati per un sacco di anni. Da quando mi sono trasferito in periferia ci siamo persi di vista. Quando ci siamo rivisti abbiamo parlato di quella scritta e di quelle bacche – i ragazzini erano cresciuti ed era arrivato il momento di farci una gran risata – e poi ci siamo chiesti come stavamo.
All’improvviso questo. Mi dispiace da morire. Mi sembra così stupido quel che accade, certe volte. Delle robe terribili che non servono. Il dolore inutile e perenne, non me lo voglio chiedere che senso possa avere. Perché la risposta è: nessuno. È volontà dell’uomo tentare di costruire qualcosa che sia degno di un’intera vita indirizzata a quello scopo. Fa fatica l’uomo a farlo, ogni giorno, davanti alle difficoltà che si moltiplicano. Nessuna fatica per la distruzione ottenere il proprio risultato: azzerare tutto con in più un buco profondissimo nel quale ci finiscono i ricordi, le immagini, i cuori, i sogni, la fatica.
Via XX Settembre a L’Aquila è una strada sfortunata. Un cimitero ormai, come dice un mio amico.

Lo spam degli egocentrici della rete

Sarà capitato a tutti di ricevere un’e-mail dalla propria o altra banca (è un esempio come un altro di mittente di questo genere di e-mail truffaldine: non la propria banca, ma chi fa finta di esserlo) in cui, con una scusa qualunque, che so, l’aggiornamento del database, vi si prega di “confermare” indirizzo, numero di telefono e talvolta codici di carte di credito, pin, password. A chi ha avuto la premura di fornire i propri dati consiglio un estratto conto immediato seguito dal blocco del conto. Poi ci sono quelle e-mail prive di personalizzazione, inviate senza il consenso dei destinatari, che si ritrovano, quando gli dice bene, una pubblicità di una compagnia telefonica, quando gli dice male decine di messaggi volti alla vendita di materiale pornografico o illegale, come software pirata o farmaci senza prescrizione medica. E poi quelle che non capirò mai. Continuano a scrivermi di aver vinto un concorso al quale non ho mai partecipato. Il premio è un carnet di 500 biglietti da visita che dovrei soltanto ritirare. Chissà quale sarebbe il mio destino se decidessi di farlo.
Comunque per proteggere la propria casella di posta elettronica o anche il proprio sito internet dall’aggressione di tutta questa spazzatura esistono dei software chiamati antispam che analizzano il contenuto dei messaggi ed eliminano, oppure spostano in una cartella dedicata, tutti quelli che assomigliano a spam. Assomigliare a spam non vuol dire esserlo davvero. Può capitare che la tua casella di posta interpreti l’e-mail più importante della tua vita come spazzatura e la getti via (ogni riferimento al sottoscritto è puramente casuale), quindi date sempre una controllatina a questa cartella prima di svuotarla definitivamente.
Qual è il confine fra autopromozione e spam? E come faccio a proteggermi quando l’autopromozione altrui diventa spam? Esistono dei software anti-egocentrici (io ho fatto… io ho detto… io ho scritto… io-Io-IO!) della rete?
È una tendenza comune a chi vive in funzione del consenso. Ci sei dentro anche tu. Vuoi perché hai pubblicato un libro e, se non dovessi venderne 10000 copie nella prima settimana ti sentiresti inutile e l’editore sostituirebbe il tuo nome con la prossima promessa della narrativa universale da promuovere (poi, nonostante ne vendi meno di 40, continui a dire che sei felice del successo inaspettato che stai riscuotendo). Vuoi perché intervisti attori di compagnie teatrali amatoriali che recitano solo in dialetto (ma non chiamarmi giornalista!) e, se tutto il mondo non venisse a conoscenza dell’idea che il protagonista dell’ultimo spettacolo a cui hai assistito ha sui sanguinosi combattimenti fra maiali selvatici, sarebbe una grandissima perdita per l’umanità. Vuoi perché per mestiere fai il collaudatore di aquiloni, ma nel tempo libero scrivi recensioni delle novità editoriali e ci tieni che tutti i tuoi amici di Facebook (ma proprio tutti tutti) sappiano che a te non va proprio giù che gli editori in questi ultimi anni stiano puntando su una letteratura scialba (Anna Karenina di Tolstoj è il caso principe che nella recensione citi per avvalorare la tua tesi).
E allora che fai? Spammi. In che modo? In tutti quelli che conosci, naturalmente. Invii la stessa e-mail a tutte la mailing list che nel tempo ti sei creato per un unico motivo: spammare. “Ehi non puoi perderti il mio ultimo lib… la mia ultima rec… il mio ultimo artic… la mia ultima interv…” Oppure ancor più facile, veloce e soprattutto gratuito: bombardi i social network pubblicando lo stesso stato decine di volte al giorno – piatto ricco mi ci ficco – per la gioia dei poveracci che un dì hanno avuto la cordialità di accettare la tua richiesta d’amicizia.
Siamo certi che il risultato di un tale e continuo tam tam sia l’interessamento, o forse tanta insistenza non ottiene altro che l’effetto contrario, e cioè che l’utente si stufi?
Poco fa, quando per la quindicesima volta in un paio di ore, ho dovuto rileggere – perché difficilmente puoi sottrarti – l’aggiornamento di un autore che invitava tutti i suoi 3000 e più amici di Facebook (io ero fra quelli) a cliccare su una recensione di cui forniva il link per aumentarne la visibilità e vincere così questo concorso che tiene conto solamente degli ingressi sulla pagina, non solo non ho eseguito quanto ordinato (in compenso sto subissando di click quella della sua concorrente più alta in classifica) ma l’ho pure cancellato da Facebook.

Sondaggi hanno indicato che al giorno d’oggi lo spam è considerato uno dei maggiori fastidi di Internet. (Wikipedia)

Pensateci bene prima.

Rinato

L’ho fatto. Sono stato proprio io. Il ragazzo tanto bravo, tanto educato, (non) tanto bello, quello che la vicina di casa conosce benissimo (senza averci scambiato più che un: “Ciao, salutami a mamma eh!” ogni tanto) e non pensava potesse mai fare una cosa simile. Lui che amava il suo blog verde acido. Ebbene sì, l’ho colpito con un piccone per ripetute ore, forse anche 4 consecutive. Lo confesso e giuro che non fornirò 37 versioni dell’omicidio, che a me di essere psicanalizzato da Morelli frega un ceppo, né erigerò altarini davanti ai quali inginocchiarmi per ricordare e onorare la sua memoria. Se mi guardo indietro veramente non mi riconosco. Tutta quella rabbia in corpo neanche un demone te la dà. Era una comune giornata, non particolarmente buia – il buio dei pensieri intendo – eppure all’improvviso mi sono sentito soffocare e non per via degli ultimi caldi di stagione. (Se sento una forma di vita lamentarsi per il freddo e il vento settembrino di questi giorni… qualche cosa farò, qualche cosa di sicuro io farò.) Piangerò. Come un coccodrillone affamato che si rispetti ho volontariamente masticato e a fatica digerito il mio cucciolo, smembrato a furia di cancellare codice HTML senza controllo. Lo odiavo talmente che godevo nell’aggiornare la pagina ogni volta più sconclusionata. Sparivano le sezioni, si accavallavano le immagini, la colonna laterale persisteva in una disperata agonia, nonostante la furia del dito sul Canc. Non voleva arrendersi alla sparizione. Guardando il risultato ho decifrato la causa: una stanchezza dovuta al passato. All’abitudine al passato, è più corretto. Ti abitui alle cose che vedi tutti i giorni, che un tempo ti entusiasmavano, che hai voluto con tutto te stesso. Non capisci che le stesse sensazioni che hanno acceso la scintilla della nascita sono ora pezzi senza vita, deteriorati e incollati fra loro in un tutt’uno che non riconosci, figuriamoci se può appartenerti. Finché vedi tutto e tutto insieme e ti ritrovi a massacrarlo senza aver paura del sangue, perché l’unica cosa che conta è liberarti in fretta dell’origine del tuo male. Sarà mica lo stesso meccanismo che scatta nella testa di un bravo maritino che da un giorno all’altro si trasforma in un mostro e fa a pezzi la moglie? Tutte quelle parole oltre che troppe erano diventate antiquate, roba di un Matteo che amava circondarsene. All’improvviso quello che faccio, che ho fatto, i libri che ho scritto si sono ribellati chiedendomi un ambiente vuoto, una stanza senza distrazioni, senza TV né poster alle pareti.
Una stanza bianca e nera d’inchiostro (nulla più) è quello di cui avevo bisogno, non di un luna park pieno di musichette e lucine colorate che attraggono gli occhi del lettore di qua e di là. Come al solito grazie a Pino, il mio grafico di fiducia fin dai tempi di ‘Non farmi male’ (diventa sempre più bravo ‘sto ragazzo), è avvenuto il miracolo della resurrezione, sulla terra però.
MatteoGrimaldi.com è di nuovo nato, e con esso anch’io.
Benvenuto a chi vorrà.

Speciale Federica Manzon, ma speciale veramente

Neanche per il Milan durante la finale di Champion’s League del 2005 tifai tanto come per Federica Manzon al premio Campiello la scorsa settimana su Rai1. In quella serataccia di 6 anni fa il terzo goal di Crespo non bastò. In 10 minuti folli il Milan fu prima raggiunto, dal 3 a 0 al 3 pari, e poi superato ai rigori. Non volevo riaprire la piaga di molti tifosi, ma mi piaceva il paragone e mi piace pensare che al mondo ci siano persone che tifano anche per il proprio libro preferito. (Persone era per dire me, che mi piaccio non spesso, ma sì quando per esempio la vespa Bruno annuncia il primo posto momentaneo e io salto dalla poltrona, corro da Madre appisolata sulla sua madre-poltrona rossa, la sveglio e lei non apprezza, ecco.)
Non sono bastati i 4 voti di vantaggio dopo lo spoglio dei primi 100 su 300 votanti. Andrea Molesini col suo ‘Non tutti i bastardi sono di Vienna’ le stava attaccato alle chiappe (metaforicamente parlando eh!), fino a riprenderla e vincere. Lo scrivo anche se non ci credo. Trovo tuttora inspiegabile non tanto la vittoria di Molesini che mi è anche simpatico, ma la non-vittoria di Tommaso, il protagonista di ‘Di fama e di sventura’. Leggerlo è stata un’esperienza che non mi aspettavo, soprattutto per via dei tanti libri coi quali non m’era più capitato niente di simile. Parlo della personificazione dei personaggi, del sentire la loro voce, del riconoscerne la parlata, del vedere le loro espressioni dubbiose, del partecipare alle loro crisi che diventano le tue. Parlo della rabbia, all’ultima pagina. Visto che su questo romanzo ho molto da dire, segue la prima parte della recensione che ho scritto per Solo Libri.

Tommaso è figlio di un destino scritto ancor prima della sua nascita, che nessuna volontà sembra poter modificare, neppure l’amore. Abbandono e solitudine sono gli approdi ai quali tutti i suoi rapporti sembrano condurre: Margherita muore dopo averlo messo al mondo; suo padre sparisce per sempre, mai dai suoi pensieri, che non si rassegnano all’idea di poterlo un giorno ritrovare da qualche parte, per caso. Come se il caso esistesse, come se in questa storia non fosse già tutto scritto. A occuparsi di lui nei primi anni è la nonna Vittoria, un personaggio ricco di fascino e mistero, l’unico conto che Tommaso riuscirà a far quadrare nella sua vita. Lo affida all’altra figlia Cristina che, assieme all’inetto marito, chiamato da Tommaso il mollusco, riesce prima a farlo sentire un estraneo in casa, reprimendo con spietato distacco le sue inclinazioni, a partire dalla passione per il cielo e le stelle, e poi lascia al collegio il compito di forgiare il suo carattere. Qui conosce Ariel Fiore, promettente campioncino di nuoto, complice con cui inventare il modo di sfuggire le regole ferree. Fra le stanze del collegio nasce un’amicizia interminabile nonostante il tradimento. Tommaso cresce e con lui l’ambizione e la voglia di riscattare tanta superflua sofferenza.

Per leggere il resto cliccate qua.

E poi l’intervista all’autrice che si è concessa alle mie consuete 4 Chiacchiere (contate)…

Prima chiacchiera: La Mondadori ha imparato a conoscere Federica Manzon come editor prima che come autrice. Molti autori restano incollati al proprio editor, ne riconoscono il valore, sanno quanto della buona riuscita del libro dipenda dai suoi consigli. Altri invece, raggiunta la fama, se ne allontanano decidendo di procedere da soli e spesso arriva la sventura. Com’è il rapporto con i “tuoi” autori italiani? Di quali vai particolarmente fiera al punto da convincerti di essere affetta da Baudite incurabile (“L’ho inventato io!”)? Ce n’è qualcuno con cui è guerra aperta?

Il lavoro dell’editor per me è ben fatto quando rimane totalmente al servizio del libro e scompare con la sua pubblicazione. Per questo l’ansia di appropriazione che fa dire “Questo l’ho inventato io!” mi sembra assurda e anche pericolosa, perché rischia di far dimenticare che ogni successo, per quanto grande e condiviso dall’intera casa editrice, è prima di tutto il prodotto delle fatiche solitarie dell’autore e il lavoro successivo è tanto più efficace quanto più diventa mimetico e maieutico. Insomma, per me la figura dell’editor dovrebbe sfuggire del tutto la ribalta, e il rapporto d’amicizia che spesso nasce con lo scrittore è cosa da preservare nello spazio privato degli affetti.

Per le altre 3 chiacchiere, se volete conoscerla meglio, cliccate qua.

Finisco dando al Caso con la c maiuscola il ruolo determinante che Federica gli attribuisce nella decisione del futuro del suo Tommaso. Capita che la mia casa editrice espone a Libriamo, il festival letterario di Vicenza. Capita che gironzolando sulla rete leggo che Federica Manzon presenta ‘Di fama e di sventura’ a Libriamo. Bombardo la mia editrice di sms implorandola di andar da lei e lasciarle i miei saluti. “Da parte di quel ragazzo che ti ha intervistato per Solo Libri” le dico di dirle, sperando che si ricordi di me. Potete ammirare il risultato in alto a destra del post (fra le mani della Manzon). E ammirate pure la gaudente e rossa Sara Saorin, direttrice editoriale di Camelopardus (lo che non le piace essere così definita, ma tant’è!), al suo fianco.
A seguire in piccolo l’unica nota negativa della serata campielliana: Bruno Vespa (ma va?!).

Chiederei a un indomito volontario dal grande coraggio di assaggiare la lingua di Bruno (bzzz bzzz) Vespa, che a inizio trasmissione se n’è uscito così: “E ricostruitela ‘sta città, mannaggia la miseria che i soldi ci stanno e gli aquilani non li sanno spendere”. Secondo me sa di culo di settantacinquenne nano. L’ennesima occasione sprecata per stare zitto. Lui che è aquilano, nonostante parli dei suoi concittadini come se fosse nato in un altro continente.

Tutta la verità su Amsterdam – episodio 2: ‘Chen ju teic a piccer plis?’

[Piccola premessa dall’ingrato compito di indorare la pillola, anche detta Punto 0.]
Vi ho portato delle pastarelle dolci, ne volete? Potete prenderne anche 2 o 3 a testa, ne ho comprate 500. Dai miei calcoli dovrebbero avanzarne 480, ma non si sa mai che questo post schizzi nelle visite e allora non potevo fare brutta figura coi nuovi lettori appassionati alle mie disavventure che non scriverò. Insomma, quello che sto cercando di dire è che il reportage narrativo del mio trotterellare europeo, pensato e – quel che è peggio – promesso, e le promesse vanno mantenute, sempre (sempre, quasi fino a diventare niente) di un numero variabile di post fra i 35 e i 250 si conclude a 2, cioè a questo. Ancora non atterriamo ad Amsterdam e il mio diario di bordo deborda e finisce così. Ecco, così è se vi pare (anche se non vi pare, pare a me). Non che non abbia voglia di raccontare 15 giorni di vacanza in ogni microscopico dettaglio (masiamopazzi?!). Ma ragazzi, siamo all’8 settembre! La vita ha ripreso il suo inarrestabile incedere e la testa deve mettersi subito in sintonia con i nuovi impegni (nuovi? Ma che stai a di’?!), progetti (ah, ti riferisci alle solite menate?), scritture (ma come fai a scrivere un romanzo all’anno?), insomma quello che c’è sempre stato e che, prima che il sole tramonti sul mio trentunehmehmsimo compleanno, si realizzerà! Se lo dice Malefica: “…ella si pungerà il dito con il fuso di un arcolaio e morrà!” proverei almeno a crederci.
Metto alla prova il mio talento genetico per la sintesi e trasformo i 250 post previsti, in una manciata di pilloline di saggezza. Voi non perdonatemi lo stesso, mi raccomando. Un pizzico di fermezza nella vita è fondamentale. [Fine Punto 0.]
Punto 1. Prima di partire per un lungo viaggio, portate con voi la voglia di non tornare più, certo, ma imparate pure l’Inglese. Giusto quel tantinello per evitare situazioni del tipo: “Have you do… no cioè… Have you have a cheesecake?” di cui sono stato protagonista. Desideravo solo una frittella sul fiume Amster. E che diamine! Seguito, il giorno dopo, da: “Can I have tortellini?” ma avevo l’attenuante del ristorante italiano Da Renzo, all’interno del quale va detto che di italiano non c’è neppure Renzo.
Corollario a) – Punto 1. Vi imbatterete in decine di giovani coppie bisognose del vostro aiuto per farsi immortalare insieme, vicini vicini, che attireranno la vostra attenzione con un: “Eschius mi!” seguito dalla domanda di cortesia: “Chen ju teic a piccer plis?”. In quel momento scatterà in voi un meccanismo repulsivo nei confronti della nazionalità italiana. Un misto di vergogna, senso di fuga e risate all’idea che gli italiani parlino l’Inglese in tal modo ridicolo e purtroppo riconoscibilissimo e allora, nel disperato tentativo di nascondere la vostra reale provenienza, risponderete: “Yes of course!” pregando Gesù che quegli italiani, da voi facilmente individuati, non si accorgano di aver di fronte uno come loro.
Corollario b) – Punto 1. Se davvero scegliete di andare a pranzo da Renzo, riuscite a ordinare, seppur a fatica, vi accomodate fuori, tirate un sospiro di sollievo per avercela fatta, e dopo mezz’ora nessuno vi porta ancora nulla, non vi allarmate. Il loro forno a microonde è un po’ lento. Questo ci hanno detto per giustificare la lunga attesa per il riscaldamento del piatto precotto. Fatico a mettere insieme microonde e lentezza, ma chi meglio di loro che ci lavorano può conoscere il forno a microonde di Renzo?
Punto 2. Amsterdam è la città delle biciclette (e di qualche altra cosa non di difficile immaginazione di cui parleremo con una certa discrezione più in là). Affittatene pure una e passateci sopra 11 ore, mica ve lo voglio impedire, ma sappiate che dovrete rinunciare per sempre al vostro culo e a tutte le sue molteplici funzionalità. Ne vale la pena. Certo, dipende comunque dall’uso che facevate del vostro culo prima di salire sulla bici.
Corollario a) – Punto 2. A meno che non abbiate appena disputato l’ultima edizione del Tour de France, non vi sentirete proprio a vostro agio sul mezzo, non completamente almeno. Quel po’ che basta a farvi scontrare con un altro ciclista spietato: “Ma ando’ cazzo vai?!” e a farvi domandare se per caso, fra la confusione, le voci dei passeggeri, le urla dei dolcissimi fringuelli distruggi-timpani, non avete capito male e l’aereo è stato davvero dirottato non più a Londra, ma a Torpignattara, a Roma.
Punto 3. Amsterdam è pure la città dei canali (ma non è questa la cosa da affrontare con discrezione, a cui facevo riferimento al punto precedente). Affacciatevi da un ponticello, guardate all’orizzonte e sognate. Poi abbassate lo sguardo sull’acqua e vi capiterà di incontrare qualche bel cigno bianchino, diciamo, sguazzare fra le lattine. Sarà allora che vi chiederete: “Di cosa si nutrono questi graziosi volatili?” Se volete una risposta comprate un bel cartoccio large di patatone fritte (tanto che ci siete non lesinate sulle salse: di base circa mezzo litro di ketchup e 2 di maionese) – non sarà molto complicato individuare il rivenditore autorizzato più vicino, pare che ad Amsterdam campino di quelle! – e lanciateglielo. L’animale vi ringrazierà a modo suo.
Corollario a) – Punto 3. Nei canali non ci sono solo i cigni, ma altre forme di vita simili all’uomo, ma così diverse da me: i fattoni barcaioli pieni di cucuzze. Se vivi ad Amsterdam e non hai una barca, pure se casca a pezzi va bene, su cui organizzare festicciole con la musica a tutto volume fra i canali dove si beve birra e si spippacchia, nella massima privacy proprio, sappi che non sei nessuno.
Conclusione: io non sono nessuno.

To be continued…

Corollario a) – To be continued. Io c’ho provato a chiuderla qua, ma se continued continued!