Dissertazione sulla morte per allagamento

La biblioteca delle Oblate ieri ha subito un allagamento secondo soltanto alla storica alluvione del ‘66 e ovviamente, come in ogni catastrofe, posso esclamare a gran voce: “Io c’ero!” (non nel ’66, ehm ehm; intendevo dire all’allagamento di ieri).
Lo splendido chiostro dell’ex convento trecentesco delle suore Oblate, da due anni recuperato e adibito a biblioteca, coi tavolinetti sfiorati dai raggi del sole e dall’aria che, profumata di lavanda, ti rinfresca, ieri pomeriggio si è trasformato in un oceano tempestoso. Me ne stavo in piedi sulla mia zattera, il rotondo tavolino di ventiquattro cm di diametro, mentre il cielo tuonava (e fulminava. C’è mancato poco che ci restassi secco in più di un’occasione). La pioggia mi aggrediva a vento in gocce rumorose e grosse come palloni da calcio. Ho temuto di morire allagato, morte che differisce di gran lunga da quella per annegamento. Anneghi quando l’acqua ti arriva alla gola, cominci a bere, non respiri più, saluti il mondo perché sai che muori, chiudi gli occhi, ciao. Quella per allagamento, attenzione A-L-L-A-G-A-M-E-N-T-O, procede in modo analogo, ma è più subdola. L’acqua comincia ad entrarti dentro dai pertugi più impensabili, ma dentro dentro proprio. Buchi visibili e conosciuti ai più per le loro molteplici funzionalità. Le orecchie, gli occhi, la bocca e il culo, ma pure i pori della pelle che assorbono lentamente l’acqua invitandola ad inondare gli organi interni. La morte per allagamento è terrificante perché muori senza preavviso. Il cuore, i polmoni, il pancreas, il fegato, i reni vanno in apnea, l’immersione subacquea dura troppo e tu, paffete puffete: “Oddio, muoio!”
Tirate pure un sospiro di sollievo perché la mia era solo una dissertazione, molto accurata, interessantissima  e in tutto e per tutto scientifica, certo, ma non riferita al mio specifico caso. Infatti, grazie agli omini pulitori, sono sano e salvo. Nessun rimprovero si può fare alla velocità e all’efficienza di questi piccoli e, in più esemplari, belli grassi, messaggeri dell’asciutto spuntati da rientranze nei muri e botole segrete che, armati di bolidi a quattro ruote e trentatre spazzole, hanno risucchiato le onde prima che potessero raggiungere gli umani studenti, me compreso.
Poi è tornato il sole e gli omini, non contenti, hanno deciso di fare le pulizie di primavera spruzzando prima il sapone poi l’acqua e poi aspiravano. Io me ne stavo beatamente assorto tra le mie nullafacenze internettiane quando ho cominciato a notare movimenti minacciosi attorno a me. Gli omini procedevano con un chiaro piano d’attacco che di primo acchito non m’è parso così efficace. Finché la distanza si è ridotta drammaticamente e io d’improvviso mi son ritrovato con gli schizzi di sapone sulla tastiera, le braccia bagnate e i tavoli ammassati alla mia sinistra per fare spazio. La macchina, che dal rombo doveva avere il motore della Ferrari con la differenza che a guidarla non c’era Raikkonen, ma un ciccionen, mi girava attorno disegnando cerchi concentrici. Arrivato al centro, col mio tavolo e la mia sedia e il mio corpo seduto, il pilota ha girato la chiavetta dell’accensione e sbuffando: “Ti dovresti spostare”. “Guardi, io sto qui, proprio qui (indico quella precisa mattonella di cotto) perché c’è la presa elettrica.” “La presa è anche là!” Lui indica un pezzo di muro. Mi sposto. Allagano il pavimento che circonda il mio tavolino e muore anch’esso per allagamento, il pavimento. La presa è ricoperta di scotch, rotta. Vaglielo a spiegare che il buon funzionamento era una discriminante rilevante. Jumbopc è potentissimo, ok, ma a succhiare energia oltrepassando la barriera del nastro adesivo ancora non è abilitato. Come se non bastasse gli omini hanno cominciato ad avvicinarsi forti della loro viscida tattica. Stanno reiterano i cerchi concentrici e arriveranno di nuovo a me. Ho capito, sono alieni e quegli oggetti non identificati che rombano e sputano acqua schiumosa sono i loro dischi volanti. Si avvicinano. Ecco gli schizzi e il sapone. La biblioteca chiude alle ventidue. E allora perché questi alle diciassette e trentasei si sono messi in mente di portare le Oblate alla lavanderia? Jumbopc ha l’autonomia di sedici minuti. Ok, hanno vinto loro. Me ne vado.
Oggi nuovo temporale, ma degli omini nessuna traccia, come nessuna traccia di comprensione. Quell’articolo non mi scende e l’esame è alle porte e pure alle finestre. A un certo punto di piovere ha smesso. Il sole stavolta non è uscito. Il cielo non ha cambiato colore. Può restare grigio, se vuole. La paura è diversa. E anche se stasera non sto proprio alle stelle, respiro nuovamente.
Vi segnalo le nuove 4 chiacchiere (contate). Questa settimana incontriamo Ilaria Giannini, giovane giornalista che esordisce come scrittrice col romanzo Facciamo finta che sia per sempre, pubblicato da Intermezzi.
Fuori cantano e ballano per la Notte Bianca. Strana sensazione che dalle finestre della saletta, di cui, per usucapione, ho acquisito la proprietà, trasformandola nella mia camera da letto, giungano le note di un ballo caraibico e da quelle della cucina, dove mi trovo a scrivere, Britney Spears, e non è che possa chiuderle, sempre se non voglio sentirmi come Paul Newman ne L’inferno di cristallo. Fate una buona domenica!