Lo strastronzo di Bagnano

Una settimanella fa passavo per caso a Bagnano (Massa Carrara), mi sono fermato un attimo al bar Biffi a prendere un caffè e, tanto che c’ero, ho giocato una schedina da 2 euro siglando i numeri: 10, 11, 27, 45, 79, 88. Qualcuno mi dice se ho fatto almeno uno, che non ho avuto un solo minuto di tempo per controllare?
Ebbene la famosa pallina magica finalmente qualcuno l’ha pescata, in un urna che ne conteneva 622 milioni. Ora non so se è vero, ma addirittura parrebbe non aver fatto neanche lo sforzo di segnarli lui i sei numeri e, se da una parte ha permesso alla ricevitoria/bar di risparmiare sull’inchiostro della penna, dall’altra la ricevitoria/bar gl’ha fatto un bel regalo compilando quella schedina assieme a tante altre, di quelle nei cestini della fortuna, capite? Una a caso fra venti, trenta, trecento  milioni sparse per l’Italia, e lui/lei/l’altro ha preso proprio quella, in quel baretto di quel paesino sperduto di duemila abitanti. È un attimo, l’ha presa e TAC ha vinto quasi centocinquanta milioni di euro.
L’uscita del sei ha definitivamente ucciso tutte le aspettative che avevo riversato sul mio supersistema Range. L’ho creato io e obiettivamente non è che abbia scoperto l’America. Ho preso un range di numeri, una ventina, e li ho combinati in sestine. Non che le abbia proprio giocate tutte, le combinazioni. Ne ho scelte otto e le ho giocate in quattro schedine da due colonne con quattro superstar diversi spendendo la considerevole cifra di otto euro. Ho fatto uno per ogni colonna, se li avessi combinati tutti avrei fatto tre, ma forse avrei speso più dei quindici euro che avrei vinto. Non era una gran trovata ‘sto supersistema Range, ma era tutto ciò che mi restava, e avevo deciso di dargli fiducia per almeno tre estrazioni consecutive, sempre se non fosse uscito il sei. Non ho fatto neanche in tempo a dichiararlo, che uno stronzo di Bagnano ha rovinato i giochi a tutti e affanculo pure il supersistema Range. Io penso a chi ha ideato sistemi da cinquantamila e passa euro e non ha beccato una ceppa, intanto lui/lei/l’altro, con una certa noncuranza, e anche un po’ di timore dovuto all’inesperienza – magari era pure la prima volta che giocava, lo strastronzo, e allora avrà pensato: “Ne prendo una pronta, almeno non faccio figure di merda” – pescava la sua felicità.
Io, che sono uno moderato, ho deciso di continuare a giocare perché quaranta milioni mi vanno bene uguale. Al bar c’era una fila disumana. Dopo tanto attendere arriva il mio turno e proprio in quell’istante entra una signora accompagnata da un bambino decenne che supera tutta la fila, allunga la mano e porge alla cassiera confusa la sua schedina proprio nello stesso istante in cui io mi accingevo a porgerle la mia. La cassiera mi osserva con occhi interrogativi, io le faccio cenno di prendere quella della signora, tanto una in più poco cambia e poi non mi va di discutere per trenta secondi d’attesa. La signora si lascia andare al commento ad altissima voce: “Mo’, solo perché uno è alto…” come se fosse lei la vittima. A quel punto non c’ho visto più: “Signora, comunque c’ero io” “No, si sbaglia!” “Guardi, lei ha superato una fila di venti persone, non soltanto me.” E da dietro si udivano borbottare: “Sì, ha ragione… Quella stronz… Non si vergogna… Ma tu guarda la gente…” La bionda di verde vestita non ha potuto fare altro che ammettere le proprie colpe: “Forse ha ragione, mi scusi!” “Non si scusi, si figuri, ma la prossima volta i commenti se li tenga per sé!” “Io commento quanto e quando mi pare!” “Sì, a casa sua!”
Dopo qualche istante di silenzio, mentre riponevo la preziosissima giocata (zero) nel portafogli, lei si volta al figlio e: “Lo vedi che figure mi fai fare? Giuro che con me non ci esci più. La figuraccia col signore ce l’ho fatta io, mica tu!”
Ho ripensato a mia madre, quando in seconda media mi disse di non studiarla quella pagina della Divina Commedia a memoria perché secondo lei il professore era pazzo a obbligarci a imparare a memoria il delirio dantesco. Il giorno dopo, il pazzo mi ha interrogato e io *molto furbamente gl’ho detto che non avevo studiato perché mia madre mi aveva detto di non farlo, fra l’altro omettendo la sua riflessione sulla sanità mentale dell’uomo. Lui l’ha convocata al ricevimento e mia madre: “Professore, ma le pare che io possa dire a mio figlio una cosa del genere. Mi fa fare certe figure Matteo…”

Non sai, non capisci e non potrai mai immaginare

Non credo occorra una particolare predisposizione o una laurea specialistica, ed escluderei pure quella che i miei genitori si ostinano a qualificare come breve (dieci anni c’avrò impiegato, se tutto va bene, alla faccia del breve!), per arrivare a comprendere che può essere di cattivo gusto (dico può perché, se qualcuno lo fa, non è opinione di tutti, evidentemente) fotografare a più riprese una famiglia che, seguita da due vigili del fuoco, recupera dal suo appartamento tagliuzzato coperte e borsoni pieni di vestiti, il televisore e uno scatolone di libri. Tutto questo sotto i flash di una gita di benvestite che camminano le strade aquilane e fermano il tempo su immagini che nessuno dovrebbe vivere, segmenti di vite che loro osservano dalla platea, come se fosse tutto frutto di un copione e quella gente attori con una vita al di là del palco. In strada il vociare dei passanti e i motori delle automobili non riescono a coprire il rispettoso silenzio che viene dal cielo e si propaga su tutto. È una coltre di tristezza che sta nel fondo di ogni cosa: nel verde degli alberi, nel nero consumato dell’asfalto, nelle crepe sui muri, nei rinforzi di legno, nelle impalcature, nella vita bollente del sole e dei bambini che corrono in mezzo a tutto questo. Sono rimasto qualche istante a guardarle, quelle donne sorridenti e coi tacchi alti, e mi sono chiesto se avrebbero riso allo stesso modo se una grande mano avesse deciso tutto a un tratto di scambiare i ruoli. Dare a loro la parte delle terremotate coperte da una tuta vecchia e con la pelle arsa dal sole di quattro mesi vissuti in tenda, a salvare il salvabile di una casa che sarà presto abbattuta, con qualcuno a ridere e scattare foto, con nella testa solo l’impellente problema di trovare un localetto carino dove pranzare, non importa il conto perché da turisti non si bada a spese. Avrei ringraziato e ammirato quella grande mano se proprio in quell’attimo avesse dato una bella shakerata alla terra, sotto i loro piedi e sotto i loro tacchi, per vedere quanti istanti avrebbero impiegato quei sorrisi a trasformarsi in ghigni paralizzati dal terrore, la pelle del viso sbiancarsi come un foglio nuovo e le macchinette fotografiche dritte nelle loro custodie.
Le distanze funzionano e non funzionano. Quando due realtà si incontrano, così vicine fisicamente, ma così lontane che nessuno e nessuna spiegazione saprebbero risultare efficaci di fronte alla mancata esperienza, qualunque scambio è inutile. Quella gente sarà e rimarrà povera di possedimenti e valori economici, quell’altra, nonostante non smetta di ripetere: “Lo so… Mi dispiace… Vi capisco… Immagino…” non sa, non capisce, non gli dispiace e non potrà mai immaginare perché, nonostante quei pochi metri, è e rimarrà povera di valori morali ed esperienza; di questa esperienza, almeno.

Al giro di boa ancora senza stelle

Credo di poter dire che so cosa prova un capello sfibrato. Non stanco, sfibrato. Nel mio caso, paragone a parte, non è una questione di capelli, ma di sensazioni fisiche. È il quarto giorno consecutivo che al lavoro faccio nove ore affilate e sarà così fino a mercoledì prossimo. Sono giorni di fuoco, anzi di Crispy Bacon, patatine, tè alla pesca, Flurry, salsa Tasty e coni gelato. Maledetti coni gelato. Non ne vogliono proprio sapere di venir fuori a forma di nuvoletta di Alladin. Ho una coordinazione mano destra – mano sinistra pari a quella di un paralitico con le convulsioni e il risultato migliore è stato una specie di parallelepipedo con una testa di toro sulla punta che ho servito con un sorriso convincente alla ragazza visibilmente scioccata. Quella visione avrà risvegliato le sue più recondite paure trasformando quelle corna di vaniglia nel peggiore presagio possibile per la sua storia d’amore ormai agli sgoccioli. Mi sono voltato verso la folla e ho esclamato: “Prego, chi deve ordinare?”. Lei è andata via continuando a fissare il co(r)no gelato fra le mani e ha anche urtato contro la colonna e per poco non finiva a terra. Non era proprio il caso di mettersi lì a disquisire sulla forma del gelato, col direttore e la vicedirettrice a pochi passi. Per la serie: Prenditi ‘sta sottospecie di cono e sparisci prima che mi licenzino!
Nove ore sono tante e quando son finite quelle mi ritrovo a scoprire che è finita pure la giornata. Il non avere tempo libero ha i suoi lati positivi. Persino i pensieri, che non hanno bisogno di chiedere permesso per venire a galla, hanno bisogno di tempo, però. E se il tempo non ce l’hai è difficile che ti metti a piangere sulle tue sciagure o a ricordare con malinconia i momenti in cui tutto non era com’è adesso, perché devi pensare prima a far quadrare tutto, ad arrivare puntuale al lavoro, a farlo bene, il tuo lavoro che ora è un po’ più difficile. E poi ci sono le idee letterarie da mettere su carta, da infiocchettare e applaudire. Alla sera vado a dormire stanco, appena il pendolo in salotto batte i dodici rintocchi e la mattina mi sveglio con energie a sufficienza per ripartire, ma dura poco. Ho smesso di dormire in casetta di legno. Prima o poi uno la forza la deve trovare. La verità è che in casetta non riesco a riposare. Mi sento scricchiolante come il legno che si assesta pure se soffia un alito di vento. Apro gli occhi continuamente e continuamente prendo il telefono sul comodino e guardo l’ora. Il giorno poi mi sento crollare, perché questi sono giorni faticosi. La notte mi fa meno paura e nel mio letto riesco a dormire. Vivere in questa città mi sta fortificando. Ho la sensazione di trovarmi dentro un piccolo mondo laborioso che fatica fino alla sera tardi perché si ricorda com’era prima e lo rivuole quel prima. Ora tutti lo rimpiangono, ora che bisogna fare una fatica pazzesca per non far prevalere il silenzio ogni volta che gli occhi raggiungono una casa distrutta, o il cielo dietro al Duomo. Gli occhi  non possono abituarsi, eppure devono perché questo adesso è il nuovo paesaggio, un macigno sull’umore. Eppure sento le pareti rinsaldarsi, come se una mano invisibile stesse giorno dopo giorno gettando cemento sulle crepe dell’animo. Questo è fortificarsi. Sono molti i passi che non danno cenno di cambiare, l’uno dopo l’altro, tutti uguali sempre sulla stessa strada, poi arrivi a un punto che d’improvviso cambia il cielo, magari spunta il mare, il viottolo si fa una strada più larga su cui camminare in due, fianco a fianco, e poi in tre. Noi siamo gli stessi. Io faccio quello che faccio soltanto perché ci sono loro. Altrimenti che senso avrebbe?
È passato il Ferragosto. Buona domenica, al giro di boa di quest’estate, da una L’Aquila ancora senza stelle.

Mia madre sonda

Stamattina ho afferrato con decisione il tagliacapelli e mi sono sbarazzato di tutta quella lanetta di bassa qualità che, agglomerandosi in mucchi sempre più compatti seppur irregolari, aveva dato alla mia testa la ridicola conformazione ad asso di picche. Suona il telefono. “Matte’?” È mia madre. “Senti, che fai?” Faccio che ho mezza testa rasata e devo sbrigarmi a finire prima che tu torni e col tuo radar ti metta a ispezionare ogni mm quadrato di pavimento, sanitari e tappeti per individuare microscopiche fibre di capelli sfuggite alla mia maniacale pulizia, e impazzire furiosamente come ogni volta che decido di rasarmi. “Niente, che è successo?” “Mah, no, è che… c’è il sugo nel frigorifero e la pasta cruda nel mobiletto sopra al frigorifero e il parmigiano nel frigorifero e la pentola nel mobiletto sotto ai fornelli e il mestolo di legno nel cassetto…” “Mamma, so dove sono tutte queste cose. Abito qua da quando ci abiti tu!” Il tono è il suo tipico tono da panico faticosamente controllato. Quando fa finta che sia tutto sotto controllo, che quella sia una telefonata come tante, casuale, e invece sta crepando di paura. La verità è che ha telefonato per un ben preciso motivo, accertarsi che io sia vivo, e non ci mette molto a palesarsi.
“Esciiiiiiiiiii!” “Come?” “Come coome!? Esciiiiiii!” “Mamma, non urlare. Perché dovrei uscire?” “L’hai sentita?” “Cosa?” “Come cosa, la scossa!” “No!” “Stai scherzando, vero? Stai scherzandooo?” “No, ti giuro. Non l’ho sentita!” “Ma se è stata fortissima, f-o-r-t-i-s-s-i-m-a!” “Probabilmente non sarà stata così forte, se io neanche me ne sono accorto.” “Ma se qua siamo usciti tutti!” “Hai dato l’allarme tu?” “Sì, l’ho sentita e siamo usciti tutti!” “Ah, ho capito. Va be’, comunque stai tranquilla!” “Va bene ci vediamo dopo.” “Ciao!” “Ciao… esciiiiiiiiiiiiiiii!” CLICK.
Sono andato a controllare ed è stata di 2.1. Come cavolo fa a sentirle? Io quasi quasi la segnalo a Giuliani che pare si sia indebitato fino al collo per acquistare una sonda speciale che – a suo dire – gli permetterà di ottenere risultati molto più precisi e fare quindi previsioni al minuto e a quel punto forse, oltre al mese della scossa, indovinerà magari anche la città.
Mia madre altro che sonda! È sufficiente piazzarla in una zona nevralgica e lasciarla lì tre o quattrocento ore ad elaborare. Lei è capace di rilevare tutti gli spostamenti del sottosuolo, anche i più insignificanti. Forse  è per questo che ieri sera, mentre ce ne stavamo amorevolmente riuniti attorno al tavolo a gustare un elaborato piatto di prosciutto e melone, la nostra cena (lei sempre seduta a metà, pronta allo scatto qualora dovesse verificarsi l’improvvisa manifestazione del fenomeno naturale), d’improvviso è sparita. Vi giuro, tempo di abbassare gli occhi sul piatto, portare alla bocca un pezzetto di melone, rialzarli e al suo posto non c’era più nessuno. L’hanno ritrovata poco prima della mezzanotte al solito campetto di erba medica a quattrocentonovantasette chilometri da qui. Al pastore che la minacciava di riempirla di schioppettate perché la poverina, in un eccesso di fame, aveva preso a brucare la sua erba medica, ha detto: “Mi scusi, ma ha fatto il terremoto!”. Quando la Protezione Civile – divisione CU (Casi Umani) l’ha riportata a casa, le ho spiegato, e l’ho a fatica convinta, che non si era trattato del terremoto, ma semplicemente di un camion.

La quinta possibilità

Ho quasi vinto quarantaseimiladuecento euro al Superenalotto. Sì, c’è mancato un pelo pubico, o una bollicina di saliva filamentosa perché mi ritrovassi fra le mani la schedina con un quattro star miracoloso. Partiamo dalle basi, le certezze incancellabili che nessun destino o pallina della fortuna non pescata potrà più cambiare. Ho fatto tre. Ho beccato il 41, il 49 e il 63 e questo ha portato nelle mie casse ventitre euro e ventiquattro centesimi con una schedina da tre euro, e trovo sia straordinario. Almeno ho recuperato parte delle giocate di questi mesi. E poi è eccitante ritrovare, fra i tuoi, tre dei magici numeri a cui milioni di italiani da centinaia di estrazioni danno la caccia. Ti dà la sensazione di aver sfiorato i centoventi milioni di euro. Immensamente felice – ho vinto! ho vinto! – controllo l’altra colonna e ci trovo un altro dei numeri vincenti, il 40. E lì comincia a salirmi dal più profondo del Super Io (super come l’enalotto) un istinto omicida generalizzato. Nei miei dodici numeretti, sei e sei, ne avevo beccati quattro dei vincenti, capite? Solo che il quarto, cioè quello che avrebbe fatto lievitare la mia vincita da ventitre a quattrocentosessantadue euro, (ecco comparire un mini pc nuovo, che mi eviti ogni volta un’ustione del nono grado sulle gambe), proprio quel numero, se ne stava placido e solitario sull’altra colonna, il solito odiosissimo asociale sfigato e snobbato, maledizione. Quindi niente più mini pc e ben venga un mezzo pieno alla macchina con rassegnato sospiro che par dire: “Meglio di niente!”. È quando l’occhio balza sul numero Superstar che faccio un salto dalla sedia a metà. Avete presente quando stai esultando e già capisci che il motivo del tuo gaudio infinito è frutto di un microscopico errorino di valutazione e che quindi esultare perde immediatamente il suo senso, per il non sussistere del fatto? Sei lì che esclami: “Eeehhh!!!” e alla prima acca già ti accorgi che: eh ‘sta minchia! Sì perché il mio numero Superstar era il 66, quello vincente il 67.
Alla luce di questi elementi facciamo una rapida carrellata delle possibilità che la sorte poteva riservarmi.
– Prima possibilità: 3 = 23 euro. Ed è quello che è accaduto.
– Seconda possibilità 4 (lieve shift di quel maledetto 40 sull’altra colonna, che ci voleva?) = 462 euro = mini pc = non più ustioni e clessidre che vorticano all’infinito sulle pagine impallate.
– Terza possibilità: 3star (una sola, vergognosissima unità in più) = 3000 euro circa, che avrei dissipato in poche ore spendendo e spandendo sentendomi milionario, per poi impazzire sul lastrico.
– Quarta possibilità, la combinazione delle precedenti: 4star (shift del 40 sull’altra colonna e una sola, vergognosissima unità in più del Superstar) = 46200 euro. Proprio quelli che ho quasi vinto.
Ora che ci penso esiste anche una quinta possibilità. Shift del 40 sull’altra colonna e la pennina che così, per sbaglio, per un rotolamento casuale, perché una vecchia, ansiosa di pagare la sua rotellina di liquirizia (sono attese tormentate per un’ottantanovenne con la pressione bassa), mi dà una gomitata, per cause varie ed eventuali insomma, invece di quegli altri due, avesse, come dire, macchiato il 56 e il 61. Sì proprio quei due e io…
Va be’, ora che ho il totale dominio del caso, ora che ho chiaro il suo modus operandi, non posso fallire. Stasera è vero. Stasera sarò centoventitre-milionario.
Aggiornamento lampo post-estrazione: ho giocato fra gli altri il 24, il 52 e il 58. Sono usciti il 24, il 51 e il 58. Un altro tre sfioratissimo.

Mia madre il terremoto lo sfida così

Oggi mia madre ha fatto la doccia.
C’è di strano che non la faceva da (rapida digitazione sui tasti plastificati della mia calcolatrice scientifica programmabile Texas Instruments) tre mesi e ventinove giorni. Il pericolo di essere colta da una scossa devastante, proprio in quei minuti di sana igiene corporale, era troppo alto perché lei potesse pensare di chiudersi in uno dei due bagni della casa, e cioè dove sta la doccia, appunto. Dopo aver ordinato a mio padre di provvedere affinché nel nostro giardino dalle erbacce s’innalzasse un’accogliente e non troppo costosa casetta di legno che cullasse i suoi sonni e sogni (al minimo scricchiolio, anche non dovuto al terremoto, esce comunque e instaura una disperata corsa contro il vento che le fa raggiungere un campo di erba medica sconfinato a centosettanta chilometri da qui, e allora si tranquillizza e prova a recuperare l’affanno), ad un certo punto ha deciso che non poteva continuare a lavarsi a pezzi nel lavandino del bagnetto. Così ha incaricato sempre mio padre di farne apparire, anche abbastanza velocemente, una in giardino.
Montare una doccia in giardino come idea non pare portar con sé ardue complicazioni, solo che poi metterla in pratica ti fa scontrare con una serie di problemi logistici di difficile risoluzione. Intanto: come la fai reggere una doccia senza una sola parete disponibile? Non è che puoi attaccare il flussometro al ciliegio, insomma. Mia madre gli ha risposto: “Vedi tu, pure volante va bene, basta che sia fuori da quella casa”. Valle a spiegare che le docce volanti non esistono!
Mio padre si è ingegnato con lo scotch, sarebbe capace pure di costruire un grattacielo con mattoni e scotch, e chissà che non si rivelerebbe più stabile dei palazzi che sono crollati a L’Aquila – per la serie: Datemi un rotolo di scotch e solleverò il mondo – e ha appiccicato un cerchio di metallo sul soffitto o sul pavimento del balcone, a seconda che il punto di vista sia piazzato sotto o sopra il balcone, dal quale far pendere, come un innocuo serpentello, la pompa che, passando attraverso la finestra del bagnetto in taverna, arriva al rubinetto. Il secondo problema è la pudicizia di mia madre. Se fosse donna dalle poche preoccupazioni, se non badasse all’indiscreto vicinato, potrebbe anche farsi la doccia nuda, fra le pietre che abbelliscono le siepi e i pini. Gli occhi della lavandaia del terzo piano del condominio a fianco, che ogni volta che torna in casa fa una scossa, un po’ come la signora Fletcher con i suoi spostamenti non troppo bene auguranti, sono sempre puntati sulla nostra villina pronti a criticare, controllare, indicare, borbottare. L’importante è che si senta meglio, deve averglielo prescritto il medico per la sua salute mentale gravemente compromessa dal sisma, e quindi lasciamola dire, fare, baciare, lettera, testamento. Tornando alla genitrice, lei pretende la sua privacy e così ha intimato all’inseminatore di provvedere. Problema di facile risoluzione. Mio padre ha fatto passare nel tubolare appiccicato con lo scotch sotto al balcone gli anelli di una tenda per doccia con le conchiglie che ridono, acquistata per l’occasione a Brico che si è trasformato in una specie di immenso bazar dove non hai grande scelta, ma trovi di tutto. Si è fulminata la discreta lampadina che rischiarava le tue letture prima di andare a dormire? Vai a Brico e la trovi. Poco conta che siano rimaste solo quelle da ottocentocinquanta W. È pur vero che se dedicassero un intero scaffale alle lampadine dove li sistemerebbero poi i termosifoni a tubolari? E quindi metti in busta la lampadina che c’è e porti a casa, se ce l’hai, una casa. Vorrà dire che da stanotte leggerai con gli occhiali da sole. Ora a L’Aquila è così.
 Al vento caldo che solleva la tenda scoprendo le intimità della donna, l’uomo ha rimediato appendendo alla tenda una manciata di pesetti di quelli che usano i subacquei per restare a fondo ed esplorare gli abissi. Poi ha piazzato una bagnarola gigantesca così da non allagare ogni volta il piccolo marciapiede che costeggia la casa e il giardino. Mia madre è entrata nella bagnarola, ha chiuso la tenda, ha aperto l’acqua, si è sentita ridicola, ha richiuso l’acqua, ha indossato l’accappatoio, è uscita dalla bagnarola, è tornata in casa, ha dato ordine che venisse smantellata quell’accozzaglia in giardino e si è fatta la doccia al bagno del secondo piano. “Perché io il terremoto lo sfido!” Parole sue.

C’è una questione

C’è una questione che mi sta facendo venir fuori dei grandi bozzi pustolosi sulla fronte. Io non amo le competizioni. Sarei uno di quei cantanti che a Sanremo non ci vanno. Non mi piace che qualcuno si ritrovi a scegliere fra me e altri icsipsilon chi canta meglio, chi recita meglio, chi scrive meglio, chi è meglio, insomma. Questo è uno dei tanti motivi per i quali partecipo a pochi concorsi letterari, ad esempio, unito al fatto che i concorsi letterari sono perlopiù grandi ammucchiate di soldi e spartizione di premi tra familiari. Primo fra tutti lo Strega.
L’ironia della sorte vuole che in questi giorni si stia consumando una decisione importante. Io o qualcun altro. Stavolta ci tengo. L’esito negativo aprirebbe le porte di un grande bivio interiore, lasciandomi deluso, anche un po’ umiliato. Ho bisogno di stimoli nuovi e questa sarebbe una buona occasione per ritrovare la voglia di respirare l’aria di questa città perduta. Qualche pomeriggio fa sono andato in centro. Ho parcheggiato giù alla Villa e ho percorso a piedi il tratto aperto, fino a piazza Duomo, che del Duomo conserva soltanto la facciata. Non c’è attività che abbia potuto riaprire. I palazzi sono tutti lesionati, come se un dio potentissimo, armato di spada, si fosse divertito a colpire a casaccio. Gli interni non esistono più e le costruzioni nei viottoli che costeggiano il corso sono perlopiù crollate.
C’era un gran silenzio nonostante non fossi solo. Qualcuno passeggiava attento a non disturbare e guardava attonito i resti di quella che sembrava la scena finale di un film fantascientifico. La città distrutta, la città che era così piena di gente, per il corso, nei negozi, in piazza. La città a cui ora restano soltanto i ricordi. I lavori procedono. Non sembrano così veloci come dicono, ma procedono. Le casette non basteranno per tutti. Le scuole forse riapriranno, certamente non tutte. Le classi per ora non sembrano avere speranze di riformarsi. Le università sono un grandissimo punto interrogativo che resterà aperto finché non saranno conteggiati gli iscritti a L’Aquila e non credo che al primo anno ne troveremo più di cinque o sei. Mi chiedono ogni giorno, persone diverse, come va qui. Come sto, come procede. Va che io sento di avere ancora tutto, anche se ho perso quella sicurezza che ha sempre fatto da sfondo al mio carattere. La sicurezza dei miei sogni sul futuro, la sicurezza di reggere il confronto con la vita.
L’ho persa. Tremo un po’ di più. Mi pongo molte più domande, ora. Però ho guadagnato una consapevolezza che paradossalmente credo mi abbia fortificato. La certezza delle priorità. Ora so cos’è importante e cosa meno. Ora ogni volta che rivedo i miei amici mi sento fortunato perché seppur lontani sono con me. Credo di aver capito il senso della vita. Lo conoscevo anche prima, ma da quella notte l’ho compreso, perché mi ha attraversato abbandonandomi cambiato.