Dopo Daria Bignardi altro che la carta, voltiamo pagina che è meglio!

Non è colpa di Daria Bignardi se non è riuscita a presentare ‘Un karma pesante’, il suo ritorno in libreria dopo l’esordio di successo ‘Non vi lascerò orfani’ (a proposito, leggete la bella intervista realizzata da Raul Montanari su Donna Moderna). Era fra gli incontri più attesi di ‘Volta la carta’, la prima fiera dell’editoria indipendente a L’Aquila (la definizione non è mia). Nessuno ne parla, nemmeno lei sul suo Barbablog. La brutta figura, non sua, ma nostra, è bene nasconderla sotto quintali di sabbia, giusto? E lei è una donna troppo raffinata per mettersi a sparare sulla Croce Rossa. Le due cose messe assieme hanno dato vita a un dignitoso silenzio che io con questo post rompo, assieme alle uova marce confezionate nel bel paniere. Daria c’ha messo tutta la buona volontà, ma la ragazza che ha moderato l’incontro, tal Maria Silvia Cicconi, gliel’ha praticamente impedito. Inadeguata, come d’altronde L’Aquila (non soltanto) alla letteratura. Quando ho sentito dell’idea di lanciare una fiera dell’editoria mi è venuto da ridere. L’Aquila sta ai libri come Totti alla cultura generale, come Vladimir Luxuria al calcio, Maria De Filippi al rock acrobatico, io all’Inglese e/o all’orientamento, Berlusconi a un convento di suore, la Moratti a Milano… (andate avanti voi, se ve ne viene in mente qualcun’altra). Comunque grandi nomi annunciati: Camilleri, Dacia Maraini, Margherita Hack, Donato Carrisi, Paola Calvetti, Walter Siti, che poi non si è presentato “per sopraggiunti problemi personali”, speriamo niente di grave (se ce lo fa sapere stiamo più tranquilli) e Daria Bignardi, appunto. Quando sono arrivato, Paola Calvetti raccontava gli ultimi aneddoti sul suo ‘Noi due come un romanzo’ davanti a una numerosa platea di quasi tutte donne. Daria, seduta con posa plastica a un tavolinetto fuori, attendeva sorseggiando in compagnia, col vento fresco della sera che (non) le scompigliava i capelli. Paola Calvetti non rientra fra le mie letture appassionate così sono andato a dare un’occhiata al piano di sopra dove hanno sistemato gli stand degli editori partecipanti alla fiera. La condizione generale a prima (e ultima) vista mi ha provocato un senso di dispiacere. Una ventina di tavolacci con sopra i libri sistemati alla meno peggio e dietro omini e omine dalle facce rassegnate, e proprio nessuno a curiosare. Mi ha dato l’impressione di un vecchio mercato di libri usati, tipo quello sotto i portici di San Bernardino, quando ci si poteva camminare. È bene che chi ha organizzato ‘Volta la carta’ vada a farsi un giro al Salone del Libro di Torino o a ‘Più libri più liberi’ di Roma per rendersi conto che le fiere vere sono un po’ diverse. Io che di solito amo sfogliare la carta, conoscere le piccole pubblicazioni mi sono sentito inorridito e sono tornato subito giù. Paola Calvetti era sparita dalla circolazione (qualcuno l’ha vista venerdì 27 maggio dopo le ore 19?). Daria ha fatto il suo ingresso trionfale, attraversando la folla che si apriva come il Mar Rosso fino a raggiungere, con passo molleggiato, il tavolinetto in fondo alla sala. Al suo fianco questa Maria Silvia Cicconi che si sarebbe rivelata, di lì a poco, l’assassina delle sperate vendite post-presentazione del ‘Karma pesante’.
Non so se dare la colpa all’emozione, alla responsabilità di cui è stata investita, alla tanta gente presente, alla sua poca esperienza (non la conosco, quindi ripeto: non so) ma Maria Silvia Cicconi non mi è piaciuta e mi sa che non è tanto piaciuta neanche alla Daria. Dopo un’introduzione confusionaria fatta di informazioni tanto per su autrice, trama, protagonista, sorrisetti imbarazzati per la serie: E mo’ che dico?! e frasi partite male e lasciate a tre quarti, ha dato il via alla fase 2. Apriva il libro e leggeva pezzetti del romanzo (ho avuto l’impressione che li scegliesse) a casaccio per poi passare il microfono alla Bigna per la serie: Tiè, mo’ veditela tu! che provava ad argomentare. All’inizio Daria è stata al gioco, tentando collegamenti improbabili fra i passaggi scelti dalla moderatrice finché, da intervistata diligente, è tornata nei suoi panni di intervistatrice barbarica, e ha affilato un paio di frecciate passando da: “Se il libro lo leggi tutto, chi lo comprerà più?!” fino a rispondere a una Maria Silvia disperata che domandava quanto ci fosse di autobiografico nel romanzo: “Uh, finalmente una domanda che non mi ha mai fatto nessuno!” e poi, quando il discorso si è spostato sul terremoto, concludere frettolosamente con un “Chiudiamola qua!” che le ha fatto meritare il soprannome di Daria Bignami.
“Daria, il suo libro mi intrigava e volevo acquistarlo, ma ormai l’ha letto tutto lei quindi…” flop percepito perfettamente anche dal pubblico in sala.
Alla ciliegina sulla torta c’ha pensato l’immancabile Stefania Pezzopane, ex Presidente della Provincia e ora Assessore. S’è alzata in piedi e ha recitato il suo cavallo di battaglia dal titolo: Noi aquilani dobbiamo fare pena a tutti, mi raccomando! Avevo i nervi a fior di pelle. Io non mi sento rappresentato per nulla dalle parole della Pezzopane. Ho avuto più volte la tentazione di alzarmi e chiederle di sostituire quel noi, soggetto di tutte le sue proposizioni, con un io più giusto. Non può parlare per tutti, mica è la Madonna e neanche lei avrebbe questo diritto né, credo, lo farebbe. Avrei voluto replicare che non si può pensare di ricostruire una città continuando a piangere addosso ai VIP che per caso passano di qui. Recitare la parte dei reietti dimenticati da Dio, calpestati dagli uomini potenti, come se Daria Bignardi possa fare una magia. Sono rimasto seduto perché non ho voluto trasformare la presentazione del ‘Karma pesante’, già di per sé poco riuscita, in uno scontro pseudo-politico che togli pure il karma e lascia pesante.
Per una volta L’Aquila poteva tentare di sembrare una città. Una Roma, Milano, Firenze, Torino, Bologna scelta da Daria Bignardi o da Camilleri come tappa del proprio tour. E invece no. La Pezzopane ha voluto ribadire col suo lungo, stucchevole monologo piagnucolante che a portare Daria Bignardi e tutta quella bella gente a L’Aquila è la pena per i disgraziati colpiti dalla sventura. Dobbiamo continuare così per sperare in un paio di monetine in più lasciate nel cappello? Stare attenti che nulla venga toccato, nulla venga ricostruito perché la nostra distruzione conservata nel cellophane continui a produrre monetine? E che fine fanno queste monetine? Qualcuno me lo sa dire con prove alla mano? Magari molti aquilani la pensano come la Pezzopane, io non l’ho mica capito questo. Parlo per me e dico che mi sono rotto di far pena, e quindi volto la carta e la pagina.

Quando ho iniziato a sognare ero un bambino un po’ ciccione

Una battuta d’arresto ci sta. Venerdì sera il malessere, che per tutto il giorno mi ha fatto invocare la venuta sulla Terra di Satanasso, ha raggiunto il picco massimo. Stavo in piedi, ma sarei potuto crollare a terra da un momento all’altro. Non saprei dire perché non è capitato, cos’è che mi ha tenuto in equilibrio con quel dolore allo stomaco, comunque sono vivo. Posso dire invece perché è capitato. È questione di costruzioni: i Lego vanno bene. Mettiamo il caso che io ami i Lego e che qualcuno, dopo anni di esercizio solitario in casa mia e in quella di pochissimi altri, abbia notato la mia predisposizione a inventare nuove forme coi mattoncini colorati. Mettiamo pure che tanto queste forme siano di suo gradimento che questo qualcuno decida di regalarmi una gigantesca scatola di Lego nuova con dentro il castello di tutte le favole del mondo e mi dica: “Ora che ce l’hai, costruiscilo!”. Ecco.
Io mi sono messo a lavoro senza pormi una sola domanda. Come un artigiano selezionavo i pezzi, li tagliavo, li scartavetravo, li coloravo, li incollavo, qualcuno con una vite, qualcun altro con un chiodino fisso al muro. Nutrivo gli alberelli finché le fronde non toccavano le nuvole e poi li piantavo ai lati del mio portone. Tutto senza ragionare. Se l’avessi fatto, ragionare, adesso probabilmente sarei ricoverato in una clinica per incurabili, senza aver tirato su neanche le fondamenta del castello. Ho trovato i giusti incastri anche quando i pezzi a disposizione erano pochi e all’apparenza non similari. Sono andato avanti, perché quel castello di tutte le favole è ciò che ho sempre sognato dal preciso momento in cui ho cominciato a sognare veramente.
Le altre volte erano i soliti sogni. Non potevo sapere che mi avrebbe fatto compagnia tutti gli anni della mia vita. Me lo ricordo quel momento. Era l’estate bollente di passaggio dalle elementari alle medie. Io ero un bambino un po’ ciccione, con indosso una vecchia tuta per la casa, con pochi amici – faticavo a morte coi rapporti, mica come adesso. Proprio quando ero riuscito ad abituarmi ai miei compagni di classe, alle facce di tutte le mattine, alle voci che più spesso mi toccava ascoltare. Proprio quando ero riuscito a plasmare una forma di convivenza conveniente, che facesse sembrare la mia solitudine solo timidezza, un casuale star zitto, e non mi esponesse troppo alle risate del gruppo. Una sorta di invisibilità in una classe di bambini urlanti, mi toccava cambiare classe, cambiare mondo, inevitabilmente crescere con loro e stabilire nuove regole, escogitare nuovi piani per star bene. Leggevo ‘Le notti di Salem’ di Stephen King e a un certo punto ho perso il contatto con la mia stanza, col letto, col cuscino, con la luce del sole pomeridiano fra le persiane. Travolto nella terra del terrore, per la prima volta mi capitava di provare paura per un’invenzione che non mi apparteneva. Ho capito allora il potere delle parole. Ho invidiato a morte Stephen King e tutti coloro che lo possedevano. “Voglio scrivere anch’io così” e da allora di scrivere non ho smesso mai. Neanche la paura di possedere la scatola di Lego più grande del mondo è bastata. Una battuta d’arresto ci sta però. Non so dire altro che questo, cioè che si tratta di una battuta d’arresto nel corso di cose che non sono quasi per niente nelle mie mani, ma che con le mie mani tento di spostare verso il grande castello. La rabbia, per un cambiamento che rimette tutto nel fascinoso gioco dei dubbi e dell’incerto, venerdì s’è trasformata in dolore fisico. Sono tornato a casa sconfitto, impotente e ridimensionato. Il giorno dopo mi sono svegliato con un piano e sono tornato a giocare. Sul pavimento centinaia di mattoncini che aspettano una collocazione. Piccoli e tutti identici, mi chiamavano e io per un giorno non ne ho voluto sapere.
Ora che ce l’hai, costruiscilo! Ogni tanto me ne dimentico. Penso che le difficoltà equivalgano alla sconfitta. E invece quelle son lì a fare scrematura, come un setaccio che non fa passare chi molla la presa e si arrende. Io lo voglio quel castello, ci voglio abitare, voglio spolverare quelle stanze fatte di parole, sentire l’odore della carta e quello del senso della mia vita. E allora ricomincio a costruire.

La giungla del Salone del Libro di Torino

Oggi apre il Salone del Libro di Torino, lo sapevate?
Allora c’è un’ottima probabilità che siate addetti ai lavori. Fra poco saranno più gli editori dei lettori, ormai soltanto una capocchia di spillo. In un estremo tentativo di salvare baracca e burattini, si trasformeranno in lettori per l’occasione e prenderanno a leggersi a vicenda, l’uno le pubblicazioni dell’altro. È bene comunque continuare a crederci, perché gli spilli pungolano e sanno essere più che fastidiosi, se lo desiderano. Gli addetti ai lavori un po’ mi spaventano. Non quelli che lo fanno sul serio, verso i quali nutro profonda ammirazione, ma quelli che lo fanno credere sul serio. Autori convinti che il mondo dell’editoria ce l’abbia con loro perché invidioso di un talento mai visto prima, e che quindi faccia di tutto per non vederli emergere. Sono pericolosissimi soprattutto per la propria salute mentale e prospettiva di serenità che non raggiungeranno, ma anche per chi si ritrova ad averceli amici, conoscenti e parenti. Per pietà s’indebita per fargli credere che il loro ultimo libro sarà il regalo di Natale più gettonato, e li riempie di elogi nonostante di quella merda non sia riuscito ad andare oltre le 4 pagine. Agenzie letterarie che dopo aver spillato dai 150 ai 300 euro all’autore giustificandoli tassa di lettura per l’opera eccelsa di cui sopra, gliene spillano altri 800 barra 1500 perché l’opera, che son certe di poter piazzare presso un “buon editore”, necessita di aggiustamenti e revisioni. Lo stile c’è, la storia pure, ma bisogna rivederla qua e là e questo “qua e là” si paga caro e salato. Il buon editore lo trovano davvero, buono sì, a impolpettare l’autore con la favola a lieto fine della pubblicazione, con un ma. Il mercato è quello che è – non roviniamoci il week end col report Istat sulla lettura dei libri in Italia -, non si leggono neanche più i foglietti illustrativi dei medicinali, figuriamoci i romanzi e figuriamoci il tuo che è stupendo – mai letto niente di simile, credimi! – però il nome sconosciuto il più delle volte non permette neanche il recupero delle spese e allora ti chiediamo di contribuire con un paio di mila euro giusto per la stampa che poi alla distribuzione ci pensiamo noi. Sì, alla distribuzione a casa tua. Arriverà il camioncino di Bartolini che ti vomiterà davanti al portone 300 barra 500 copie realizzate da schifo che io non vorrei neanche regalate, ma tu le devi vendere se vuoi recuperare parte di quel paio di mila euro che hai donato al buon editore senza aver ancora ben chiaro il perché.
Non ci sono mica solo questi qui, per carità. Ce ne son tanti di bravi editori – parlo sempre degli sconosciuti eh! – che selezionano con cura gli autori, quei pochi li pubblicano coi loro soldi e li fanno girare come possono, però faticano ad andare avanti. La loro voce è schiacciata da un lato dai colossi editoriali – che mondo meraviglioso! -, dall’altro dalle urla degli stampatori assatanati che passerebbero sul cadavere della madre pur di pubblicare un pollo in più, poi se vende chissenefrega tanto il guadagno è assicurato alla firma del contratto. Torino in questi giorni sarà il gigantesco barattolo dentro cui tutte queste variopinte forme di vita se ne staranno ammassate indistintamente ognuna con obiettivi chiari. Quelli che da questa fiera torneranno carichi di pippi sonanti saranno (mavà!) i big dell’editoria coi loro megastand affollati dal primo all’ultimo minuto, incontri delicati, accordi raggiunti e contratti firmati. La gente dimostra di non saper cogliere le poche, ma importanti opportunità che offre un evento del genere, accalcandosi per riempirsi le tasche di volumi che trova tutti i giorni nelle librerie, quando potrebbe mettersi a caccia di libri difficili da trovare, pubblicati da editori poco distribuiti che però vale la pena leggere più di ‘Nessuno si salva da solo’ che è primo in classifica per dire, e che ci manca poco al supermercato ce lo infilino in busta a tradimento. Il risultato sta negli sguardi dei volenterosi accaldati, dietro piccoli stand colorati, che guardano un punto indefinito all’orizzonte implorando con gli occhi la signora con l’orecchino di perla di fermarsi a dare un’occhiata al proprio catalogo. Quella l’occhiata la dà, ma accelera verso lo stand di Mondadori.
Domani parto anch’io, non per Torino, non è ancora l’anno giusto – dita incrociate sempre e comunque, in questi mesi di più! – ma per Firenze.

Gli occhi “bendandi” col prosciutto

Uno dice che a Roma farà il terremoto del secolo, che butterà giù pure il Colosseo, e tutti ci credono. Fanno coincidere le ferie con l’11 maggio. Si organizzano per improvvise, ma necessarie gite fuoriporta. Mandano il certificato medico al lavoro e poi li beccano alle Maldive a prendere il sole o a fare shopping per il Corso di una cittadina qualunque, purché lontanissima dall’epicentro della fine del mondo. Nel giorno di domani 11 maggio si registrerà a Roma il più alto numero di assenze dal lavoro, che neanche ad agosto. Il signor Bendandi, che io stimo soprattutto perché si dichiara un autodidatta  – uso il presente pure se è nato a fine 800 – e i terremoti non li prevedono gli scienziati, li prevede un autodidatta dell’800, va be’, comunque magari aveva pure le sue ragioni, ma in questo caso c’entra poco, anzi proprio niente. È stato tirato in ballo, quasi riesumato direi, come quelli che per merito o per un gran culo ottengono che il loro nome venga appiccicato a qualche abilità sensoriale, o pseudo-scientifica per aver compiuto con successo prodezze o previsioni. Vengono sistematicamente nominati per suffragare follie che con quelle prodezze c’entrano solo tematicamente, ma che, nello specifico, non hanno avuto origine dalla loro bocca. Per farla breve Bendandi non ha mai detto che Roma verrà rasa al suolo da un terremoto. Non che se l’avesse detto la cosa cambierebbe di molto, ma non l’ha detto quindi pace.
Non voglio mettere in dubbio le competenze di Bendandi, né di chi afferma di poter “prevedere” con la dovuta elasticità di 3000 chilometri quadrati di spazio e settimane di tempo, i terremoti. Non mi compete farlo, però noto che questi signori si commentano da soli. Mi è capitato fra le mani un articolo uscito proprio oggi sul Quotidiano d’Abruzzo in cui l’ormai celebre – ahinoi aquilani– e ormai ex ricercatore studioso di terremoti Giampaolo Giuliani, attuale scrittore, opinionista e tuttologo televisivo, rassicura tutti così: “Bendandi non ha mai parlato né scritto di un terremoto a Roma, è solo una voce messa in giro da qualcuno che ci sta anche lucrando”, ne consegue che non ci sarà nessun terremoto. Oppure ci sarà, ma non perché qualcuno l’abbia previsto. Bene. Qualcosa non mi quadra. Penso e ripenso, penso e ripenso – non è frequente che io pensi e ripensi tanto a lungo – e mi domando: io ‘sta faccenda del terremoto di Roma e di Bendandi da chi l’ho sentita? Ma certo, sempre da Giampaolo Giuliani che nemmeno 3 mesi fa su un altro sito, per la precisione Abruzzo24ore.tv, dopo aver studiato i documenti lasciati dal veggente, si associava all’allarme ritenendo affidabili le teorie e la capacità previsionale di Bendandi, tanto che l’articolo titola proprio: ‘Possibile sisma nel Lazio’. Cos’è accaduto in questi 3 mesi? Bendandi è resuscitato, ha cambiato idea e ne ha informato Giuliani?
È questo quello che intendo quando dico che si commentano da soli.
Io piuttosto mi interrogherei sulla capacità di leggere, elaborare, capire e farsi un’idea possibilmente indipendente, che sta in piedi con le proprie gambe e non con quelle delle balle della piazza. È una qualità sempre meno evidente nell’essere umano e non perché qualcuno si preoccupa di nasconderla. Sta diventando un po’ troppo semplice radunare un folto numero di anime con gli occhi “bendandi” da larghe fette di prosciutto crudo San Daniele, attorno alle paure, alle idee politiche, alle religioni, alle convenienze soltanto apparenti. Per non perdere pure il proprio piccolo giardino. Nessuno si chiede, nessuno si ferma a pensare, a rileggere il concetto con uno spirito critico personale. Nessuno che si volti dall’altra parte e prorompa in un sacrosanto: ma cosa cazzo dicono tutti quanti?!

Crolla, crolla… Dolcenera

Lo so che quando faccio queste cose la stima che il mio selezionato gruppo d’ascolto nutre nei miei confronti precipita, però mi diverto e quindi procedo. Qualcuno ricorderà l’autopsia che nella Stanza del Matto riservavo ai testi di certe canzoni interpretate con convinzione e presenza scenica notevoli, ma che, letti prestando attenzione al significato, rivelano un totale non senso. Ad aggiudicarsi lo scettro e la corona di regina indiscussa della Porcheria Musicale Italiana era stata Anna Tatangelo. Nella motivazione redatta dall’indiscutibile commissione di esperti (me medesimo) si legge quanto segue: L’artista coniuga il rincoglionimento senile di Mogol, già di per sé garanzia, con idiozie bigotte su temi sociali che toccano inauditi picchi di sputtanamento come l’omosessualità che sarebbe una malattia, ripreso poi dal sempre originale Povia, l’amicizia che sarebbe comprensione e accettazione dell’amico malato, la ragazza di periferia demente e le 10 regole d’oro per essere una donna, giusto per citare 2 o 3 dei suoi tormentoni cantautorali. Nei giorni successivi all’analisi del testo proprio di ‘Essere una donna’, mi sono ritrovato sul blog un’orda di vandali minorenni e minorati, distruttori della decenza e della lingua italiana, pronti a difendere la loro beniamina a colpi di offese sgrammaticate e demenziali rivolte al sottoscritto. Mi ci è voluto un po’ per sterminarli tutti. Posso finalmente ripartire perché un nuovo recente pezzo sta scuotendo da qualche giorno tutti i miei punti interrogativi che, nonostante i numerosi ascolti, continuano a domandarsi: Che vor di’?! Stavolta Anna non c’entra nulla, di lei si son perse le tracce da Sanremo, quindi, barbari, restate pure ai vostri posti e prendetevela col fanciullo che l’ha fatta soffrire così tanto che vuole vederlo morire in questo stesso momento, “Bastardooo!”. Quello che voglio commentare e tentare di comprendere assieme a voi è invece il nuovissimo singolo di Dolcenera, ‘Il sole di domenica’. Ascoltatela e poi partiamo!

Il sole di domenica – Dolcenera [testo originale in nero, commento personale in rosso e fra (parentesi tonde) nere]

Io non ti capisco (nemmeno io!), io mi lascio andare, freccia nel futuro. (Ti lasci andare nel futuro? Quando arrivi mi fai sapere come andranno a finire certe mie questioni che mi fanno stare in ansia? La salute tutto bene? E la freccia di chi è? Allora cerchiamo di conoscerlo meglio questo arciere a cui lei si rivolge per tutta la canzone e alla cui freccia si abbandona.)
E tu che parli di affinità, i tuoi riflessi di vanità, falso di un tramonto (Ricapitolando questo qui: parla di affinità – oggi di che parliamo tesoro? Di affinità, dài! -, i suoi capelli emanano riflessi mogano? No, a quanto pare di vanità (sto tentando di tradurre eh!) e poi, il sole tramonta e lei imperversa: falso di un tramonto! È un’offesa no?! Tipo, che so, falso di merda!) il senso delle cose (e quale sarebbe, QUALE?!?).
(Ma ecco che arriva il momento del confronto fra i due.) Siamo faccia a faccia io e te (e che succede?) e facciamo solo come se cambiare sia un dovere (in effetti non si deve mica cambiare per forza! Brava Dolcenera! Attenzione che adesso parte tutta un’allucinazione delirante chimico/esistenzial-filosofica). Se ad ogni reazione, corrisponderà un’azione (non era l’inverso? Da che mondo è mondo le reazioni vengono dopo le azioni, ma quello di Manu Manu è un mondo a sé. Lei vive nel Paese delle Meraviglie). Crolla crolla il sole di domenica, le previsioni del tuo cuore fanno a cazzotti col dolore. (Qui ritroviamo il sole, il cuore e il dolore al posto dell’amore, giusto per evitare la querela incrociata di Valeria Rossi e Giggì nostro. Al di là di questo ho capito solo che domenica dalle sue parti è nuvolo.) E brilla brilla il cielo dell’America (consiglio utile per chi sta programmando una gita fuoriporta: scegli l’America che l’anticiclone delle Azzorre (?) garantisce l’alta pressione e fa brillare il cielo). Le quotazioni del tuo amore (eccolo l’amore! Vai Giggì, telefona al nostro amico Leoluca Bagarella e fai vendicare a lui un tale evidente affronto alla tua personalissima creatività) sono espressioni letterarie (in che senso? Devo usare la calcolatrice o il dizionario?) che infieriscono sull’idea che ho di me. (Qui alzo proprio le mani e lascio la parola a Dolcenera stessa che, al termine dell’esibizione in un irriconoscibile playback a Domenica In, risponde con la lucidità e la chiarezza espositiva che la contraddistinguono da sempre, alla domanda un po’ borgatara di Lorella Cuccarini, che è anche la mia: “Che vor di’?!” in merito al significato proprio di questo passaggio. Vai col video, ve lo consiglio di gusto.)
(Capito? Bene, io no. Andiamo avanti.) Non per il piacere (cosa?) né per amor proprio (sì, ma cosa?), ma per la differenza (fra il piacere e l’amor proprio? E quale sarebbe? Ma cosa per la differenza? Ma, ma, ma… cosa cazzo sta dicendo?). Stare insieme non ha senso (come tutta la canzone, del resto) in territori rei confessi (che cos’è un territorio reo confesso? Un pluriomicida potrebbe essere un reo confesso, ma un territorio? Cosa può aver fatto di male un pezzo di terra? Visto che questo qui confessa pure, trattasi di un territorio parlante?) linea di confine, per noi della stessa specie (senti Dolce, mi fai il piacere di farmi sapere a quale specie appartenete? Eccola che riparte col delirio delle reazioni, azioni, quotazioni ed espressioni.)
Se ad ogni reazione, corrisponderà un’azione, crolla crolla…
Hey hey hey hey hey hey hey hey hey hey hey hey hey hey! (Pèsce, pèsce fresco, accattateville!)

Quando qualunque cosa non vale quello che aspetto

Potrei masticare le unghie fino a non distinguerle più dalle ossa delle dita e trovare gustose pure quelle. Potrei camminare fino alla porta, sbattere e tornare indietro sul letto, e poi ricominciare. Potrei caricare la stessa canzone per 2mila volte e ore consecutive. Potrei immobilizzarmi, in piedi al centro della stanza, a fissare un punto sull’armadio senza vederlo. Potrei inspirare, espirare, inspirare, espirare e poi inspirare. Potrei parlare con le mie tartarughe acquatiche tutto il pomeriggio, poi liberarle dall’acquario e passare con loro una nottata di fuoco. Potrei rasare l’erba in giardino, a prescindere dall’interrogativo se io l’abbia mai fatto. Potrei chiamare gente che non conosco presa a caso fra i nomi della chat di Facebook e scrivere di cose che non m’interessano. Potrei dissociarmi dalla realtà e infilare la testa nel salotto di Villa Ada per scoprire come va a finire l’avventura delle Belve di Abaddon, la sgangherata setta satanica di ‘Che la festa cominci’ l’ultimo libro di Ammaniti, che poi non è l’ultimo, ma quello che sto leggendo – ‘Io e te’ l’ho fatto fuori in mezza giornata annoiata. Potrei continuare la caccia alla mosca che ha animato tutta la mia mattinata. Ne ho inseguite e sterminate 9. Questa che mi svolazza davanti alletta l’ambizione di fare cifra tonda. Potrei rispondere ad alta voce a domande che nessuno mi pone, perché a nessuno frega di sapere cosa penso io di questioni sociali, giustamente aggiungerei. Potrei, insomma, rimettermi a parlare da solo, oppure magari fare 4 o 4mila telefonate e raccontare a tutti le stesse cose, ben sapendo che le loro palle son diventate brocche piene fino all’orlo e non ne possono più di sentire questa storia piena di sé e di ma e di se ha fatto così e colì e ha detto questo e quello seguiti da un’interminabile sequenza di non può che essere così. Potrei contare le nuvole nel cielo, impegnarmi a trovare somiglianze con oggetti e persone. Potrei pure sparargli a questa mosca che non ha capito che non è certo continuando a ronzarmi attorno all’orecchio sinistro che si garantirà una vita lunga e prospera. Potrei uscire di casa. Quante cose potrei fare fuori! Tipo camminare fino alla Madonna Fore dove c’è la chiesetta e il sentiero dietro che porta fin su alla piana con le vacche cacatrici e il bollore del sole camuffato dal vento. Potrei stendermi sull’erba e pensare a cosa indossare quella sera lì, ammesso che ci sarà – trovo qualche difficoltà a credere alla realtà, ultimamente. I centri commerciali sono pieni di bei vestiti, con la scusa uno yogurt inondato di Nutella ci starebbe benissimo. Potrei fare un giro in piazza, con tutto quello che ne consegue. Ricordi, sgradevoli silenzi, puntellamenti, sensazioni di crolli, pezzi di carta con appelli, fotografie e volti che non sorridono più, tristezza e tristezza. Per carità! Dovrei passare a salutare qualcuno vicino e chiamare qualcuno lontano, ma non lo faccio. Potrei andare in palestra. Ma quando mai! L’unico tentativo fatto nella vita ha comportato il pagamento di 3 mesi di abbonamento nonostante la mia effettiva frequentazione sia durata 3 mezze giornate. Tutta colpa delle buone intenzioni. Potrei scrivere, ma tutto quello che potrei scrivere non corrisponderebbe a quello che scriverei se solo potessi. Potrei smetterla di aggiornare la posta elettronica ogni 18 secondi, quello sì. Potrei e dovrei. Potrei pensare ad altro che mi faccia non pensare a ciò che potrei fare per evitare di impazzire aspettando, però non ci riesco. Non avrei scritto questo post, voglio dire.