Proprio proprio proprio ora?!

Cominciamo col dire che ho la polmonite. Non è ancora sicuro, ma siam lì. Non sto a descrivere il malessere della febbre a 39.5 perché non credo di essere l’unico al mondo ad averlo provato. Quel dolore lancinante dietro la schiena, però, non l’avevo provato mai. Come spade conficcate fin dentro ai polmoni, che stanno lì e non c’è verso. In piedi proprio non è pensabile stare. Immobile nel letto, l’unica soluzione, sebbene quel dolore mi arrivasse al cervello.
Oddio mio, pensavo. Oddio, deliravo mentre Mamy voltava e rivoltava continuamente la pezza che si scaldava in un paio di secondi sulla fronte, e poi andava di là e la bagnava e poi tornava e io stavo pochissimo meglio. C’ho anche litigato parecchio durante la notte. La accusavo di non essersi saputa spiegare col medico, perché non era possibile che oltre all’antibiotico non le avesse dato un antidolorifico. Ad un certo punto mi sono messo a piangere. Il punto dell’impotenza. Volevo strapparmi quel male da dietro la schiena e invece c’era da aspettare la notte, poi il giorno dopo e chissà quanto ancora.
Disperato e contro il volere di Mamy che urlava: “Se non te l’ha dato, l’antidolorifico, vuol dire che non ti serve!” afferro il telefono e richiamo il medico.
“Paolo, io questo dolore alla schiena non lo sopporto.” “Quale dolore alla schiena?” “Il dolore interno, dentro, il dolore alla schiena, ma mia madre quando è passata non te l’ha detto?” “Mi ha parlato di tosse e febbre.” In quel preciso momento avrei voluto strangolarla, e undici ore di agonia sarebbero state un motivo più che valido, ma mantengo la calma e lui aggiunge: “Prenditi Brufen bustine, due volte al giorno a stomaco pieno”.
Homer, l’antibiotico, mi ha tolto la febbre. I polmoni è come se fossero avvolti da uno strato di zucchero spesso e all’apparenza compatto che mi fa sentire un fastidio leggero perché il male sta tutto dentro. Solo che col passare delle ore lo zucchero comincia a sciogliersi e lo strato spesso e compatto ad assottigliarsi, col diminuire dell’effetto dell’antidolorifico Brufen, finché tornano le lame ed è l’ora di una nuova bustina.
Va bene la polmonite, va bene la bronchite, va bene la broncopolmonite, va bene tutto, ma una cosa mi fa incazzare a morte (non posso dire: incavolare o inalberare o inquietare se mi fa incazzare).
Stasera, giovedì 25 marzo 2010, c’è il concerto di Carmen Consoli al teatro comunale di Teramo. I biglietti me li ha regalati Luca a Natale. Argomentiamo la faccenda con un altro dato di fatto. Io sono quasi tre anni che non mi ammalo. Ebbene. Doveva prendermi questa bordata ancora non ben definita di malanni proprio proprio proprio ora?!
Evidentemente sì. Grazie eh. Ma io, che sono uno che non ci sta, c’ho provato così: “Paolo, senti, domani c’è il concerto di Carmen Consoli a Teramo, no?” “Mbè?!” “No è che io ho i biglietti da tre mesi e me li ha regalati il mio migliore amico e ci tengo da morire ad andare.” “Quindi?” “Lo sai cosa significa Carmen per me?” “No, e neanche mi interessa. Quindi?” “Se facessi una scappatella? Tanto è un’oretta scarsa che Carmen non è una che canta tantissimo. Poi è un teatro, mi copro bene, il tempo di andare e tornare – giuro – e poi non esco più.” “Allora Matte’, mo’ ti dico una cosa. Se da qui a dieci giorni ti azzardi a metter piede fuori da casa, ti conviene cambiare medico perché io smetterò di curarti per l’eternità.”
Morale della favola: chi vuole andare al concerto basta che segua Franco e la Papi nei loro spostamenti e tenda loro un agguato. Stanno partendo adesso da Sassa in una Ka azzurra nuova. Non fatevi ingannare dal fango che la ricopre, è una tecnica della Papi per scoraggiare eventuali idee di qualche malintenzionato ahum ahum. Vi do qualche altro dettaglio. Ha un porta CD spugnoso di Hello Kitty bene in vista sul cruscotto. I biglietti sono in una busta da lettere bianca nella borsa piumata della Papi.

T U S E I U N A S S A S S I N O

Ho avuto un’idea geniale.
Le idee geniali vanno mantenute supersegretissime.
Consiglio breve e pratico: imparate a chiudere la bocca sennò arriva uno stronzo che acchiappa l’idea, cambia due cose e magari la migliora pure – a migliorare un’idea geniale non ci vuole niente, è nell’averla l’idea il vero merito – e ci fa su nel migliore dei casi una gran figura (quella che meritavate voi), nel peggiore (per voi) una gran carriera, mentre voi continuate a spalare la merda dei cani, per dire.
Ci voleva (cazzo) quest’idea! Ci voleva a dare spinta, carica, energie, linfa vitale, rabbia, reazione e velocità al mio nuovo progetto letterario. Che a sua volta dà spinta, carica e tutte quelle belle parole appena scritte, alla mia vita che di spinta, carica e velocità ne vanta quanta un verme drogato. È una catena di spinte, che non è una cosa hard, ma una giostra.
C’è un sacco di musica ora nella mia testa che si aggroviglia e cambia continuamente restando fissa sulla stessa stazione. 
Che poi chi lo stabilisce se e quanto un’idea è geniale?! Tutte sembrano geniali, finché si perdono. Quella geniale veramente ti salva la vita, come la sterzata di volante che la mia amica Papi ha dato l’altra notte.
Guidavo per modo di dire. Procedevo con la faccia che guardava lei, sul sedile del passeggero – gran bella ragazza la Papi – e col piede che non smetteva di ritenere opportuno premere sull’acceleratore. Finché un grido.
“Oddio!” La mano della Papi sul volante. La mia Gets devia bloccandosi a una spanna da un vecchio che salta per la paura.
“Ma togliti dalla strada rimba!”
Come facevo a non insultarlo? Lui rispondeva senza emettere suoni. Tipo un pesce. Sarà stato lo shock. Che poi insomma, a una certa età, che problema c’è se t’investono e muori? Hai vissuto. Hai comprato casa ai tuoi figli. Hai comprato lecca lecca ai tuoi nipoti. Hai comprato dentiere a volontà.
“Tu sei un assassino!” Pronuncia lentamente la Papi sbigottita, scandendo ogni sillaba proprio così: T U S E I U N A S S A S S I N O.
“Dai, mica è morto. Non l’ho neanche colpito!” “Oddio, cosa sarebbe accaduto se l’avessimo ucciso?!” “Eh, ce ne saremmo andati, tanto non c’ha visto nessuno!”
Io comunque, a parte l’idea geniale, in questo post ci tengo a precisare che non sono un senzacuore come sembrerebbe. Pensate che ho persino salvato una cimice che si era ribaltata su se stessa nella stanza d’albergo dove sono stato per una notte, non a cavalcare puledrine, ma per un corso di pronto intervento e primo soccorso. Mi ci ha mandato il mio direttore. È fondamentale che io sappia rianimare manichini e spegnere incendi di quaranta cm per un metro.
Poteva restare vuota quella stanza d’hotel. Potevo rientrare troppo tardi e invece.
Che gran botta di culo quella cimice!

Questa stupida convinzione di avere il cuore più grande del mare

Continua a seppellire i miei ricordi. Continua a mascherare il mondo. A riempire gli squarci degli edifici esplosi. A far tacere le voci inutili e le risatine sarcastiche. A raffreddare i sentimenti e a riscaldare i boccioli invisibili. Continua ad annebbiare la vista di chi impotente sbuffa. Ad appesantire le tegole di un tetto che non ha ceduto. Continua a farti odiare da me che gradualmente ti capisco, perché ritrovo in te tutto quello che nessuno ha mai afferrato, amato e portato via di Matteo.
Siamo uguali perché prendi la vita per stanchezza. Alla fine a qualcuno simpatica dovrai esserlo per forza perché, vuoi o non vuoi, tu continuerai a cadere, incurante di chi ha un appuntamento, incurante di chi vuole il sole e le stelle.
Che noia il sole e le stelle se non sai con chi lasciarti accecare, se non sai con chi contarle.
Forse è per questo che ti odiavo prima, perché non ero capace di capirti, afferrarti e portarti via. Io non mi capisco quasi mai. Comincia a infastidirmi questa stupida convinzione di avere il cuore più grande del mare. Come ho smesso di odiare te forse un giorno imparerò a comprendermi e ad apprezzare il dubbio di quel rosso, che brucia all’idea che un’altra volta, incurante, l’amore abbia proseguito, per niente attratto da un tale calore. Avrei proseguito anch’io se fossi stato l’amore. Avrei proseguito anch’io per niente attratto da un tale calore. Quale calore?
Il mio fuoco brucia senza scaldare. Brucia tutto in poche settimane e non lascia niente, neanche la cenere. Non c’è bisogno di ripulire i resti, non ci sono resti.
Dopo tanta neve. Dopo che il cielo in mille modi ha provato a gridarmi: “Ehi, io sono la neve e tu devi amarmi”. Niente da fare, maledetta neve. Anzi, smetti pure di cadere perché mi stai rovinando l’esistenza, mi stai togliendo emozioni, mi stai facendo odiare la poesia della neve che sei.
Quanto poco orizzonte vedevano i miei occhi. Quanto inutile male gridavo al cielo che così tentava di tenermi al riparo, coprirmi di neve per non farmi vedere a nessuno. Segnare distanze chiare. Costruire barriere che impedissero alla pelle di incollarsi troppo e definitivamente, interrompendo di continuo il processo di fusione.
E ora cammino sui sampietrini farinosi di freddo, guidato dal fruscio ovattato dei fiocchi che cadono leggeri sui ricordi. Ci sono solo io fra queste strade abbandonate da undici mesi. Io e la neve che si liquefa e scivola per il corso, i portici. Bagna i davanzali, gli uffici, il pavimento piastrellato della profumeria. In questo teatro triste nessuno spettacolo verrà più rappresentato.
Cammino a fatica e tengo le lacrime nel cuore. Cammino fra le macerie.
Le macerie.
Le macerie.
Le macerie.
E, abbracciato da questa neve coraggiosa, mi sento invincibile.

Come la neve, paradossale

La luce è ancora fredda, ma questo azzurro è incredibile per quanto non riscaldi neanche un po’. Non va per niente bene, ma sono comunque qui, meno felice di prima. La vita è adesso, non ieri e neanche domani. Non è cambiata molto, anzi è cambiata troppo. Ha smesso di nevicare da due giorni. Mi ha fatto ridere tutta quella neve il cinque marzo. Non era una risata divertita la mia, più grottesca. Paradossale neve fuori stagione come me, che non trovo la mia di stagione.
Devo distribuire le mie faccende nelle ore dei giorni delle settimane dell’anno di tutti gli anni della vita. È un problema finto, però di problemi ne include parecchi. È un involucro di problemi che stanno lì e guai a chi li tocca. Il fatto che siano imballati da metri di cellophane mi fa sentire da un lato come se avessi tutto sotto controllo, come se avessi le mani su ogni cosa che non può scappare perché non è fatta di sabbia. Affrontare la sabbia cambierebbe il discorso. Dall’altro mi fa mancare l’aria, perché stretto in quel cellophane spesse volte mi ci ritrovo anch’io che divento all’improvviso un problema per qualcun altro. Senza averlo chiesto. Senza aver fatto nulla di male a nessuno, anzi. Senza aver smesso di fare del bene a quel qualcuno.
Oddio quanto bene!
Inquantificabile bene che non credevo di possedere e inqualificabile silenzio. Come la neve, paradossale.
Che fai quando ti accorgi di indossare scarpe che cominciano ad aprirsi. Scarpe rovinate e fuori moda da anni, in cui entra l’acqua dagli squarci quando per sbaglio finisci in una pozzanghera? Gli altri hanno tutti scarpe più belle delle tue, di quelle che attraggono gli altrui occhi quando passeggiano per il corso.
Che fai quando arrivi alla normale conclusione che le tue scarpe hanno fatto il loro tempo?
La risposta è semplice: le butti. Non facciamola così drammatica, si tratta pur sempre di scarpe. Poi, se sei un maniaco del collezionismo senza regole e casa tua è diventata negli anni un museo di robaccia incontrata dalla pubertà a oggi, le appoggi su una mensola, le chiudi in qualche scatola, riservi loro un angolo del tuo museo, ma comunque ai piedi ora hai fiammanti Adidas o quello che ti pare, ma non quelle lì. Ti guardi allo specchio e pensi: Cazzo che figata le mie scarpe nuove!
Saresti un folle se pensassi di spendere anche solo due minuti per spiegare a quelle vecchie scarpe di tela logore come sono andate le cose e il perché di quell’abbandono.
Il problema nasce quando si parla di persone. Esseri umani fatti non soltanto di carne e sangue e ossa e muscoli e organi, ma pure di sensazioni, battiti, pulsioni, assenze d’ossigeno, palpitazioni, mancamenti, sorrisi. Bisogna rendere conto a tutto questo. Non puoi scendere dalla giostra perché stufo, cambiare gioco e magari luna park senza neanche salutare. O meglio, puoi. Solo che poi in quel luna park non ci puoi tornare più.
Certe volte non basta il mondo che dai a farti meritare di riavere indietro una mollica di rispetto e io questo proprio non potevo crederlo.

“Ero triste perché i momenti troppo felici si dileguano senza lasciare traccia, è l’angoscia che non ha piume, oppure troppo peso per volar via.”

Emily Dickinson