Mi sto muovendo e me ne accorgo

La festa di compleanno è stata bellissima. Innumerevoli le foto su Facebook. Chi non è iscritto si iscriva. È finita l’era degli intellettualoidi schizzinosi. Chi è iscritto mi aggiunga. Chi non era iscritto e dopo il mio invito avrà deciso di iscriversi, si ricordi di aggiungermi (se no che si è iscritto a fare?). Quando leggo certe parole scritte dai miei amici mi commuovo e quindi, a metà biglietto, pausa di silenzio e i lacrimoni lì lì per inondare la mia pizza ai quattro formaggi con crudo. Lo ricorderò come il giorno più felice degli ultimi tre o quattro mesi sicuramente, forse pure dell’intero anno.
Ancora grazie a tutti voi, pure a chi se l’è ricordato in ritardo che compivo gli anni, e pure a chi non se l’è ricordato per niente, ma, con un’ammirevole arte di arrampicamento sugli specchi, è riuscito a cavarsela.
Stasera rifarò di nuovo la valigia e domani salirò sul primo regionale pomeridiano per Roma e poi sull’autobus per L’Aquila. Lascerò qualcosa qui. Perché nella valigia non c’entra tutto e perché non ho seguito il consiglio di mia madre di comprare un borsone di quelli che non costano niente per avere più spazio. Lascerò qualcosa qui perché io ci devo tornare. Ora speriamo solo che il treno non deragli come quello di Viareggio. È la seconda volta che succede in questa zona solo che stavolta il treno merci trasportava gas che con l’impatto è esploso causando il crollo di due palazzine e tredici morti. Che sia il caso di dare una controllatina alla rete ferroviaria? E che dite se togliamo pure il malocchio all’aeroporto parigino? Dopo il disastro dell’Airbus misteriosamente precipitato nell’Atlantico, stanotte il bis. Un aereo della Yemen Airways decolla sempre da Parigi diretto alle isole Comore. Ad un certo punto sparisce dai radar e si tuffa nell’oceano Indiano. Dei centocinquantatre passeggeri si salvano soltanto un bambino di cinque anni che hanno ritrovato a sguazzare nell’oceano assieme ai barracuda, e pure il comandante che, appena starà meglio, potrà riferire che minchia è successo, visto che l’aereo stavolta lo guidava lui.
Ci sono un sacco di novità all’orizzonte, ed è un orizzonte vicinissimo. Tutte ipotesi, quindi magari poi a stringere il risultato si rivelerà il solito pantano. Però sono fiducioso e nel caso qualcosa dovesse andare stranamente in porto preparatevi alla fiesta.
Dipende quasi tutto da domani, e il resto del tutto da dopo domani. Però non è quasi niente definitivo.
Saluti con le dita incrociate.

Il Matto compie gli anni

Oggi è il mio compleanno. Ho deciso di smetterla di togliermi gli anni come Alessia Fabiani e quindi è il momento della verità. Ebbene, siamo a quota ventotto. Yes. È va bene che il tempo non esiste e che è solo un’invenzione dell’uomo, però ventotto anni, ammirati dall’angolazione della mia vita in tutto e per tutto precaria, non generano proprio pensieri di giubilo. E quindi abbandoniamo cotali riflessioni e impostiamo questa giornata in modalità party.
Pizzeria prenotata. Andiamo al Pipistrello, un nome un programma. Ho cercato qualche parere su internet. Parlano di un ambiente giovanile, accogliente e con oltre 150 tipi di pizza. La verità è che è l’unica che ho trovato aperta il lunedì, eccezion fatta per Pizzaman che, per carità, sfiora il divino, ma andarci ogni tre giorni è distruttivo. Spero di non ritrovare ali o interiora o baffetti di pipistrello nel sugo della pizza (ok, la prendo bianca), denti canini come segnaposti, paletti di frassino per appendiabiti e comode bare in mandorlo al posto delle sedie. Io, quando schiatterò, voglio una bara in legno di mandorlo. Fate in modo che vengano rispettate le mie volontà, vi prego! Ma tanto che ve lo dico a fare, che voi certamente morirete tutti prima di me.
Dopo questi nuovi pensieri gaudenti passiamo alla torta. Prenotata pure quella alla pasticceria Dolcissima. Compongo il numero di telefono e scatta il fax. Ho dovuto spiegargli i miei gusti urlando dalla finestra. Una piccola e graziosa millefoglie con crema chantilly e frutti di bosco. Non mi andava il solito cioccolato e questo periodo sono fissato con amarena e frutti di bosco. Il gelato, quando mi permettono di scegliere più di un terzo di gusto senza dover accendere un mutuo per pagarlo, accoppio amarena e fior di latte, oppure frutti di bosco e fior di latte. Lo spumante lo portano Linda e Lapo. Le candeline non so. Se la pasticceria non ce l’ha, vorrà dire che non risulteranno prove degli anni spenti.
Grazie a Luca e Niccolò che a mezzanotte in punto sono venuti nella mia stanza, che è il loro salotto (Einstein c’aveva visto giusto con la relatività) e mi hanno fatto gli auguri. Grazie a tutti coloro che mi hanno dimostrato affetto attraverso i molteplici canali che il 2009 consente. Gli SMS, le chiamate, la cascata di auguri su Facebook, i segnali di fumo nel cielo da parte delle tribù nemiche, che in questo giorno si sono unite nel mio nome, e le lampeggianti luci delle creature che dal profondo degli oceani fanno festa per me. O erano i resti dell’Airbus inabissato? Poco importa.Volevo lasciarvi con la dedica di Anastasia che ha in(s)tonato un motivetto per farmi gli auguri, ma Splinder mi dà problemi (che novità), quindi per ora la sua dignità è sana e salva.
Happy saluti.

Dissertazione sulla morte per allagamento

La biblioteca delle Oblate ieri ha subito un allagamento secondo soltanto alla storica alluvione del ‘66 e ovviamente, come in ogni catastrofe, posso esclamare a gran voce: “Io c’ero!” (non nel ’66, ehm ehm; intendevo dire all’allagamento di ieri).
Lo splendido chiostro dell’ex convento trecentesco delle suore Oblate, da due anni recuperato e adibito a biblioteca, coi tavolinetti sfiorati dai raggi del sole e dall’aria che, profumata di lavanda, ti rinfresca, ieri pomeriggio si è trasformato in un oceano tempestoso. Me ne stavo in piedi sulla mia zattera, il rotondo tavolino di ventiquattro cm di diametro, mentre il cielo tuonava (e fulminava. C’è mancato poco che ci restassi secco in più di un’occasione). La pioggia mi aggrediva a vento in gocce rumorose e grosse come palloni da calcio. Ho temuto di morire allagato, morte che differisce di gran lunga da quella per annegamento. Anneghi quando l’acqua ti arriva alla gola, cominci a bere, non respiri più, saluti il mondo perché sai che muori, chiudi gli occhi, ciao. Quella per allagamento, attenzione A-L-L-A-G-A-M-E-N-T-O, procede in modo analogo, ma è più subdola. L’acqua comincia ad entrarti dentro dai pertugi più impensabili, ma dentro dentro proprio. Buchi visibili e conosciuti ai più per le loro molteplici funzionalità. Le orecchie, gli occhi, la bocca e il culo, ma pure i pori della pelle che assorbono lentamente l’acqua invitandola ad inondare gli organi interni. La morte per allagamento è terrificante perché muori senza preavviso. Il cuore, i polmoni, il pancreas, il fegato, i reni vanno in apnea, l’immersione subacquea dura troppo e tu, paffete puffete: “Oddio, muoio!”
Tirate pure un sospiro di sollievo perché la mia era solo una dissertazione, molto accurata, interessantissima  e in tutto e per tutto scientifica, certo, ma non riferita al mio specifico caso. Infatti, grazie agli omini pulitori, sono sano e salvo. Nessun rimprovero si può fare alla velocità e all’efficienza di questi piccoli e, in più esemplari, belli grassi, messaggeri dell’asciutto spuntati da rientranze nei muri e botole segrete che, armati di bolidi a quattro ruote e trentatre spazzole, hanno risucchiato le onde prima che potessero raggiungere gli umani studenti, me compreso.
Poi è tornato il sole e gli omini, non contenti, hanno deciso di fare le pulizie di primavera spruzzando prima il sapone poi l’acqua e poi aspiravano. Io me ne stavo beatamente assorto tra le mie nullafacenze internettiane quando ho cominciato a notare movimenti minacciosi attorno a me. Gli omini procedevano con un chiaro piano d’attacco che di primo acchito non m’è parso così efficace. Finché la distanza si è ridotta drammaticamente e io d’improvviso mi son ritrovato con gli schizzi di sapone sulla tastiera, le braccia bagnate e i tavoli ammassati alla mia sinistra per fare spazio. La macchina, che dal rombo doveva avere il motore della Ferrari con la differenza che a guidarla non c’era Raikkonen, ma un ciccionen, mi girava attorno disegnando cerchi concentrici. Arrivato al centro, col mio tavolo e la mia sedia e il mio corpo seduto, il pilota ha girato la chiavetta dell’accensione e sbuffando: “Ti dovresti spostare”. “Guardi, io sto qui, proprio qui (indico quella precisa mattonella di cotto) perché c’è la presa elettrica.” “La presa è anche là!” Lui indica un pezzo di muro. Mi sposto. Allagano il pavimento che circonda il mio tavolino e muore anch’esso per allagamento, il pavimento. La presa è ricoperta di scotch, rotta. Vaglielo a spiegare che il buon funzionamento era una discriminante rilevante. Jumbopc è potentissimo, ok, ma a succhiare energia oltrepassando la barriera del nastro adesivo ancora non è abilitato. Come se non bastasse gli omini hanno cominciato ad avvicinarsi forti della loro viscida tattica. Stanno reiterano i cerchi concentrici e arriveranno di nuovo a me. Ho capito, sono alieni e quegli oggetti non identificati che rombano e sputano acqua schiumosa sono i loro dischi volanti. Si avvicinano. Ecco gli schizzi e il sapone. La biblioteca chiude alle ventidue. E allora perché questi alle diciassette e trentasei si sono messi in mente di portare le Oblate alla lavanderia? Jumbopc ha l’autonomia di sedici minuti. Ok, hanno vinto loro. Me ne vado.
Oggi nuovo temporale, ma degli omini nessuna traccia, come nessuna traccia di comprensione. Quell’articolo non mi scende e l’esame è alle porte e pure alle finestre. A un certo punto di piovere ha smesso. Il sole stavolta non è uscito. Il cielo non ha cambiato colore. Può restare grigio, se vuole. La paura è diversa. E anche se stasera non sto proprio alle stelle, respiro nuovamente.
Vi segnalo le nuove 4 chiacchiere (contate). Questa settimana incontriamo Ilaria Giannini, giovane giornalista che esordisce come scrittrice col romanzo Facciamo finta che sia per sempre, pubblicato da Intermezzi.
Fuori cantano e ballano per la Notte Bianca. Strana sensazione che dalle finestre della saletta, di cui, per usucapione, ho acquisito la proprietà, trasformandola nella mia camera da letto, giungano le note di un ballo caraibico e da quelle della cucina, dove mi trovo a scrivere, Britney Spears, e non è che possa chiuderle, sempre se non voglio sentirmi come Paul Newman ne L’inferno di cristallo. Fate una buona domenica!

Strani accoppiamenti fra automobili

Ieri sera Firenze era bellissima. Non che gli altri giorni non lo sia, ma ieri sera di più. Anzi, maestosa, come direbbe il bambino dei cigni. Per lui i cigni sono maestosi e non c’è verso che siano altro. Non grandi, bianchi, eleganti. Nulla di tutto questo. Maestosi. Fissava quel cigno ipnotizzato, poi si voltava ad ammirare i fuochi nel cielo e di nuovo gli occhi al cigno che giocava con l’acqua. La gente si è riversata sulle strade per festeggiare San Giovanni, il patrono di Firenze. I ponti della città e i lungarni da lontano sembravano canali percorsi da formiche che si fermano quando arrivano a una buona visuale sull’Arno, da cui sarebbero partiti, di lì a pochi minuti, i fuochi. Mentre tentavo di raggiungere il ponte che sta dopo il ponte che sta dopo ponte Vecchio (non ponte Vecchio, non quello dopo, l’altro ancora, insomma. Come si chiama leggetelo sulla cartina),  sono stato quasi investito da due scooter che sfrecciavano sul marciapiede, nella direzione opposta. Mi hanno anche urlato contro qualcosa. Ed io che ero rimasto all’idea che sui marciapiedi i pedoni potessero sentirsi tranquilli, senza temere di perdere l’uso di una gamba sotto un cerchione all’improvviso. Invece Firenze dev’essere regolamentata da un codice della strada alternativo.  Ho notato, per esempio, che ai semafori, quando scatta il giallo, le automobili inchiodano. Per il sottoscritto, che ha sempre cercato di sfruttare pure i primi decimi di secondo del rosso pur di attraversare e non dover aspettare ancora, è una cosa strana, questa che, alla prima occasione, lo porterebbe di certo in groppa all’utilitaria antistante. Nonostante l’immagine di cavallerizzi e cavalli rievochi pensieri sessualmente stuzzicanti, in tal caso non credo che ne godrebbe particolarmente né la mia Matiz verde acqua né tantomeno quella del tipo che come minimo mi spacca la faccia a pietrate focaie. Un’altra cosa strana che ho notato – strana sempre per il suo essere aliena dalle mie abitudini, come sarebbero strane le dimissioni di Berlusconi o l’ascesa al Paradiso del signor sua maestà illustrissima Benedetto Papa –  è legata alle strisce pedonali. Hanno un potere sugli automobilisti fiorentini che neanche il Triangolo delle Bermuda coi vascelli risucchiati. Se sul ciglio di una strada, può essere una qualunque, anche una tangenziale su cui sfrecciano come razzi (un’autostrada è poco calzante come esempio. Non mi pare di aver mai visto strisce pedonali in autostrada, che se accosti per soccorrere un’automobile incidentata e ti beccano, ti levano la patente finché campi ( e dubito che te la ridiano nell’Aldilà). Per la serie: Hai appena fatto un incidente in autostrada? Muori pure e grazie per aver scelto Autostrade per l’Italia!) appoggi il piedino sul bianco della prima striscia pedonale, l’automobile in arrivo si paralizza e scorgi un sorriso dietro il vetro che ti fa cenno di passare. Io, quando guido, tendo all’abbattimento degli ostacoli che bloccano il passaggio. Trovo sia una pratica veloce e logica. Io devo passare lì, tu stai in mezzo alle palle, io ti abbatto. Lo diceva anche un proverbio che parlava di sbarazzarsi dei macigni che impediscono di procedere sulla strada della vita. Io lo faccio pure con le persone e non è che stia a badare se il terreno sotto i loro piedi sia tutto nero oppure zebrato.
Ho visto anche giovani sull’autobus cedere il posto agli anziani che non sempre gradiscono il generoso gesto. La vecchia di stamattina a Stefano (che c’è venuto a trovare da Avezzano, grazie per la giornata e per il flurry smarties!) che si era alzato per farla accomodare, ha risposto: “No grazie, sto meglio dritta!”
È per questo che io non mi alzo mai, quando sto sull’autobus. Anche perché pure io comincio ad avere una certa età che, tra pochi giorni, verrà incrementata di un’altra unità. E io a festeggiare resto qua. Me lo devo.

C’è gente che la pensa come Berlusconi. L’ho vista.

Ero abbastanza sicuro che questa cosa di Berlusconi capo del governo fosse una specie di finzione teatrale. Lo scherzo più lungo nella storia di Scherzi a Parte. Che i risultati delle votazioni fossero tutte le volte (perde quello, guadagna quell’altro, si scioglie quel partito, si uniscono quegli altri sedici. Gira che ti rigira non cambia niente) il frutto di un divertente gioco che sarebbe finito prima o poi con un: “C’eri cascato eh?! Ora andiamo a votare sul serio, dai!” e invece no. Mi dispiace dare questa notizia a chi, come me, sperava di risvegliarsi, ma è tutto vero. Berlusconi esiste ed è il nano che vedete ogni giorno ovunque guardiate. Il viscido delle false promesse. L’atroce sorriso disumano che rassicura e ipnotizza le masse. In questo, come in tante altre cose, tipo fare soldi, lui che, come spesso racconta, ha creato la sua fortuna da un’arancia (di tutta risposta io ho iniziato a farmi le pere) è bravissimo. È stata un’amara scoperta venire a contatto con gente che la pensa come lui. Ho scoperto che esiste gente che afferma con convinzione che è giusto che gli aquilani si ricostruiscano le case che hanno perso, a loro spese. Non che Berlusconi l’abbia detto direttamente, ma l’ha fatto scrivere nel suo ammirevole decreto. Il terremoto non è colpa di nessuno, tantomeno dello Stato. Tu hai speso trecentocinquantamila euro per comprarti un appartamento? I soldi di una vita (qua ci sta bene). C’hai pagato le tasse per venticinque anni? (Tasse mi ricorda un po’ Stato, comunque…) Una notte di cazzo si scatena il mondo nel terremoto più forte del millennio e casa tua si sbriciola? Beh, che aspetti, ricostruiscitela tu, perché lo Stato ha altre necessità. Allo stato i soldi servono. Se no Berlusconi con cosa glielo compra il regalo dei diciotto anni a Noemi? Come fanno i parlamentari a fare merenda con la schiacciata dal fornaio, se qualcuno dovesse osare ridurgli di un pelino pubico i quindicimila ++ euro al mese che prendono per russare come maiali sulle poltrone vellutate, senza neanche conoscere i congiuntivi?
C’è gente, e ve lo dico perché c’ho parlato, che è convinta che sia tutto giusto così com’è. Che si unisce al grido di: “Berlusconi ha ragione!” mentre tutto il mondo dei media lo sta prendendo per il culo per quello che dice e che fa. Io mi vergogno un po’ di essere governato da uno zimbello mondiale. Mi vergogno e mi dispiace di non poter chiamare l’Italia un paese civile. L’Italia è un gigantesco circo e la gente paga cari i biglietti per assistere allo spettacolo, di lorsignori giocolieri che si arricchiscono godendo dei disastri, che portano nelle loro tasche pubblicità e voti.
Ah, poi ho scoperto pure che il terremoto aquilano non è l’unico sfacelo mondiale. Ho scoperto che esistono cose tipo la guerra o la fame, e i bambini che in Africa muoiono con le pance gonfie di malaria, senz’acqua. Ho scoperto che l’ecosistema terrestre è corrotto da tempo e che presto schiatteremo tutti perché il nostro pianeta ad un certo punto s’incazzerà di brutto e ce la farà pagare. Poi magari arriva una meteora e chiude il discorso. Io non le sapevo proprio tutte queste cose. Io pensavo che esistesse soltanto il terremoto aquilano, pensate un po’. Fortuna che qualcuno me l’ha fatto notare altrimenti non l’avrei mai immaginato. Vedevo il mondo attorno come una specie di paradiso terrestre e la nostra Italia il punto nero da spremere o in caso estremo asportare chirurgicamente, per ritrovare la perfezione perduta.
Avete presente quelli che, mentre tu parli di X e Y, e di quanto a tuo avviso sia grave la situazione che li lega, alzano la mano e con fare saccente rispondono: “Voi state qua a parlare di X e Y quando nel mondo muoiono i bambini, ci sono gli tsunami, esplodono le bombe in mano alle madri innocenti…”
Ho forse detto che la questione di X e Y è meno grave delle madri senza mani? No. Sto semplicemente affrontando la questione del terremoto. Sto guardando questo pezzo di realtà. Per farlo debbo prima accertarmi che sia meritevole di discuterne, che sia per gravità superiore a quanto affligge il resto dell’umanità? Cosa c’entrano le guerre e le carestie?  
Trovo sia intelligente seguire un discorso e, se si sente il bisogno di parlare, alzare la mano e dire una cosa sensata e soprattutto C-O-L-L-E-G-A-T-A. Altrimenti state zitti. Non voi, lettori del blog. Mi rivolgo ai vanverini che sono come le vecchie che, con l’arrivo della primavera, si accucciano agli scalini di pietra della loro casetta di paese e parlano a vanvera. Mica uno deve parlare per forza. Trovo.

“Giuro su queste 300 tombe…”

Sono in doccia, squilla il cellulare.
“Mattè, il telefonooo” grida Niccolò. “Vedi chi èèè” urlo da dentro la cabina doccia. “Milano!” “Oddio!”
Mi credete se vi dico che nell’arco di una giornata può non squillare mai? Certe volte dimentico di averlo, un telefono. Ci sono giorni in cui fatico a ricordare che suoneria abbia, nonostante sia la stessa da cinque anni e nove mesi (i primi tre mesi le cambiavo pure). E giorni in cui do una gomitata a quello vicino e gli dico: “Scusa, sono venti minuti che ti suona il cellulare”. Mi becco di risposta uno sguardo furibondo perché da venti minuti stava pensando la stessa cosa del mio telefono e, con tono ascendente: “Guarda che è il tuo. Anzi, se puoi rispondere…” Cazzo non lo dice, ma lo pensa.
A proposito, auguri al mio Sharp gx10i che a metà giugno ha compiuto sei anni. Un degno erede del Nokia 5110, il primo cellulare trasformista. Quello pubblicizzato dal venticinquenne con la camicia verde pisello e il Nokia violetto che s’innamora della ragazza della porta accanto col Nokia verde pisello e la gonna dello stesso violetto. Fanno a scambio di cover e vissero insieme felici e contenti. Ve la ricordate? Non credo. Io, che dello spot ho immagini molto vaghe, ho dovuto ricorrere al sacro fuoco dell’artificiosa arte immaginifica per ricostruirla.
Quel meraviglioso regalo dei diciotto anni non ha davvero potuto fare di più. Dopo quattro anni era arrivato al punto che per farlo reagire agli stimoli bisognava esercitare una pressione sul piccolo monitor a cristalli liquidi. Sempre più forte, come quando assumi costantemente un farmaco e l’effetto nel tempo diminuisce, se non aumenti la dose, così le pressioni. Finche sono scoppiati i cristalli in un: “Nooo!” della folla partecipante. Comunque quei due adesso avranno suppergiù cinquantotto anni e continuano imperterriti a calcare le scene della pubblicità. Lei della crema anti invecchiamento a base di cetriolini Mc Donald’s (ve li raccomando). Lui è stato preso per interpretare il nonno che cade dalle scale nel nuovo spot di Euronics e dell’ottimismo che sarebbe il profumo della vita.
Ecco cos’era la puzza che si respira in Italia da qualche anno a questa parte. Non la spazzatura che Berlusconi ha spostato da Napoli a Palermo. È proprio lui che puzza. Non perché non si lava. Questo non posso dirlo, non ho avuto mai il piacere di averlo ad una distanza tanto ravvicinata da afferrarne l’odore e, perché no, la solita spranga dimenticata dal mostro di Firenze e colpirlo su quella capa di nano coi capelli color terra di siena bruciata. È la sua esistenza che puzza. Il suo potere che soffoca gli italiani. Le sue parole vergognose ai funerali di Stato delle vittime del terremoto, per esempio: “Giuro su queste 300 tombe che gli aquilani riavranno le case che hanno perso”. Arrivano le elezioni e gli abruzzesi si riversano al voto per rimpinzare i consensi del Premier, fiduciosi che possa riportare la luce sulla loro terra, neanche fosse Gesù Cristo. Berlusconi arraffa il cinque per cento in più delle ultime Politiche e decide che, ora che ha vinto, è il momento di rendere pubblico il tanto discusso decreto. Ebbene, chi ha perso la prima casa avrà un contributo dallo Stato ridicolo. A chi è crollata la seconda casa neanche un centesimo. Abituarsi all’idea di aver perso una casa è senz’altro più facile che accettare l’esistenza di Berlusconi e giustificare la perseveranza di Madre Natura nel non causargli la morte per soffocamento da ananasso fuori stagione. Perché non si può fare un giuramento su 300 persone morte e anche lì prendere per il culo. Lì no. lui sì.
Intanto alle 23.16 ha fatto una scossa di 4.6 che ha terrorizzato gli aquilani. Come si può firmare un’ordinanza che costringe chi ha la casa agibile a lasciare le tendopoli? Non credo che uno scelga la tenda perché vuole riscoprire la giovane marmotta che è in lui. Uno se sta in tenda è perché ha paura. Una paura ragionevole, considerato che le scosse sono tutt’altro che finite. Anzi, aumentano d’intensità. Il signor sindaco Cialente sta bene o è impazzito appresso a Berlusconi? Ha paura che finiscano i pacchi di pasta e zucchero e le conserve per i pasti degli sfollati? E tutti quei fondi promessi, giunti, spariti, mai visti, PUFFETE PAFFETE e non se ne parla più? Non bastano per sfamare la gente un altro paio di mesi nelle tendopoli? Novanta mila fantastiliardi di milioni di euro che Berlusconi ha detto sarebbero arrivati a L’Aquila. Finiti già?
“La scossa, anche se profonda, è stata avvertita molto bene dalla popolazione ma rientra nel quadro dell’evoluzione del sisma” ha detto Boschi, direttore dell’Istituto di geofisica e vulcanologia (Ingv). “Il problema sono le conseguenze di tipo psicologico sulla popolazione perché le continue scosse creano paura e scoraggiamento.” Signor Boschi, lei sarebbe rassicurato? Certe dichiarazioni mi sembrano così idiote. E poi si è parlato per mesi della prevedibilità, dei segnali che possono far presagire e l’unica cosa che è arrivata come certezza è che i terremoti non si possono prevedere, quindi state tranquilli… E ora il signor Boschi dell’Ingv ci dice che la scossa di 4.6 (ragazzi, è una botta che ti ricuce la fessura del culo in un nanosecondo) rientra nella normale evoluzione del sisma quindi state tranquilli…? I terremoti non si possono prevedere, però si possono prevedere le evoluzioni? Com’è ‘sta storia? E che ne so io che fra un mese e mezzo non ne fa una di 7?
Mi dispiace per mia madre che stasera era da sola in tenda perché mio padre e mia sorella sono in viaggio da Trieste. Bella chiusa a sette catenacci, come dice lei, perché ha paura degli sciacalli che potrebbero farle del male. Allora, come ogni sera, ha legato i cordoni dall’interno che pure Lupin avrebbe trovato non poche difficoltà. Dopo la scossa non riusciva a uscire e l’hanno dovuta soccorrere e liberarla dall’esterno, poveretta. L’ho chiamata, mi ha fatto consumare tre euro e venticinque centesimi (la totalità del mio credito) per dirmi che si muoveva tutto e che sembrava che il telone della tenda volesse risucchiarla e digerirla. Lei ama condire le vicende col suo ingrediente segreto di estrema tragicità, frutto dei tre anni di appassionata visione di Nel segno del giallo.
Comunque quella di stamattina era l’unica telefonata che aspettavo, il loro numero. Doveva arrivare entro un mese è arrivata dopo otto giorni. Li ho contati. Come quando conti i giorni che mancano alla partenza o il tempo che ti separa da un incontro atteso. Niente d’importante, per ora. Per me è importante ciò che esiste, non l’ipotetico. Sono felice di dover cambiare di nuovo i miei programmi. Non torno più giovedì, ma direttamente il primo luglio, sperando di portare con me la buona speranza che mi ha attraversato oggi e che motiva la mia permanenza. A mia madre, che non torno, ancora non gliel’ho detto. Non era la serata giusta.
Un’altra scossa all’una di 3.1, proprio come nella notte del sei aprile.
Facciamo che vado a dormire e alle tre e trentadue non succede niente, eh! Perché, se no, altro che prevedibile e non prevedibile; ‘sto terremoto è un orologio svizzero.

Un consiglio per chi ha bisogno di vomitare

Mi sfilo i guanti di lattice da infermiere. Provo ad inalare il residuo bianchiccio che lasciano sulle mani. Non si sa mai che sia cocaina. E invece no, perché sono ventisette minuti che starnutisco con violenza maledicendoli. Non pensate che sia così banale da essermi fatto giustizia da solo. Il sacrosanto omicidio della Bellocchio ha poco a che vedere coi guanti. È ancora a piede libero a promettere cornetti, caffè e giretti panoramici per Viareggio in cambio di qualche copia venduta. Sono felice di annunciare a lei e a tutti i suoi (comprati) lettori che la sua opera d’arte Sono io che me ne vado, sta per aggiudicarsi il premio Soldi buttati 2009. Ricordiamo gli illustri precedenti. Fiorinello Bocciolodoro con la sua autobiografia ufficiale (autoprodotta) dal titolo Autobiografia ufficiale, e Paola e Chiara con Amici come prima, poi giri pagina e trovi scritto mi costa una fortuna, poi giri pagina e ancora: riuscire ad ammettere che… Ecc.
Miglior debutto Violetta non poteva immaginarlo. Se qualche curioso decidesse di acquistarlo, nonostante io sia disposto a mettermi in ginocchio sui vetri di un porcello swarovski infranto, pur di distoglierlo dal farlo, che lasci pure perdere le allettanti offerte corporali della nipotina del conosciuto e talentuoso regista, e venisse da me che io il suo libro glielo regalo. Se potessi, lo rivenderei pure per svoltarci un paio di euro, ma dubito che troverei qualcuno disposto a pagare. In fondo è seminuovo, tenuta perfetta, carrozzeria intatta e senza neanche una pieghetta. Io il segno lo tengo col segnalibro, che non dev’essere necessariamente di quelli sofisticati con i pelucchi e i cordoncini all’estremità tipo gli orli delle tende, che costano più del libro. Può essere anche un foglietto di carta, ma, vi supplico, niente pieghette e niente sottolineature. Pur volendo, a quello della Bellocchio, cosa vuoi sottolineare? L’unica frase degna di nota è quella sulla compassione che sapientemente hanno appiccicato in copertina. Le ultime pagine sono ancora illibate e legate fra loro da quel velo di leggerissima attrazione molecolare tipica dei libri neanche sfogliati, e temo che lo rimarranno.
In questo periodo ho qualche problemino ad espellere residui solidi. L’intestino si è un po’ impigrito e molti mi hanno consigliato di utilizzare il libro della signorina come purga. Il fatto è che Sono io che me ne vado non fa cagare, purtroppo, ma vomitare, che è molto diverso. Io di vomitare non ne ho gran che bisogno, però magari qualcuno sì. Pertanto lo consiglio a chi ha la febbre, a chi è ubriaco e sta male e a chi ha scelto la strada della bulimia e la porta avanti con coraggio e determinazione.
Facciamo un salto nella buona letteratura. Lui si chiama Vanni Santoni ha 31 anni e dopo Personaggi precari tratto dal suo blog, ha pubblicato l’anno scorso Gli interessi in comune per Feltrinelli. L’ho intervistato questa settimana. Le 4 chiacchiere (contate) che ho scambiato con lui le trovate naturalmente nella pagina della rubrica, su SoloLibri.
A cosa mi servivano i guanti di lattice?!
Ho appena finito di igienizzare il cesso. Oggi abbiamo fatto le grandi pulizie. Non così grandi. Abbiamo restituito aria e vivibilità a questa casa. Una sorta di questione di vita o di morte, e noi abbiamo scelto di vivere.

“Tu su queste stronzate ci scrivi i post e quindi…”

Ho nuovamente rinviato il ritorno a L’Aquila di una settimana. Riparto giovedì prossimo. Ci sono sempre più motivi per restare e si sono esauriti quelli che dovrebbero spingermi ad andare via. Ora c’è bisogno di stabilire delle regole ferree. È l’unica soluzione al problema degli obiettivi non raggiunti. Così, almeno finché sarò qui, passeremo le nostre giornate alla biblioteca delle Oblate a Firenze a spremere i cervelli. Mi sto accorgendo che siamo diventati bravissimi a parlare, ma, quando c’è da stringere, andare al sodo, dimostrare, darci sotto e via dicendo – per sottolineare lo stesso concetto – continuiamo a lamentarci e a rimpiangere i giorni che furono e le scelte toppate e quello che eravamo, come se avessimo settantanove anni, giunti alla fine, a commentare un fallimento definitivo. Con tutto il rispetto per i settantanovenni. Che poi non è mai troppo tardi. Fa riflettere la storia di Cesarina Vighy, autrice de L’ultima estate, pubblicato da Fazi e vincitore del Campiello Opera Prima e finalista allo Strega. Ebbene, lei ha settantatre anni e questo è il suo esordio. Quindi neanche a dire che c’è un tempo limite entro cui chiudere il cerchio delle cose. Questo per dirvi che se qualcuno passasse di lì (alle Oblate) in questi giorni, e dovesse riconoscermi  – oggi avevo un’accecante maglietta giallo sole, presa alla Coin per nove euro e novantanove, domani non so – è pregato di venirmi a salutare. Poi, se mi è simpatico, gli concedo anche il lusso di offrirmi un caffè.
Ieri siamo passati davanti alla cantina dove suonavano i Litfiba. Me l’ha fatta notare Niccolò. Non che me ne fregasse qualcosa, ma come dice lui: “Tu su queste stronzate ci scrivi i post e quindi…”
Sul muro, oltre agli innumerevoli messaggi d’amore lasciati dai e dalle fan, che l’avranno leccata con la lingua, quella parete, ce n’era qualcuno dispiaciuto e un po’ incazzato perché, dopo aver attraversato mezza Italia, a dir suo, era arrivato lì e non gli aveva aperto nessuno. Ma ci abitano? Sicuro che Piero Pelù fosse in casa? Magari era andato a lavare il fuoriserie o a portare il suo codino a fare la toeletta. Un po’ di comprensione per chi lavora, dico io. Poi cos’è quel modo di imbrattare i muri? L’avessero fatto a casa mia li avrei querelati uno per uno. Dopo il pomeriggio di studio, siamo andati alla partita di pallavolo Italia-Usa al Mandela Forum, valida per la World League. Non eravamo proprio in prima fila, ma dotati del telescopio spaziale Hubble riuscivamo addirittura a seguire la palla. Scherzi a parte si vedeva benissimo. Il panino di due chili e mezzo con centotrenta grammi di salame toscano sullo stomaco non mi ha impedito di esultare ai punti, fare le ole e sbattere i piedi sui gradoni insieme a tutto il palazzetto, mentre quelli non indovinavano una battuta. E infatti hanno perso. Mannaggia a loro.
Volevo chiudere facendo i complimenti alla nostra nazionale di calcio che ieri ha onorato la maglia azzurra perdendo 1 a 0 con la temibilissima formazione dell’Egitto. Non ho potuto seguire la partita perché il segnale sul digitale era bloccato, però immagino sia stata una prestazione storica. Sicuramente ineguagliabile. Esiste un’altra squadra che è stata capace di perdere con una compagine di mummie e cammelli? Io non sapevo neanche che l’Egitto avesse una squadra di calcio, comunque. Ora possiamo tirare un gran sospiro di sollievo e andare a giocare contro il Brasile senza la minima preoccupazione. In compenso ho seguito Il secondo tragico Fantozzi su Rete4. La scena in cui lui, mentre fa gli straordinari fino alle tre, viene sorpreso da un metronotte che, scambiandolo per un ladro, gli spara col mitra, resta memorabile.

“Ma vi ci trovate tanto bene nella parte?”

Dopo la faccenda della Telecom, che mi aveva staccato telefono e internet nonostante l’esistenza di un decreto che esenta gli aquilani dal pagamento delle bollette, mi sono imbattuto nella lettera di Stefano Falone, un ricercatore aquilano che fra l’altro conosco bene, che ha scritto a Repubblica per denunciare l’ennesimo vergognoso accadimento.
Il 14 giugno, insieme alla sua ragazza, raggiunge suo cugino per il compleanno, ospite al campeggio Salinello a Tortoreto. A differenza di sempre, stavolta, all’ingresso, si ritrova la disarmante richiesta di 5 euro da parte della signorina della reception. Stefano e la sua ragazza spiegano che anche loro sono aquilani e che mai nelle altre circostanze in cui erano venuti a trovare i loro cari avevano dovuto pagare. La signorina risponde che i domiciliati sono liberi di uscire e incontrare fuori dal campeggio chi vogliono, ma l’ingresso per i non domiciliati si paga 5 euro al giorno. A questo aggiunge la sgradevole esternazione: “Ma vi ci trovate tanto bene nella parte?”
Alla signorina, alla quale, se fossi stato lì presente, avrei fatto del male fisico, prendendola per i capelli e sbattendole la testa ripetute volte contro un palo della luce, vorrei dire che quella che ci troviamo a vivere è una parte che non abbiamo scelto. Non è un film quello dei terremotati, nonostante avrebbe tutte le caratteristiche per esserlo e quasi sicuramente lo diventerà. Non siamo pagati da una produzione televisiva per partecipare alla fiction né, alla fine delle riprese, avremo la nostra vita che ci aspetta. Non vogliamo essere sulla bocca di tutti né dover sopportare la compassione altrui. È terribile quello che è accaduto alla nostra città, alla terra su cui stavano le nostre case, e noi dentro. Lei si deve vergognare di esistere solo per aver detto una cosa del genere. Per rimediare dovrebbe almeno suicidarsi.
Le auguro di poter capire un giorno, e non è affatto un bell’augurio, questo.
La lettera di Stefano la trovate per intero sul sito di Repubblica.

“Signor Matteo” non me lo dici, chiaro?

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In questi giorni stanno tappezzando Roma con i manifesti della nuova campagna pubblicitaria dell’acqua Gaudianello. Come leggete coi vostri occhioni: “Effervesciente naturale. L’acqua con qualcosa in più” e quel qualcosa in più è chiaramente la i di troppo. Chissà se si tratta di un chiaro disegno di marketing. Puntare sullo strafalcione considerato che la Gaudianello non fa fare tanta plin plin né depura l’organismo né è povera di sodio, o portatrice di altre qualità che possano renderla distinguibile nell’infinito mondo delle acque; oppure semplicemente di un errore scappato su decine di migliaia di cartelloni affissi. È curioso che la stessa campagna sia uscita anche sul Mattino di Napoli dove la i non compare. Sarà mica perché a Napoli quando dicono effervescente ce la mettono comunque?  (Pronuncia campana: effervesciiiiiéntè, e chiusa seguita da e apertissima.) Nella versione napoletana io una bella i l’avrei aggiunta pure al nome dell’acqua. Gaudianiello (pronuncia campana: gaudianiiielll avrebbe certamente fatto maggiore presa sui consumatori accattatevillosi. Non è un attacco ai napoletani che mi sono mediamente simpatici. Chi mi conosce sa che io manifesto intolleranza razziale e razzista, molto motivata se pur esclusivamente riferita alla razza, soltanto per i cinesi e un po’ per i coreani.
A proposto di marketing, oggi ho parlato al telefono con un editore rappresentato dalla voce di una signorina poco credibile che voleva spedirmi a tutti i costi un contratto editoriale.
“C’è un contributo da pagare per pubblicare con voi?” “Sì, le invio il contratto e lei potrà così valutare.” “A me le sorprese non piacciono. Di che cifre stiamo parlando?” “Le invio il contratto così potrà valutare l’entità dell’esborso…” “No, guardi. Io non ho mai pagato nulla e quindi…” “Eh, ma c’è l’editing da affrontare.” “E quindi?” “Sa cos’è un editing signor Matteo?”
Chi mi chiama signor Matteo mi fa imbestialire. Non so bene perché, forse perché sono single e nei modi sono tutt’altro che un signore.
“So cos’è un editing certamente meglio di lei.” “Ecco, allora saprà che ci sono dei costi…” “Ma mi faccia capire una cosa.” “Mi dica signor Matteo!”  
Ok, un’altra volta e la raggiungo ovunque si trovi e le ficco la cornetta in gola.
“Lei ritiene che gli autori debbano sostenere economicamente le case editrici un po’ come un cittadino generoso fa col poveraccio che non ha da mangiare sotto casa sua?” “No, è che l’editing costa.” “Anche lei costa, ma non è detto che debba pagarla io, come autore.” “Comunque le invio il contratto così…” “Non le faccio perdere tempo. Non ho mai pubblicato a pagamento e non ho alcuna intenzione di cominciare a farlo ora.” “La nostra proposta rimane valida quindi non esiti.”
Io non esito, ma tu non esisti. Ho già riagganciato.
Non mi fa incazzare la politica dell’editore. Finché c’è chi è pronto a sborsare duemila, tremila, quattromila euro pur di vedere i propri 50 fogli rilegati così da poter assomigliare a un libro, spesso di cattiva qualità estetica e letteraria, che continuino pure. Ma quella poveretta (interiormente parlando) pagata (lo spero per lei) per vendere frottole al telefono… Sì. Quella mi fa incazzare. Col tono di una maestrina mi chiede se so cos’è un editing. Poi aggiunge quel signor Matteo che… No.