Questo è il primo segnale dello tsunami che Jeanette Winterson causa con la sua scrittura piena di vento ed energia sotterranea, che si scatena nel suo piccolo capolavoro letterario probabilmente irripetibile. ‘Scritto sul corpo’ è un’onda alta come mille grattacieli che nasce da quest’interrogativo a cui ho sperato per tutta la lettura del romanzo di trovare una risposta, pur dentro di me sapendo bene che non ne esiste alcuna capace di placare il dolore di certi addii. La tecnica scelta dall’autrice è quella dell’io narrante del protagonista, che racconta la sua storia d’amore più grande e sofferta, con una donna sposata, Louise. Molti si sono domandati se è la voce di un uomo o di una donna a parlare. Molti hanno annoverato ‘Scritto sul corpo’ fra le opere più riuscite della letteratura lesbica. Fra una pagina e l’altra andavo alla ricerca di particolari che mi facessero propendere per l’una o per l’altra ipotesi. Cambia tutto, se ci pensate. Immaginare un uomo e il suo amore per Louise, oppure una donna e il suo amore per Louise. Ho deciso che è una donna ad amarla perché un uomo non saprebbe raccontare l’amore così. Pertanto, da questo momento in poi, per me la protagonista sarà una lei.
Louise è l’Amore con la A maiuscola. Non che esistano amori con la a minuscola. L’amore dovrebbe non prestarsi ad essere classificato, eppure a distanza di anni ti rendi conto che di tempo ne hai perso parecchio a star dietro a chi poi ha dimostrato di valere meno di un quadrato di carta da culo. Louise vale tutta una vita perché alla vita di lei dà senso e lo fa attraverso impulsi incontrollabili. A parlare è il corpo che non si pone domande, non si perde in ragionamenti. Il corpo vuole la vicinanza e il calore della pelle, vuole sentirne la consistenza, vuole accarezzare e abbandonarsi all’odore unico dell’altra. Il corpo urla.
Raro il caso di un amore così ugualmente corrisposto. Pur nella comunanza di sentimenti capita che nel cuore dell’uno arda il fuoco che scalda pure quello dell’altra. Invece il cuore della protagonista e quello di Louise sono due vulcani che non hanno bisogno di calore esterno per bruciare, alimentati dall’idea della felicità in due, che le spinge ad abbandonare tutto per viversi questo amore. Louise lascia suo marito, un accreditato dottore, per lei, senza preoccuparsi di quello che dirà la gente. Lei lascia la sua ultima compagna Jacqueline, fra le cui braccia aveva trovato la sicurezza di una relazione senza troppi sussulti, ma col tepore di una casa e di un progetto di vita.
Cosa manca al loro amore? Nulla, ma l’Amore, pure quello con la A maiuscola non basta quando arriva la malattia. Louise si ammala e questo cambia tutto. Se il sentimento che le lega non fosse stato tanto forte, le sarebbe rimasta accanto, invece per il suo bene, proprio per tanto amore, la lascia alle cure finanziate dal suo ex marito. Lo fa senza parlarne con lei, perché sa che Louise non l’avrebbe permesso mai. Scappa da Londra, cambia completamente vita continuando a pensare a Louise ogni istante delle sue giornate. A sentirla attraverso tutti i suoi sensi. A vederla pure nei ricordi. Finché non decide di cercarla, nonostante tutta la rabbia che sa che starà provando per essere stata abbandonata nelle mani dell’uomo che disprezza, proprio nel momento di maggiore debolezza.
Questo libro ha fatto cadere un’altra certezza: che dell’amore nessuno potesse scrivere e riuscire a far provare amore al lettore. Jeanette Winterson con me ne è stata capace.
Posts published in Gennaio 2011
Visione di Hereafter nell’unico cinema sopravvissuto a L’Aquila
Premessa: l’unico cinema aquilano sopravvissuto, che poi è una multisala (wow!), fa schifo. Naturalmente elencherò dei punti a sostegno di tal tesi.
Punto 1: Il cinema che passione! Le persone che ci lavorano non capiscono un membro molle (caXXo, per gli amici) di cinema. Detto da me, che guardo un film a decennio e comunque mi sento di capirne di più, dovrebbe rendere l’idea della competenza che dimostrano.
Punto 1 e ½, perché sempre riferito a loro: il lavoro nobilita l’uomo. Hanno una voglia di lavorare che, al solo guardarli invece a me fanno venir voglia di fare un bel tuffo de panza a terra e premere il volto sul rosso tappeto più forte che posso, fino a trovare la morte per soffocamento autoindotto. Una sorta di legge del contrappasso, mi perdoni Dante.
Punto 2: par condicio. La multisala consta di 6 sale così al momento ripartite: sala 1 Che bella giornata di Checco Zalone, sala 2 Che bella giornata, il nuovo film di Checco Zalone, sala 3 Che bella giornata, non perdere il nuovo film di Checco Zalone! e sala 4: sì lo sappiamo. Che bella giornata di Zalone, che mi piace, per carità, ma l’ho già visto. Alla 5 Qualunquemente di Antonio Albanese che se lo incontro per strada gli passo sopra con la macchina. Non chiedetemi perché, ma è questo l’istinto che domina le mie reazioni primarie alla vista della sua megalomane faccia di cazzo in primo piano sulla locandina. L’ultima sala se la giocano i restanti 2 miliardi (come direbbe mia madre) di film che tutti i giorni escono in Italia. In virtù del punto 1, non per colpa, ma per una serie di limiti visibili proprio, la scelta della pellicola da parte delle solite persone che ci lavorano porterà a una selezione di abnormi cagate.
Punto 3: pensa alla salute! Le caramelle gommose che vendono sono pericolosissime. Vengono lasciate in quei contenitori di plastica fino all’estinzione dell’ultimo colloso e duro anello di ciuccio di zucchero che, considerando la consistenza e il sapore, suppongo star lì da molto. C’è una cosa che le accomuna tutte: il sapore di Lisomucil per la tosse secca. Dagli orsetti alle banane gialle, dalle ciliegine alle uova di spugna, dai marshmallows (sì, si scrive così, l’ho cercato) alle liquirizie ripiene di giallo frizzantino. Lì tutto sa di Lisomucil sciroppo per la tosse secca, ma gli effetti sono diversi. Lo stomaco si gonfia e tu, che sia maschio oppure femmina, stai pur certo che rimani incinto/a e partorirai qualche ora dopo un essere vivente a forma di grande stella al sapor di coca cola, però dal culo. Potrei andare avanti per una lunga serie di altri punti: le popcorn sulle poltrone; le porte che le chiudi o no tanto è uguale: continuerai a sentire gli spettatori che ruttano uscendo dalle altre sale, mentre tu tenti di farti prendere dal pathos che pretendi, visto che hai appena scucito 7 euro; la vendita illimitata dei biglietti. C’è posto per tutti, basta che paghino. Non importa se hai staccato il 670esimo biglietto in una sala che può contenere 200 spettatori: sulle scale, in piedi, chissenefrega! Si arrangino pure con gli occhi al cielo mentre il faccione di Matt Damon si dilata in un’espressione straziante che sospira: “Basta, ho smesso da anni di parlare coi morti”. Ecco sì, passiamo al film. Ho scelto di andare a vedere Hereafter non per il talento di Matt Damon né per quello del signor Clint Eastwood che l’ha diretto, ma per esclusione e il punto 2 precedentemente illustrato mi ha facilitato di molto la decisione. Immaturi non è il genere di film che posso permettermi in questo delicato momento della mia vita, senza dovermi portar dietro tutte le conseguenze derivanti dalla presa di coscienza che, pure se il mio diploma è valido, tanto meglio di quei disperati non sto messo.
[Piccolo spaccato di una cena in famiglia] Ci deliziavamo il palato con l’invidiato minestrone materno (quando entrando in cucina i miei occhi si sono appoggiati sul piatto contenente il fluido filamentoso verde, che li ha risucchiati come sabbie mobili, ho pregato di sopravvivere. È in momenti come questo che mi convinco di avere fede). Mia madre a un certo punto si ricorda della notizia che ha sentito e vuole condividere a tavola, naturalmente letta e reinterpretata dalla sua creativa ragion pura, e irrompe a gran voce nel dignitoso requiem in memoria delle verdure morte così: “Oh, ma avete sentito di quegli studenti che gli hanno tolto il diploma e devono rifare l’esame di stato dopo vent’anni?”. Mi casca il cucchiaio nel piatto che risponde per me che sono senza parole: “Mamma, quello è ‘Immaturi’ il nuovo film con Ambra di Non è la RAI!”. [Fine dello spaccato]
Tutto questo per dire che Hereafter non è brutto, neanche bello. L’idea è buona. Ci sono questi qui che, poveretti a loro, hanno perso una cara persona e non riescono a darsi pace, e c’è Matt che, dopo un’operazione delicata post incidente stradale, ha scoperto che tenendo per mano qualcuno riesce a mettersi in contatto con i di lui/lei morti. L’idea non è malvagia e la scena iniziale dello tsunami non vale tutto il film, ma quasi. Poi diventa una palla pazzesca. Non succede niente per due ore e finisce nel peggior modo possibile: quello americans del love love love.
Ecco, a ripensarci mi è arrivato un doppio cazzotto di sonno da destra e da sinistra. Buonanotte pure se è domenica mattina.
Poche riflessioni su Berlusconi, le sue bambine e i conati di vomito
Un conato e poi un altro eppure non sono malato. Sono stato molto attento questo inverno perché con la salute non si scherza – dice il mio dottore, e l’anno scorso la polmonite mi ha lasciato il ricordo di un incubo, per questo non m’importa degli altrui sguardi fissi sul brutto cappello del Milan, e poi a quel berretto ci tengo. Questo per dire che nessuna influenza o virus d’altro tipo che attacchi l’organismo ha causato i conati, ma una discussione in TV. Si parlava di Berlusconi, delle sue bambine e dei suoi processi che quasi certamente non procederanno. Il disgusto è stato tale non tanto per l’argomento di base, che genera in me una totale impotenza a dire e fare, un po’ come quella che il Presidente ha sconfitto grazie a un marchingegno che preferirei non chiamare pompa, che si sarebbe fatto impiantare proprio per garantirsi prestazioni decenti, quanto per gli interventi degli ospiti che in un’atmosfera giocosa parlavano di puttane, pompini, Ruby e i suoi 7mila euro diventati poi, in un’intercettazione telefonica, 5milioni. Accusavano l’uno di essere stato pagato per difenderlo, l’altro se ne andava indignato e poi tornava minacciando di querelare l’uno, l’altro, tutto il programma e pure la madre del presentatore per aver messo al mondo un essere umano incapace di porre fine a quell’obbrobrio – penso io.
L’ho fermato io spegnendo la TV. È tutto ciò che ci resta, uno dei pochi diritti che ancora non ci tolgono: spegnere la TV. Arriverà il momento in cui ci costringeranno a tenerla accesa e a fissarla come zombie per almeno 6 ore al giorno. Una pratica per il nostro bene, per la nostra civilizzazione. L’indottrinamento televisivo come una pastiglia che giorno dopo giorno stordisce. Ecco la causa dei miei conati. In quello studio televisivo e in altri ho visto uomini e donne capaci di calpestare il corpo della madre pur di difendere, con evidente imbarazzo, il potente, non per niente, per molto anzi.
Lascio chiudere il pensiero a una donna con la D maiuscola.
La paura
La paura sta là, o la ascolti o impazzisci.
È un brusio che può crescere fino a diventare un urlo. Non c’è nulla che tu possa fare di sensato di fronte alla paura, che sia diverso dallo stare fermo a osservarla. Respirare piano senza sapere che sei tu che l’hai partorita e sfamata, per nulla. Può rovinare pure il marmo, perché lo vede cristallo e pensa che prima o poi si romperà. Così lo fa lei stessa a colpi di martello, prima di qualcun altro. Lo tieni fra le mani e fai una gran fatica però ti senti di far bene, tanto prima o poi sarebbe finita così: è questa la convinzione che muove il gesto. Come se le cose accadessero da sole, come se non fossi tu stesso a provocarle, a costruire e a distruggere pensando di costruire. Pur trovandoti in alto, pur su una sedia privilegiata nel cielo da cui osservi la città, le persone, gli incontri, gli occhi, con obiettività reale, che ti fa persino rendere conto che a incrinare tutto è solo paura, null’altro di concreto o motivato, la paura non la puoi evitare; scacciarla sì, ma poi torna, al primo silenzio. Al primo di troppi minuti di silenzio. Quelli che seguono il disastro, mentre osservi muto i frammenti e la prima cosa a cui pensi è che rincollando tutto potrebbe funzionare.
Iniziative per una domenica anti piaghe da decubito
Oggi che è domenica mi sento in dovere di offrirvi qualche alternativa alle tredici ore paralizzati in poltrona a fare zapping fra Domenica 5 e Domenica In e Domenica Un Cazzo, che poi vi vengono le piaghe da decubito al culo e non è un’esperienza augurabile.
Cominciamo dalla locandina. Oggi pomeriggio alle 16.00 all’osteria Ca’ Lice che sta in via Borgo Eniano 53 a Montagnana, nei pressi di Padova, si terrà un bell’incontro fra letteratura per grandi e piccini per la rassegna ‘Mamma portami al Ca’ Lice!’.
Per i bambini, nell’accogliente mansarda del Ca’ Lice, la lettura animata del racconto di Daniil Charms ‘Di come Nicolino Punk volò in Brasile (e Pierino Spazzoletta non ci ha creduto neanche un po’)’ (Zampanera). Per i grandi, nella sala del camino (Ca’ Mino!), il reading di ‘Supermarket24’ (Camelopardus – o per l’occasione Ca’ Melopardus), con le musiche dal vivo di Emanuele Cirani al Chapman’s stick. Quindi se abitate da quelle parti fateci un salto. Indiscrezioni da evidente privilegiato mi parlano pure di certi gustosi dolcetti. Ve lo dico con largo anticipo, giusto per darvi il tempo di lavarvi i denti e indossare scarpe e cappotto.
Chissà se Alda Teodorani sarà brava in cucina. Non gliel’ho chiesto; di certo a scrivere sì. Di questo e tante (non troppe, appena 4) altre cose abbiamo parlato nell’intervista per le 4 Chiacchiere (contate) su Solo Libri che trovate qua.
A proposito di Solo Libri. E qua mi rivolgo agli appassionati oltre che alla lettura di buoni e cattivi libri, anche alla scrittura e alla discussione. Quelli che poi hanno voglia di parlarne e di scriverne. Recensire. Ebbene, la redazione ha messo su un concorso prima partito come natalizio e poi, per via del successo che ha avuto, divenuto mensile e ci terrà compagnia per tutto il 2011. Scrivete la recensione di un libro che vi è piaciuto o anche no, Solo Libri ve la pubblica e, se la gente vi legge, vincete buoni acquisto. Gli autori delle tre recensioni che allo scadere del mese avranno ottenuto il punteggio maggiore, calcolato a seconda di un meccanismo di visite ponderate che trovate ben spiegato nella pagina del concorso, riceveranno un buono di 20, 30 o 50 euro, messo a disposizione da laFeltrinelli.it. Mi sembra una bellissima iniziativa che coniuga il piacere della lettura, con quello della scrittura e riconosce il merito a chi riesce a intrigare la fetta di pubblico più grande raccontando un libro. Io qualche recensione l’ho scritta, ma non vinco mai. Provateci voi!
Dopodiché uscite a fare una passeggiata (sempre per le piaghe), che di sciare non è aria. La neve quest’anno s’è intimidita e ha deciso di restare anonima, per la gioia degli impianti e di chi con le stagionali ci campa un anno intero. A me la neve non manca per niente, anzi.
Il paradosso dei se e dei sì
Ieri alla radio hanno detto che al mare fa freddo perché il nostro paese è stato ricoperto da una fitta coltre di nubi basse che stazionano sulla costa, e che in montagna fa caldo perché la montagna è alta, quindi buca le nubi basse e il sole riscalda le vette. Ho pensato, sorridendo, a tutti i miei paradossi.
In macchina, mi godevo il silenzio dovuto alla mancanza delle voci che mi infastidiscono, mentre la strada non mi sorprendeva. È la stessa, si consuma, ma resiste quella, mentre cambiano i perché, i se e i sì. Sono moscerini, mosche, mosconi e pure vespe certe volte, che si affaticano dall’alba al tramonto e la notte, perché soffrono d’insonnia, a bisbigliarmi parole di sconforto nelle orecchie e a pizzicarmi con quelle loro zampette secche.
Il silenzio mi fa compagnia. Non occorre un silenzio totale, ma un silenzio di assenze. Mi piace, per quanto odi le mancanze. Le assenze di cui parlo non appartengono alla nostalgia, ma alla speranza che continuino a mancare. Se il mondo fosse capace di costruire una calotta tutta per me, che sappia isolarmi oltre che rendermi invisibile, mi ci tufferei e chiuderei gli occhi. Magari fatta proprio di nuvole, per nascondere me, che sono alto, abito fra i monti, ma ho freddo nonostante il sole.
Melissa P. scopre gli altarini: “Il mio editore mi rise in faccia davanti a tutti!”
Io credo che Melissa P. abbia fatto bene.
Non fate quella faccia, provo a spiegarmi. In questi giorni si sta consumando sulle pagine de Il Fatto Quotidiano una battaglia fra l’autrice di ‘Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire’ ultimo caso letterario italiano dalle proporzioni mondiali che ricordi, e il suo ex editore e quasi suocero Elido Fazi. Melissa ha deciso di chiedere giustizia attraverso gli avvocati, visto che da sola non le è stato possibile. Quando infatti, dopo diversi solleciti attraverso e-mail scritte da lei e dal suo agente, si è recata alla sede della Fazi per chiedere come mai da due anni nessuno le presentasse un rendiconto delle vendite dei tre suoi libri, il signor Elido le è scoppiato a ridere in faccia davanti a tutti. Melissa P. decide adesso di rivelare un passato che agli occhi degli altri desta solo invidia per una fanciulla baciata da tutta la buona sorte del mondo messa assieme. In verità resta una giovane scrittrice a cui il suo editore, dopo averle pagato soltanto parzialmente i diritti, le dà dell’analfabeta e della fallita (lui che ha pubblicato tre suoi libri, mica uno, e le ha fatto un’offerta per un quarto ‘Tre’ adesso nelle librerie con Einaudi). Elido parla pure di ‘Tre’, dice che non l’ha letto, ma l’ha fatto la sua compagna che è un’italianista. “Dopo una trentina di pagine accettabili diventa una vera porcheria. Si è rovinata da sola”, continua, “decidendo di fare di testa sua. Melissa P. è finita”.
Da quello che Melissa P. sostiene la casa editrice Fazi le dovrebbe più di un milione di euro. L’editore, per corrisponderle le royalty dovute al massiccio successo di vendita del suo libro, aveva scelto la formula dello stipendio. Rate mensili quindi, prima di 50mila euro poi ridotte fino a non più arrivare, nonostante ci fosse ancora molto da pagare. La faccenda economica e legale con la Fazi è stata comunque risolta da un accordo ultimo raggiunto fra gli avvocati delle parti. Elido dovrà versare a Melissa P. una quota finale di 61mila euro restituendole i diritti di tutte le sue opere pubblicate con la Fazi, già sparite dalle librerie.
Il punto dov’è? Melissa P. non si accontenta degli avvocati e sceglie la strada dello sputtanamento in pubblica piazza raccontando al giornalista e blogger Luca Telese tutti i retroscena di un rapporto che aveva oltrepassato i confini del lavoro facendosi carico di astio represso per la storia d’amore fra Melissa e Thomas, figlio di Elido, che l’editore mai ha sostenuto, né accettato. Molte polemiche anche sui diritti cinematografici acquistati da Francesca Neri dal lungo fiuto, quando ancora il libro non si era trasformato nel fenomeno noto a tutti, per una somma che si aggirerebbe attorno agli 80mila euro dei quali Melissa ne avrebbe percepiti solamente 4. Leggo nell’intervista dei suoi sbagliati investimenti fatti solo per amore della madre, alla quale avrebbe acquistato un negozio poi fallito, attraverso un mutuo che la venticinquenne catanese continua ancora a pagare, e poi una casa a Roma forse troppo costosa. Melissa P. racconta di essere tuttora sull’orlo della bancarotta, nonostante la sua ultima pubblicazione per Einaudi e il ruolo che riveste come ospite fissa nell’edizione di quest’anno di Very Victoria su La7.
Storie come questa, in cui per vederci chiaro bisognerebbe fare i conti in tasca ai protagonisti, di solito vengono lavate in casa assieme a tutti i panni che si sporcano per ripulirle. Melissa P. ha deciso di far emergere un cono di relazioni, accadimenti, intrecci, falsità tipiche di un mercato spietato che mangia le uova d’oro della gallinella del momento. C’ha fatto le spese uno degli editori più apprezzati nell’ambito degli indipendenti, uno che ha lanciato grandi nomi come Licalzi, passato poi a Rizzoli, Abate, passato alla Mondadori. Uno che ha fiutato il fenomeno dell’anno Twilight e l’ha portato in Italia. C’ha fatto le spese un nome rispettabile che nessuno prima di Melissa P. aveva mai messo in discussione, nonostante i tanti abbandoni che la Fazi in questi anni ha subìto proprio da chi l’aveva scelta. Per fare un nome su tutti: Isabella Santacroce che ha pubblicato il suo ultimo romanzo con la Rizzoli, senza dare a nessuno spiegazioni sulla sua decisione. Che i suoi motivi siano vicini a quelli degli altri e di Melissa P. ma che lei, come gli altri, abbia preferito le acque di un torbido silenzio rassicurante, al baccano della verità che lascia, agli occhi dei lettori, una macchia sull’onore e sul percorso artistico?
Per questo dico che Melissa P. ha fatto bene.
Qua trovate l’intervista a Melissa, la replica di Elido Fazi sembrerebbe essere stata rimossa, e questa è la lettera che Melissa P. ha scritto e chiesto a Il Fatto Quotidiano di pubblicare.
Quella sera dorata – Peter Cameron
Ecco la recensione che ho scritto dopo aver letto ‘Quella sera dorata’ di Peter Cameron. Come al solito la trovate oltre che quaggiù anche laggiù.
Il titolo originale era ‘The city of your final destination’ e, a lettura ultimata, mi domando perché, per la versione italiana, sia stato cambiato in ‘Quella sera dorata’, che non rappresenta per nulla il romanzo. Lo generalizza e va alla ricerca di una poesia gratuita che, oltre a non servire, rischia di banalizzare una storia meravigliosa.
Trama: Tutto inizia da una lettera che Omar Razaghi, studente del Kansas con origini iraniane, scrive a Caroline Gund, Arden Langdon e Adam Gund, esecutori testamentari della proprietà letteraria di Jules Gund, autore di un solo romanzo tradotto in molti paesi: ‘La gondola’, per chiedere loro l’autorizzazione a scriverne la biografia. La carriera universitaria di Omar dipende dalla biografia di Gund. L’assegno di ricerca, che comprende anche i fondi per la pubblicazione, è vincolato al consenso degli eredi. Consenso che i tre gli negano nonostante Adam, fratello dell’autore, ritenga che una biografia ufficiale non possa che giovare loro, ma Caroline, ex moglie di Jules, e Arden, sua ultima compagna, non ne vogliono sapere. Omar ha ventotto anni e un’insicurezza dalle radici lontane. L’esito negativo della richiesta lo tenta a rinunciare al dottorato, ma Deirdre, la sua ambiziosa ragazza, che l’ha sempre sminuito e guidato come un bambino a cui si deve insegnare la vita, lo convince ad andarsi a prendere quello che vuole, a spendere parte della borsa di studio per recarsi in Uruguay, dove vivono i tre, per provare a convincerli a farsi concedere l’autorizzazione. Dal momento del suo arrivo, fuori il cancello della grande villa di Ochos Rìos dove vivono Caroline, Arden e sua figlia Porzia, Omar dal bell’aspetto sconvolgerà gli equilibri di silenzi che hanno regolato per anni il ritmo della loro convivenza e del rapporto che le due hanno con Adam che vive in un mulino poco distante, assieme al suo giovane e infelice compagno Pete. È un viaggio senza ritorno, il suo, nonostante comunque dovrà ripartire. Uno di quei viaggi che cambiano la vita e ti tengono in trappola per sempre. È un libro che riesce a raccontare i rapporti umani come pochi e lo fa attraverso i dialoghi. La voce di Cameron è autentica a tal punto da non appartenergli più; si personifica ogni volta in chi parla. Nel libro, Cameron sparisce lasciando spazio a Omar, Arden, Adam, Deirdre, Caroline, la piccola Porzia e il misterioso Jules Gund, morto colpevole di aver posseduto una sensibilità capace di vedere attraverso i silenzi e gli intrighi di una famiglia un po’ troppo allargata. Non importa se alla fine Omar avrà la tanto agognata autorizzazione, se alla fine riuscirà oppure no a portare a termine il suo dottorato. Omar non è un vincente come la sua ragazza, che arriverà a insegnare nei più prestigiosi college americani. Omar assorbe le sensazioni che gli arrivano dalle atmosfere dell’Uruguay, dal caldo soffocante, dal sole che abbronza la pelle, dagli occhi di Arden, dall’amore che Adam prova per il suo compagno Pete che dalla sua non riesce a lasciarlo, dalla reticenza di Caroline che vive rinchiusa nella torre a dipingere quadri d’altri, perché da molti anni ha smesso di credere nelle proprie qualità di pittrice. Omar si nutre dei profumi dei fiori della serra, della luce che la distesa di stelle sconfinata riserva ai suoi occhi ogni notte. Entra nelle motivazioni che spingono Arden e Caroline a dire di no, lo fa attraverso la vita segreta di Jules che scopre lentamente dai molti confronti con i tre. La convivenza, seppur di pochi giorni, lo arricchisce e lo priva di tutto di colpo, nel momento in cui assieme a Deirdre, che l’ha raggiunto in seguito a un brutto incidente, deve lasciare la villa e Ochos Rìos e tornare nel Kansas. La meta diventa secondaria rispetto a tutti i cambiamenti che il viaggio porta in Omar, costringendolo a rivedere la sua vita.
Peter Cameron, che ho apprezzato moltissimo per i racconti contenuti in ‘Paura della matematica’ e per il romanzo ‘Un giorno questo dolore ti sarà utile’, conferma di essere un romanziere capace di dare vita a personaggi che, dopo averti tenuto stretto per il braccio, impedendoti di lasciare la storia prima della fine del libro, escono dalla pagina e continuano a farti compagnia per un po’.
Supermarket24 agli occhi del Chiappanuvoli
Cominciamo bene il 2011 con una bella recensione che Alessandro Gioia fa di Supermarket24 sul suo blog Origami di un Chiappanuvoli. Ancora auguri a tutti!
E alla fine sono riuscito a trovare la concentrazione giusta ed il tempo per scrivere anche una recensione a cui tenevo particolarmente. Quella di Supermarket24, romanzo d’esordio di Matteo Grimaldi, aquilano e amico, edito dalla Camelopardus (ISBN 978-88-902561-4-1).
Supermarket24 è un genere di libro che a me non piace. Cioè non so se l’avrei scelto tra gli scaffali della libreria. Cioè la storia di tizio che va a lavorare in un supermercato, la storia di un singolo giorno, insomma, se non lo avessi voluto leggere per conoscere meglio Matteo, se non lo avessi voluto leggere per conoscere uno scrittore aquilano, non credo che lo avrei mai aperto. Ma in questo caso, fortuna ha voluto che le circostanze mi portassero ad affrontalo, a confrontarmici, oggi a recensirlo e devo dire che non me ne posso assolutamente pentire, tutt’altro.
Supermarket è un romanzo davvero ben riuscito. In esso si ritrova chiaro il tentativo, riuscito, di produrre un linguaggio nuovo, non solo giovanile e moderno, ma compiuto e sapientemente dosato. Matteo riesce a trattenere il lettore sul testo parlando della vita del commesso di un reparto ortofrutticolo, cosa non proprio facile e scontata. Dopo ogni pagina ed ogni avvenimento si ha la voglia di proseguire, andare oltre, vedere come va a finire. Numerose sono state le nottate in cui ho spento la luce oltre le due di mattina per colpa del ritmo avvincente e coinvolgente. Supermarket24 è scritto bene, va detto, è con questo presupposto che l’autore ha potuto permettersi di parlare di qualsiasi cosa, dalla frutta ai grandi sistemi, dal provincialismo dell’Aquila, città dove è ambientato, all’Italia intera, rappresentata con i suoi pro e contro fin dentro un semplice reparto di supermercato.
Ed i contenuti abbondano. Tra mele e pere si parla della solitudine degli esseri umani, dell’amore che troppo spesso non è la soluzione che ci aspettavano al problema della solitudine, dell’invidia tra le persone, della riduzione del lavoratore a cartellino da timbrare in orario. Arriva a toccare temi alti come il suicidio, la Fede, il rispetto per la donna, le differenze di genere, con semplicità e ferreo sarcasmo. Armi di cui deve essere dotato non già lo scrittore, ma l’osservatore della realtà che viviamo. Ecco cos’è SM24, un viaggio di 24 ore dentro la testa di un osservatore attento e spezzante, che non ha paura di mostrare, indicare, criticare il bello o il brutto dei minuti che riempiono le esistenze di tutti noi. A tratti, i pensieri sono sembrati diventare anche isteria, foga, ma mai, mai saccenza.
Paolo di Paolo nella sua prefazione scrive: “Luca (il protagonista CNL) passa nel supermarket come nei tre regni danteschi (i titoli delle tre sezioni sono Appena, Dentro, Scappo); si disorienta, si stupisce, si infuria. Scopre. Capisce.” Se si possono avvicinare con le dovute cautele le due opere, va riconosciuto a Matteo, non già unicamente la scoperta, il viaggio attraverso l’esperienza, “caduta, punizione e beatitudine”, quanto il carattere didascalico di SM24, scevro dalla mania tutta dantesca di mettersi sul piedistallo e giudicare.
Punti di forza: assolutamente la tecnica, la colla con cui è scritto i libro che ti trattiene le ciglia sulle pagine. L’ironia che dimostra il protagonista, e quindi crediamo lo scrittore, nel prendere se stesso e nell’affrontare le situazioni che gli si pongono davanti. Una gran bella piacevolezza di 200 pagine.
Punti deboli: non vedevo l’ora di arrivare a questo punto. La cosa che non ho gradito è il finale, che non voglio e posso svelare. Che dire? Io ci avevo creduto, ci ero entrato dentro, mi ero immedesimato, avevo sofferto, avevo immaginato, avevo sperato, avevo sentito l’odore della frutta e della merda che respira Luca Sognatore e mi aspettavo… Ma forse son io poco “Sognatore”.
Consigli al lettore: leggerlo perché parla di voi, di me, di lui, di loro, degli altri, e di quegli altri ancora. Parla della realtà di provincia, parla dell’Aquila pur non menzionando lontanamente il terremoto. Si accomodi chi vuole fare un giro nel cervello di un osservatore sarcastico e preciso.
Futuribili: a Gennaio esce il secondo romanzo di Matteo Grimaldi, “Una valigia tutta sbagliata”. Attendiamo, ma stiamo pur sicuri che ne sentiremo comunque parlare.
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