Mi sono ricordato che da piccolo

L’altro ieri è stato il primo giorno di part-time dopo sette o otto doppi turni consecutivi (ho perso il conto e non mi va di ritrovarlo, sto evitando ogni tipo di fatica per recuperare. Inspirare, espirare) e m’è parso come di stare in vacanza. Però devo dire che sto reggendo bene. Il mio corpo dico. È ancora tonico, pimpante e, a parte il mal di schiena e i morsi della griglia assassina, posso senza dubbio affermare di essere un uomo con la U maiuscola, come diceva Carmen Consoli di lei (donna con la D, ovviamente). Ho ritrovato una lettera che scrissi a Carmen nel lontanissimo 1997, fortunatamente mai inviata. La parte clou, non certamente la più esilarante – non posso pubblicarla per non distruggere in un colpo solo la mia immagine di promettente scrittore in crescita – è quella in cui le confesso che anch’io vorrei una platea immensa davanti, ipnotizzata, a guardare in estasi me che mi esibisco a petto nudo e che spacco le chitarre contro un palo d’acciaio. Mi sono ricordato che da piccolo (?) adolescente diciamo (cosa quindi definibile con un semplice:  vergognoso!), il mio sogno era diventare una rockstar mondiale. Ho anche scritto tre canzoni (testi e musica della quale non ho specificato le note però saprei canticchiarvela ancora con un na na nananà ecc. che scritto così non rende, siamo d’accordo) e inciso una col microfonino verde di plastica attaccato al registratore da cui poi si sono ispirati per lanciare il Canta Tu, strumentazione di un certo livello insomma. Il mio primo singolo, come specificato pocanzi, autoprodotto, perché io ero uno underground, fuori dalle logiche discografiche, si chiamava Questo mondo di schifezze ed era una specie di rap di protesta contro la droga e tutte le schifezze del mondo, capite? L’audiocassetta col preziosissimo contributo non è più nelle mie mani. L’ultimo ricordo è legato a una colluttazione in camera mia con mio cugino grande. Io volevo distruggerla, lui voleva impadronirsene e la cassetta è caduta dalla finestra. Non ne ho saputo più nulla e lui ha sempre negato. Non faccio fatica a credere che l’abbia rivenduta per pochi centesimi. Se qualcuno dovesse ritrovarsela fra la biancheria sporca è pregato di farla recapitare al sottoscritto nel più tacito e indifferente silenzio assoluto. Qualunque altro uso del pezzo è formalmente considerato illegale e lesivo dei miei diritti e sarà condannato con la pena capitale in uno dei paesi in cui vige, pescato a sorte subito dopo l’estrazione del numero Superstar di stasera.
A tal proposito martedì ho fatto quasi tre o quasi due star, che è ancora peggio. Ne ho beccati due in una colonna e uno nell’altra toppando il numero star e portando a casa, come ogni estrazione, zero euro. Allora io dico, oh destino, dea bendata, sbendata, smutandata qualunque siano le tue attuali condizioni, se devi farmi beccare il terzo numero perché invece non mi concedi il lusso, una santa volta, di fare in modo che la macchinetta associ alla mia giocata il numero star giusto? Insomma, 2 star erano cento euro che sputaci sopra!
Mi credete se vi dico che io il 21 e il 40 li ho sentiti parlare? Ero lì e ho sentito una voce un po’ cavernosa e un po’ metallica, come quella di un androide, che diceva: “21…40” e li ho giocati. È stato istantaneo. Beh, oggi che giocherò la invito a manifestarsi nuovamente e a sforzarsi un po’ di più, cosa volete che siano altri tre o quattro numeretti?
Intanto vi segnalo l’ultimissima intervista della stagione. Prima di andarcene in vacanza, incontriamo Sara Boero che ha conquistato soprattutto i piccini col suo nuovo romanzo Il sogno di Pandora pubblicato da Piemme. Scappo al lavoro.
Saluti doppioturneschi.

La devastante fatica della lettura

A pranzo avevo una certa urgenza. Non di ritrovare in un istante la strada del cesso, quello di solito mi capita un po’ dopo il pranzo. Non avevo tempo di aspettare quei sette, dieci, dodici minuti che l’acqua impiega normalmente a bollire, e allora ho appoggiato la pentola sul davanzale, fuori dalla finestra. Ci credete che non ho fatto neanche in tempo a chiuderla, che l’acqua bolliva vulcanica?
Ma cos’è questo caldo? Tra qualche anno l’Italia sarà una specie di succursale dell’Africa, quei paesi che dici: “No, lì in vacanza ci vado a ottobre, ché a giugno, luglio, agosto non si può” come l’Egitto. Ora ho capito. Quando Obama al G8 chiedeva azioni concrete perché questa grande crisi mondiale non gravi ulteriormente su quei paesi in via di sviluppo, già martoriati a spese degli occidentali, parlava di noi. Qua in via di sviluppo c’è solo il caldo, signori miei. E qualcosa si dovrà pur fare altrimenti rischiamo di subire mutazioni come gli animali, che nei secoli si sono dovuti gradualmente adeguare ai cambiamenti climatici del Pianeta. Pensate a quello che ci raccontava la maestra (suora) alle elementari, dei pesci che quando si sono asciugati i fiumi gli son cresciute le zampe palmate e si sono messi a passeggiare sulla terraferma. La nostra schiena si trasformerà in un potentissimo pannello solare che accumulerà energia permettendoci di non dormire più. Avremo forze in abbondanza grazie al sole, infinite e gratuite. Il giorno in cui pioverà moriremo tutti, ovviamente, e questo accadrà il 21 dicembre 2012. Tutti che son lì a pronosticare catastrofi terrificanti, terremoti, eruzioni vulcaniche, glaciazioni, spostamenti dell’asse terrestre, la terra che si apre e ci inghiotte, meteore che impattano e innalzano una coltre di polveri eterne, e nessuno immagina che sarà un banale rannuvolamento di un paio di giorni a sterminarci.
Insomma pare proprio che sia in arrivo l’estate. È a momenti, no?
Scusate ma io fra cassa integrazione (non ancora ricevuta), ferie non godute o godute – dipende da come vengono considerate quelle che uno per puro caso, e chiaramente senza poter immaginare la tragedia, le ha fatte capitare nel periodo di panico post terremoto – chissà, ho perso il senso delle cose e delle vacanze che anche quest’estate vanno in vacanza senza di me.
In compenso in questo periodo sto leggendo molto, roba impegnata devo dire, sì. Dopo quel trash libretto di Anna Karénina, un opuscoletto di sette pagine che Tolstoj si sarebbe potuto tranquillamente risparmiare, da cui suggerirei agli autori di Beautiful di trarre spunto per un paio di puntate, di quelli che ti leggi durante la messa in piega dal parrucchiere (per chi ha un quantitativo di capelli tale per cui almeno ne puoi prendere una ciocca con la spazzola), avevo bisogno di tuffarmi nei grandi classici. Mi mancavano le sofisticate atmosfere di quei mattoni da quattordicimila pagine che impieghi tre anni a finirli e alla fine ti senti così stanco e stordito neanche tutte quelle peripezie le avessi vissute tu. Così ho letto in sequenza: Cercasi amore disperatamente, autrice Federica Bosco. Tempo di lettura diciamo un quattro ore. Consigliato a chi si sente uno sfigato (probabilmente lo sarà pure) alla continua ricerca della sua riscossa in tutti i campi. Perfetto anche per chi deve fare in treno Roma-Firenze e vuole far finta di appartenere alla schiera di intellettualoidi che si accomodano sul sedile e si danno le arie di quelli che son capaci di non badare al deragliamento del proprio treno tanto sono presi dalla lettura. Mi piaci da morire, idem come sopra, sempre della Fede Bosco, solo che questo è il primo di una trilogia in cui a Monica ne accadranno di tutti i colori. Il signore della nebbia di Zafon che, dopo l’ennesima schifezza, ha perso tutta la mia stima. Lo so che l’ha scritto prima e che è un libro più per ragazzi, però quell’uomo andava fermato dopo il meraviglioso L’ombra del vento. Tutto quello che aveva scritto prima andava bruciato idem ciò che ha scritto dopo. L’ombra del vento, fine. Non mi nominate più Zafon che vi tiro dietro Il gioco dell’angelo che son settecento pagine diventate magicamente trecento nell’edizione tascabile (la dimensione delle tasche, che non sono più quelle di una volta, non è un dettaglio di poco conto). I grandi misteri dell’editoria.
A proposito di tascabili, un pomeriggio fiorentino alla Martelli ho assistito a una scena che dà una spiegazione convincente al fatto che in Italia legga almeno un libro all’anno (qualunque esso sia) una persona su centotrenta milioni.
La commessa a una ragazza ben vestita: “Vuoi l’edizione del 2007 oppure quella tascabile?” “Guardi, mi dia quella con meno pagine che lo devo leggere per un esame!”
C’è gente che crede che l’edizione tascabile contenga meno parole. Una specie di riassunto o di bignami. La storia in pillole, e allora prende quella che costa anche meno (che culo! Due piccioni con una fava), così riduce la devastante fatica della lettura.

Terremoto in Abruzzo: la voce di Matteo Grimaldi

Buondì world!
Oggi mi assento un attimino, giusto nove ore suddivise in due turni leggeri come una piuma d’angelo. Stamattina arriva il camion e tutto fa pensare che sarò io a scaricarlo. Alle tre e mezza stacco, mangio (?) e riattacco alle sei fino alle dieci. Se trovate un corpo abbandonato nell’oscurità, sulla panchina di legno accanto ai pali delle altissime bandiere del Mc Donald’s, siate caritatevoli e offritegli una qualsivoglia forma di aiuto, pure un orsetto gommoso va bene. Se è alla coca cola vi sarà debitore tutta la vita.
Ieri sera Exeunt mi ha chiesto un’intervista in PVT, senza star lì a fare i sofisticati. Una domanda dietro l’altra sul terremoto, sulle sensazioni, su quello che si può fare. Io lo ringrazio.
Leggetela!

Le mie braghe calate

Stamattina, nonostante in questa città sia difficile ritrovare qualunque cosa (perché effettivamente qualunque cosa non c’è più) sono riuscito ad acquistare una busta imbottita, di quelle con le palline che scoppiettano, per spedire un libro e pure degli altri fogli, che non sono fogli qualunque, ma, come direbbero dei tipi fantastici che non vedo l’ora di conoscere: (censura censura), sì loro direbbero così, perché è ancora tutto top secret. Abbiate fiducia gente che sta per arrivare un vagone di novità. Chi sono loro? I lanternati, che saluto e che (censura censura), ovviamente.
Ho anche comprato dei gamberetti essiccati di due dimensioni diverse e pure delle palline vitaminiche verdi per Italia e Nerozza, le mie due tartarughe acquatiche che, infatuate e anche un po’ invidiose di Paola e Chiara, dopo aver trascorso tre anni e passa in vasca assieme, si sono finalmente conosciute e hanno deciso di fondare un gruppo musicale chiamato Le bellissime. Italia suona i sassi e Nerozza canta. Ha una voce molto particolare Nerozza, direi soffiata. Poi se si arrabbia sputa pure e anche quello è un effetto sonoro che sarà contenuto nel primo singolo delle Bellissime che si chiamerà Datemi un gamberetto essiccato, in tutte le radio da domani. Sono diventate talmente grandi che, dopo averle traslocate in innumerevoli vasche, ognuna sempre il doppio della precedente, sto seriamente valutando la possibilità di adibire una delle stanze della casa a vasca. Si tratta semplicemente di allagarla e lasciare delle zone emerse su cui arrampicarsi, tipo dei divani, dei comò, eccetera. Ne parlerò a mia madre quando torna dal lavoro, ne sarà entusiasta.
Mentre tornavo a casa ho notato nel cielo sopra al Mc Donald’s volteggiare giganteschi palloncini rossi e gialli che si scorgono da dieci chilometri di distanza. Che ideona, eh?! Caro Matteo, speravi che qualcuno, per una serie di fortunose coincidenze, non fosse venuto a conoscenza della riapertura di stasera? Ebbene, ti sbagliavi. Per la serie: Nessuno non sa che stasera riapriamo. Centinaia di corpi sudati bramosi di cibo fritto e salse dense come stucco, che si spintonano e urlano e pretendono di essere serviti tutti assieme e fanno sgocciolare liquami sui divanetti nuovi e incidono con le chiavi i tavolini calcando il loro nome si alterneranno fino a mezzanotte in punto e io tornerò a casa alle tre e mezza bene che mi va, all’alba se proprio mi dice sfiga. Non è meraviglioso tutto ciò?!
Mi sto preparando psicologicamente riservandomi un pomeriggio di annullamento cerebrale. È facile, basta spegnere l’interruttore (ognuno sa dove cercare il proprio) e riaccendersi un paio di minuti prima delle otto, giusto per concedere al sistema operativo di caricare, nella speranza che non finisca impallato nel bel mezzo del rush (termine tecnico che indica il segmento temporale di massima densità di persone in sala, tipicamente in corrispondenza dei pasti principali) e cominci a svalvolare lanciando spinacine addosso ai manager o saltellando sul bancone con le braghe calate. E vi assicuro che non sarebbe uno spettacolo per il quale pagare un panino, le mie braghe calate intendo.

Arriverà il momento in cui i soldi finiranno, amico mio

Vorrei ringraziare la mia banca che, premurosa, mi ha inviato a casa il riepilogo dei movimenti dal primo aprile al trenta giugno, probabilmente per ricordarmi che il mio conto corrente non è una specie di fontana delle meraviglie che produce liquidi (danaro) indefinitamente.
Ci sarà un momento in cui i soldi finiranno, amico mio, e quel momento arriverà molto presto se continuerai a prelevare come se i bancomat sparsi per la città fossero una specie di cassa di plastica tipo novelle cucine che pigi tasti a caso, si apre il cassetto e giochi coi soldi finti. I soldi con cui giochi tu non sono finti, lo capisci vero?! Questo è il messaggio deducibile dai dati così scritti sulla lettera che ho ricevuto oggi.
Totale entrate: 917.95 – Totale uscite: 2419,66 
Ok, siamo leggermente fuori dall’equilibrio che vorrebbe le entrate supereroi sempre capaci di tamponare e fermare le uscite, nemici che minacciano le serenità notturna della city, ma certo non possono prendersela con me se nei tre mesi di post-terremoto nessuno mi ha ancora versato un centesimo della cassa integrazione che mi spetta. Non è colpa mia se l’INPS si è trasformata in un’inafferrabile entità ectoplasmatica che appare e scompare con telefonate rassicuranti da numeri che, se li richiami un minuto dopo, risultano inesistenti.
Ma le uscite in grassetto… Che gesto di poca finezza, signori miei!
Stanno forse insinuando che continuando così fra meno di un mese arriveranno a confiscarmi persino lo spazzolino da denti frastagliato e frastagliante? Ha questa proprietà magica, con quelle sue setole così distanziate da dimenticare grosse fette di dentatura e allo stesso tempo capaci di scovare i rimasugli nei punti più impensati. La setola frastagliata è imprevedibile, tenetelo a mente. È  anche per ricomprarmi uno spazzolino che spero di sbancare il Superenalotto. Se state pensando di fare una colletta per regalarmene tre al prezzo di uno e mezzo, in offerta alla Conad, no. Optate per qualcos’altro tipo un cellulare almeno di penultima generazione (il mio ha sei anni quindi diciamo appartenente a cinquantacinque generazioni fa) oppure un forno a microonde o tutta la prima edizione di Scusa ma ti voglio sposare, il nuovo libro di Federico Moccia, così la trasformo in un nuvolone di fumo nero nel tanto atteso e gigantesco falò giustiziero che il mondo della cultura reclama a gran voce.
Ieri ho passato l’impregnante su otto fioriere di legno grandi come bare senza coperchio. Alla settima ero completamente ubriaco. Quell’impregnante ha effetti meravigliosi. Vi saprò dire il nome. Oggi è stato l’ultimo giorno di lavori forzati. Il Mc Donald’s è ormai pronto prontissimo per l’inaugurazione di lunedì. Per coloro che ancora non lo sapessero (sono state inviate le nostre meravigliose fanciulle, e sottolineo meravigliose, a distribuire volantini pure dentro ai cessi pubblici) ci saranno patatine fritte gratis per tutti.
Al pubblico riapriremo alle venti. A centocinquanta metri c’è una delle tendopoli più grandi di L’Aquila e io farò – ma tu guarda un po’ – il turno delle venti. Non so perché ma non mi sento molto fortunato e temo che quella di lunedì sarà una serata barbarica come le invasioni, non quelle della Bignardi, ma quelle vere, dei barbari del ‘400 guidati da Alarico alla conquista del Mc Donald’s.
Intanto godiamoci il weekend con la penultima intervista della stagione di 4 chiacchiere (contate) con… che ad agosto va in vacanza per tornare a settembre con in petto la fascia di rubrica più abbronzata del mondo. Oggi abbiamo incontrato lo scrittore Andrea Malabaila, nonché editore della ormai quotatissima Las Vegas edizioni, che ci racconta tutte le sfaccettature del suo dondolare fra scrivere i propri libri e produrre quelli degli altri, e ci parla anche del suo nuovo romanzo L’amore ci farà a pezzi pubblicato da Azimut.

Ma veramente è morto Michael Jackson?

A seguire, una breve descrizione dell’evoluzione cromatica che sta subendo la mia pelle in questi giorni:
Bianco panna cotta – rosa barbie – rosso naso di clown – viola porcello fino ad un ambrato scuro, tipo le pietre che hanno ritrovato con le zanzare del Neolitico dentro e ora, amiche e amici, un naturalissimo marroncino mattone antisismico abbellisce il mio volto che brucia come se, sottopelle, avessi dimenticato accesa una di quelle piastre incandescenti per scaldare l’acqua che fanno tanto: Io ho una cucina all’ultimo grido. Anzi, se avete qualcosa da cuocere,  una bistecchina, un ovetto, non fate complimenti, le mie guance sono a vostra completa disposizione.
Oggi sono stato 5 ore a rifare la scritta MC DRIVE sull’asfalto della corsia drive. Chi lunedì passerà all’inaugurazione si faccia un giretto e pensi: “Quella è opera del celeberrimo Matteo Grimaldi”. Potete anche abbandonarvi all’inarrestabile tentazione di mettervi a baciarla e lasciare impronte di rossetto sul bianco della vernice, come sulla lapide di Oscar Wilde a Père Lachaise, il cimitero di Parigi. Con la piccola differenza che (ok, sì, io non sono Oscar Wilde) c’è tempo per seppellirmi e non venga mai in mente a nessuno di farlo sotto la scritta MC DRIVE, del Mc Donald’s a L’Aquila. Se proprio dovete, sceglietene uno nella City di Londra, insomma.
A proposito di tombe. Una cosa scioccante di cui inspiegabilmente non ha parlato nessuno. È morto… oddio non so come dirvelo, insomma lui era una star mondiale, certo un po’ pedofilo, ma pur sempre una star. So che vi lascerà di stucco (come mai i media di tutto il mondo hanno taciuto la notizia? Fortuna che io ho le mie fonti) e pare sia morto pure da diversi giorni.
Perdonatemi la schiettezza, ma io non riesco tanto a indorare la pillola. Spero che questa attualissima bomba non vi turbi la serata. È morto Michael Jackson! Leggo chiaramente la sorpresa prendere possesso dei vostri volti. Rivediamolo in tutto il suo splendore dopo il quattrocentosettantasettesimo intervento al naso.
Comunque gente, fatevene una ragione. Io me la sono fatta, la ragione (non una pera) diciamo un tre o quattro secondi dopo averlo saputo. Anzi, mi è parso pure che abbia vissuto parecchio, per le condizioni in cui lui stesso, forse non troppo consapevolmente, si era ridotto. Ora i suoi CD sono ai primi posti delle classifiche di tutto il mondo. Ma – dico io – non potevate comprarveli quando era vivo, i CD?

Altro che Barrichello!

Sono allungato sul letto con gli occhi che mi si chiudono – io li riapro, ma loro si richiudono, che vogliamo fare?! – e credo che fra un po’ avranno la meglio, la gambe doloranti, una quantità innumerevole di  fastidiosissime scheggette di legno, perlopiù concentrate sotto il pollice della mano destra, e in corpo ancora l’eccitazione chimica dovuta all’aver bevuto un litro e mezzo esatto di tè alla pesca (non deteinato) in venti minuti. Queste le conseguenze di una giornata obiettivamente pesante. Stamattina è stato il primo giorno di lavoro dopo il 6 aprile. Il Mc Donald’s è quasi pronto alla riapertura che sarà lunedì, perché per venerdì proprio non ce la facciamo (scongiurata la malasorte del venerdì 17). Quattro ore a caricare carriole di mattoni rotti, tavole di legno, pedane, vetri delle finestre, tavolini, emme (avete presente quelle gigantesche emme gialle?), emme elettriche (sì, ci sono anche quelle con le lucine, che pesano più di un sacco della spazzatura con un cadavere dentro) e tutto quello che potete immaginare possa derivare dal dover rimettere a nuovo un locale semidistrutto dal terremoto, a partire dai suoi resti.
L’atmosfera mi è piaciuta. Nell’aria c’era voglia di ripartire. Saranno giorni pesanti, ma l’idea che insieme stiamo facendo del nostro meglio per ritrovare una sorta di quotidianità fa sparire la fatica, oddio sparire non proprio. Quando alle tre ho staccato mi sono travestito da Barrichello (solo che io guido una Matiz) e ho raggiunto Corropoli, a 100 km, per incontrare il professore a cui ho deciso di chiedere la tesi. Mi aveva scritto che sarebbe rimasto in sede fino alle cinque e mezza. Dopo un’irrinunciabile doccia, sono partito che erano già le quattro e un quarto. In autostrada ho volato, ne sono certo. Franchino, che mi ha accompagnato, è ancora visibilmente pallido e risponde a stento alle domande, per via dei 170 km orari, toccati e mantenuti costanti sulla corsia di sorpasso; però ce l’ho fatta. L’ho beccato che se ne stava andando baldanzoso e saltellante.
Dove vai, maledetto! Fortuna che te l’avevo scritto che mi sarei catapultato dal lavoro e di aspettarmi, nel caso, quei pochi minuti di ritardo, che comunque non ho fatto perché ho superato la velocità della luce. Per la serie: Come ritrovarsi a cavallo dell’Orsa Maggiore e non riuscire a spiegarselo. Gli ho raccontato che ho qualche problemino con la programmazione (sempre se il non essere in grado di ideare un programma capace di fare la somma di due interi a una cifra possa definirsi qualche problemino con la programmazione) e che avevo bisogno di una tesi che avrebbe potuto portare a termine pure il mio vicino di casa di otto anni. Lui mi ha risposto che aveva capito benissimo la mia situazione e poi ha aggiunto: “Si ricordi però che si sta laureando in Informatica… IN-FOR-MA-TI-CA!” L’ha scandito sorridendo. Ebbene ha deciso di seguirmi, ed io lo ringrazio molto. Mi fa un po’ pena quel pover’uomo dal buon cuore che non sa cosa lo aspetta.
Ci siamo dati appuntamento a settembre per dare un’occhiata al materiale che io, in questo mese abbondante, dovrei raccogliere in rete. Speriamo bene. Intanto gli ho scritto un’e-mail per ringraziarlo della gentilezza e della disponibilità, alla quale risponderà fra tre giorni (è il suo tempo medio di risposta agli stimoli) con la solita e-mail prodotta dal suo processore con impiantato l’algoritmo di risposta automatica, tipo quei personaggi virtuali che son capaci di rispondere alle affermazioni in modo più o meno sensato e se gli dici: “Fanculo!” replicano con: “Io non sono una parte del corpo”. Dopo la terza e-mail ho iniziato a chiedermi se stessi domandando la tesi a un umano o a un androide coi fili dentro.
Prima di rimetterci in viaggio per L’Aquila io e Franchino ci siamo fermati all’unico bar di Corropoli, paesino che si presterebbe divinamente alle riprese del seguito di Sahara, la terra del niente. La sete ci aveva tolto persino la parola. “Una Lemonsoda freddissima, grazie” ho detto alla ragazza dietro al bancone che m’ha risposto: “Va be’, ho capito, ci metto il ghiaccio!” al che mi sono sentito in colpa e sono stato tentato di chiederle scusa per lo sforzo disumano a cui l’avevo costretta. Finita la Lemonsoda e sgranocchiato il ghiaccio: “Fra, io ho ancora sete!” “Pure io, prendiamoci un Calippo!” “Oddio, il Calippo!” Mi ha preso un senso di straniamento lampo. Non mangiavo un Calippo da… beh insomma, da prima della mia prima volta! Sete sete sete. Neanche il Calippo aveva sortito il suo effetto. “Ok, ci vogliono le maniere forti, qua!” Mi avvicino al frigorifero e afferro una bottiglia di tè alla pesca da un litro e mezzo. Vi giuro che me la sono scolata tutta durante il ritorno. Alla guida, con la bocca attaccata alla bottiglia come un bambino col suo biberon. Le conseguenze sono state imprevedibili (per me che non so prevedere neanche cosa uscirà se lancio una moneta con testa da un lato e dall’altro) riassumibili in un’agitazione per le successive due ore e, pur non essendo Rocchetta, anche tanta plin plin.
Non bevete mai un litro e mezzo di tè, insomma.

Una nottata difficile

Sapevo che avrebbe fatto un’altra bottarella (cari maniaci all’ascolto, si sta parlando di terremoto qui). Ho imparato ad aspettarmele osservandone l’andamento su Ingv. Non che ci voglia chissà quale scienziato, né sto dicendo che sono capace di prevederle. Fatemelo chiarire prima di ritrovarmi sommerso da denunce per procurato allarme. Però è certo che osservando un fenomeno in un lungo arco di tempo un’idea te la fai. Il terremoto è come una gran palloncino. Si gonfia attraverso microscosse fastidiosissime, ma appena percettibili, di intensità 2 o giù di lì, e poi esplode con quella più forte. Così è stato anche ieri notte.
La scossa di 3.6 di mezzanotte e qualcosa ha gettato di nuovo la città nel panico. È la notte la fregatura perché accentua la sensazione d’impotenza. Nella notte chiudi gli occhi e perdi il contatto con la realtà, e questo il sei aprile è stato fatale per trecento persone. Come fai allora, dopo la sequenza di ieri, ad andare a dormire? Io al momento della scossa ero ancora in casa; mia madre è uscita dalla casetta di legno urlando il mio nome. Le ho detto che andava tutto bene. Ho spento il portatile, mi sono lavato i denti in fretta, col portoncino aperto. Ho preso il cellulare, le chiavi e un libro e sono sceso per raggiungere i miei in casetta. Mia madre ha avuto un crollo. Non ce la fa più. Lei soffre di crisi di panico da anni. È sempre stata male all’idea di trovarsi stretta in un luogo senza una via d’uscita immediata. Non prende l’ascensore e prende il treno solo se assolutamente necessario (praticamente mai), l’aereo non esiste lontanamente. Il terremoto è la sfida più ardua che le potesse capitare perché non c’è luogo in cui non sentirsi incapaci di contrastarlo. Ieri voleva andare a dormire in macchina. Neanche la casetta di legno, per quanto sicura, la fa stare tranquilla. Lei vorrebbe semplicemente non sentirlo. Non ha paura che le crolli addosso qualcosa. Ha l’ansia che le trasmette lo scontrarsi con una forza di fronte alla quale l’uomo è più piccolo di una formica. Lei vivrebbe sospesa sulle nuvole, camminerebbe tutta la notte all’aria aperta per non dover sopportare quel magone in gola, perché ci sono le pareti che, per quanto leggere, la soffocano. Le ho detto che avrei dormito anch’io in macchina e allora si è lasciata convincere ad andare in tenda che dà meno l’idea di casa, pericolo, cemento, mancanza d’aria, eccetera. Ha passato la notte alla tendopoli con mio padre. Io, prima di rientrare in casetta, ho camminato qualche minuto in giardino cercando di isolarmi dalle parole della gente tutta intorno, che si affrettava ad attrezzarsi per l’ennesima notte da disperati.
Ho respirato e ho pensato che bisogna essere forti ora. Che, se mia madre non ce la fa, forse posso farcela io a razionalizzare, e posso farlo anche per lei, che quando le parlo si calma. Mi sono messo a letto e ho spento la luce. C’era una specie di penombra nella piccola stanza, per via dei lampioni fuori. Quando mi sono addormentato era passata buona parte della notte. L’altra metà mi ha visto chiudere e riaprire gli occhi, perché la casetta cigola ad ogni ridicola scossa.
Stamattina è tornata dall’ospedale contenta. Era riuscita da sola ad orientarsi e a fare la sua visita, in quella giungla di tende e medici e infermieri/e che non ti ascoltano e che ti dicono ogni volta che hai sbagliato, che non era là che dovevi andare, magari dopo che hai fatto una fila di quaranta minuti sotto il sole.
Vive così mia madre, aggrappandosi alle giornate, nella speranza che passino in fretta e che arrivi al più presto il mattino in cui tutto questo sarà finito.

Mi sono svegliato che tremava tutto

Ma che splendido buongiorno!
Ieri notte ho deciso di dormire in casa. Era troppo tardi per andare in casetta di legno e, coi miei felpatissimi passi, svegliare mia madre e mio padre lasciandoli in preda al panico. Non crediate che sia per via della stazza, ché io son alto, sì, ma magro e posso provarlo (più in là magari). È che quando cammini sul parquet, che non è proprio fissatissimo, altro che effetto terremoto! Allora, con mia madre psicologicamente giunta al punto di non ritorno da sei mesi, ho pensato di tornare a provare l’ebbrezza di un letto vero.
Mi sono svegliato che tremavo tutto. Ecco il solito incubo sul terremoto, penso. Di tanto in tanto mi capita di sognare di trovarmi in trappola, o in una stanza in cui cominciano a sgretolarsi le pareti, o Marisa Laurito che fa la mossa (varie forme di sisma, insomma). Però, se apri gli occhi e l’armadio balla la samba, non è un incubo. Sono scattato dal letto e sono caduto a terra. È durato pochi istanti, ma andando avanti così son certo che troverò l’eterna pace dei sensi prima dei quarant’anni.
Vostra maestà, sua magnificenza e ombrosa piacevolezza, gigantevolmente immenso Barack Obama and friends ha lasciato L’Aquila. A questo punto due sono le cose (sono sempre due di solito). O questi sono talmente potenti che condizionano pure Madre Natura, oppure hanno semplicemente avuto un grandissimo culo sfondato beccando gli unici tre giorni in cui la terra non ha fatto neanche una scureggina da neonato. Mio padre ha riportato la macchina davanti casa e nessuno gli ha sparato quindi, nonostante nel cielo volino ancora gli elicotteri (quando ve ne andrete mi mancherete assai, miei rumorosi amici), suppongo che le misure di sicurezza siano cessate anche perché – voglio dire – se non c’è più nessuno, cosa stanno a proteggere, il deserto?!
Questo vuol dire che comincerò prestissimo a riappropriarmi di un raggio d’azione che non sia quello di chi ha scippato la pensione (433 euro) a un vecchio zoppo con la cataratta e poi ha patteggiato ottenendo la libertà vigilata. A proposito, avete sentito? Hanno arrestato il tipo che passava le sue serate a violentare le ragazze nei garage dei palazzoni romani. Non che si fosse sforzato poi tanto per farsi inafferrabile, visto che reiterava le violenze sempre nelle stesse zone. L’hanno preso, pensate un po’, al lavoro. Chi avrebbe mai immaginato che potesse trovarsi proprio nella stanza dove tutti i giorni, dalle otto di mattina alle cinque del pomeriggio, timbrava scartoffie e, quando nessuno lo osservava, metteva a scaricare i filmini porno su eMule? Neanche la signora di giallo vestita, Jessica Fletcher, l’avrebbe cercato lì. Sono proprio orgoglioso dei nostri detective, altro che Distretto di Polizia 6!
Ieri è stato un sabato moribondo. Sarà il caldo. Sarà che neanche mi ero reso conto che fosse sabato. (Quanto arriva sempre più in fretta il week end, eh?! C’avete fatto caso? Non è che mi risveglio dopo domani ed è la festa del mio settantaduesimo compleanno?) Sarà che qua i giorni sono tutti uguali. E sarà pure che il sabato non ha più il sapore di una volta, quando lo aspettavamo per andare a cena tutti insieme, dopo una settimana che vuoi per lo studio, vuoi per il lavoro, non eravamo riusciti a vederci. Il sabato era il giorno della cena fuori. Dopo anni di studi e sondaggi e statistiche sul servizio e sulla prelibatezza della pasta della pizza o delle patatine, tempi di attesa, cordialità del personale e non ultimo, lo stato dei cessi (dati raccolti nel novantatre per cento delle pizzerie aquilane) avevamo eletto Passaparola regina incontrastata. Al tale risultato ha certamente contribuito il poter beneficiare di alcune gigantesche sviste, tipo la volta che abbiamo pagato 9 euro a testa e avevamo mangiato l’inenarrabile, compresa la crema catalana flambè con nutella, che solo quella son tre euro e cinquanta e trentacinquemila calorie.
Fino a un paio d’anni fa cambiava eccome se era mercoledì o giovedì o venerdì. Perché il venerdì annunciava il sabato. I venerdì di adesso non annunciano niente. I miei amici sono lontani, Passaparola è diventato un tendone bianco e il sabato è uguale alla domenica ed è uguale a ogni giorno fino al sabato successivo, che non cambia comunque. Quindi mi correggo. Non è stato (solo) un sabato un po’ moribondo, è proprio il periodo e il luogo. L’umore non è che possa schizzare alle stelle se ci sono le sbarre di una gabbia tutto intorno a impedirglielo, no?!
Alt!
Cos’è questa storia delle gabbie e delle stelle irraggiungibili? Oddio sta tornando a galla l’emo che è in me! Devo fermarlo prima che sia troppo tardi. Vade retro Satanasso! Io sono un tipo allegro e (quasi) sempre YEAH, vai a torturare quella depressa cosmica di Asia Argento, piuttosto!
E allora questa settimana, tanto per farvi un po’ tremare dalla paura (tremo io con le scosse, ora tremate pure voi, oookkkeeeiii?) ho intervistato la nostra (nel senso di italiana) scrittrice horror che tanti sonni ha turbato con le sue storie inquietanti. Buona domenica e buone 4 chiacchiere (contate) con… Simonetta Santamaria. Guardatevi sempre le spalle, mi raccomando!

Traiamo le conclusioni

Ieri notte tornavo tutto allegro (avevo un’ansia che non potete immaginare, a camminare per quelle strade desolate con gli elicotteri nel cielo e un posto di blocco ogni incrocio, stradina di campagna, anfratto buio (o quella era una coppietta che trombava? Boh, va be’) che ti puntano in faccia una luce accecante e ti chiedono il pass). Con Jack lo squartatore alle spalle mi sarei sentito più tranquillo, insomma non vedevo l’ora di arrivare a casa. Raggiungo il posto di blocco. Devo mostrare ancora una volta il pass.
“Dove va?” mi domanda sospettoso questo tipo massiccio che pare Arnold Schwarzenegger ai tempi di Terminator e i suoi sequel. “Torno a casa.” “Sì, ma non è che deve giustificarsi. Mi fa vedere il pass e va dove vuole.” Ma è idiota questo?! “Non mi sto giustificando. Mi è parso di udire la domanda Dove va? e ho risposto, ma devo essermi sbagliato.” “Senta, dov’è che abita?” “Vede la casa coi mattoncini gialla e marrone?” “Questa qui, a dieci metri?” “Esatto!” “Eh, la accompagno io in volante.” “Ma è così vicina, sono arrivato, non si preoccupi!” No, in una volante no! “Se vedono uno vestito di nero (cos’ha questo contro il mio look anni ’90?) che all’una e mezza di notte passeggia nella zona rossa (e scusate se ci abito) non sia mai che si alzino gli elicotteri e gli sparano.” Oddio! “In tal caso, salgo!”
Non mettevo piede su una volante della polizia da quando, a quattro anni, cogliendo un momento di distrazione di mio nonno, penso bene di mettermi a camminare finendo a piazza Duomo con tutti quegli uomini grandi e donne possedute dalla smania di accaparrarsi i pomodori, seppur in decomposizione, a pochi centesimi al kg, che sgomitano nell’affollatissimo mercato, che ora non c’è più. Mi sono avvicinato a un poliziotto e gli ho chiesto: “Dov’è mio nonno?” e lui mi ha riportato a casa dei nonni in volante. Ha acceso pure le sirene e io ero eccitatissimo, mentre a mio nonno, poveretto, gli era quasi preso un infarto. Mi manca molto mio nonno, ma non è questo il punto ora.
Dieci metri arrotondati per eccesso, in una volante della polizia. Non ho fatto in tempo a salire che era già giunto il momento di scendere. Li ho salutati. Sono stati gentili – è vero – ma è una situazione paradossale. Sembra una guerra, questa. Il controllo militarizzato di ogni passo. Mi sono rintanato in casa che mi mancava il respiro. Fortuna che oggi è l’ultimo giorno anche se le misure di sicurezza permarranno fino al 12 mattina. Stamattina è partito il corteo dei No Global che da Paganica raggiungerà il centro storico promettendo una manifestazione pacifica e senza scontri, nel rispetto del dolore della nostra città. La loro sarà anche una manifestazione per trasmettere quanto più calore possibile agli aquilani. Sì, però si portano dietro mazze, coltellini, spranghe e bandane per coprirsi il volto, qualora scoppiasse una sommossa contro le forze dell’ordine che li controlleranno a vista.
Traiamo le conclusioni. Pare siano stati trovati accordi molto importanti per l’economia del nostro Pianeta, soprattutto per quei paesi in via di sviluppo a cui, questa crisi mondiale, ha succhiato via tutto quel poco che avevano. Sono le solite cose che si dicono dopo questi importanti vertici. Ve lo immaginate Berlusconi a gran voce: “Il G8 non è servito a niente, siamo tutti punto e a capo!” che secondo me, in termini di veridicità, sarebbe comunque un’esternazione più vicina alla realtà delle cose?
Prima di andare via, i grandi del mondo hanno deciso di prendersi degli impegni concreti scegliendo monumenti da adottare per occuparsi della loro ricostruzione. Il governo di Zapatero ad esempio ha deciso di offrire cinquanta milioni di euro per recuperare la Fortezza spagnola, costruita nel 1539 a spese degli aquilani che dovevano farsi perdonare la rivolta di dodici anni prima. Michelle Obama (per conto della presidenza degli Stati Uniti) ha scelto di finanziare la ricostruzione della chiesa di Santa Maria Paganica. Il governo russo ha deciso di adottare, con quattro milioni, la chiesa di San Gregorio Magno, della quale è rimasto in piedi solo un pilastro. Sono nove, fino ad oggi, i Paesi che hanno detto sì all’offerta italiana. Francia, Germania, Canada, Giappone, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Spagna e anche la lontana Australia, che spenderà un milione per restaurare il seicentesco oratorio di Sant’Antonio. Non solo le chiese sono in sofferenza. L’economia aquilana si reggeva sull’università, con quasi trentamila studenti. Troppi giovani sono morti nella Casa dello studente e nelle stanze in affitto. Sono crollati anche i palazzi dell’ateneo, le aule, i laboratori di ricerca. Il premier canadese Stephen Harper mercoledì mattina ha visitato questo ateneo ferito e ha deciso di finanziare con quattro milioni di euro un nuovo campus universitario. Il giapponese Taro Aso (assieme alla ricostruzione della chiesa di Sant’Agostino) offrirà un centro sportivo e una nuova sala da musica. Fino ad oggi ci sono impegni (sia stranieri, sia italiani) per quattordici recuperi e promesse di altre sette adozioni. Restano in attesa di affetto e di milioni ben ventotto palazzi, chiese, teatri, torri e monasteri. Secondo i conti della Protezione civile, per il restauro di tutte queste opere, servono trecento milioni.
Io sono abituato a ringraziare anche per una briciola, quindi ben venga tutto questo. Ma i veri eroi non sono Obama né la Merkel (figuriamoci Berlusconi), e loro lo sanno bene. I veri eroi sono coloro che combatteranno una battaglia che si annuncia lunghissima e forse senza vincitori, la battaglia della vita, per restituire a L’Aquila un’identità tangibile. E non importa se ci vorranno dieci o venti anni. Li ammiro perché i frutti probabilmente non faranno in tempo neanche a gustarli, ma stanno cambiando la Storia, queste piccole persone di montagna che non si arrendono mai.