Into the wild

Tutti a parlare di opera d’arte, e allora ieri, io Luca e Niccolò, abbiamo deciso di vederci Into the wild. (No che non l’abbiamo scaricato; sì abbiamo acquistato la pellicola, va bene?) Personalmente ho passato l’intera durata del film (due ore e mezza, come due film di Boldi più uno di Pieraccioni praticamente) a ripetermi: Mattè, massima attenzione, ché a momenti accadrà qualcosa di cruciale. Invece non è successo proprio niente. Per chi non l’ha visto, ora spiattello la trama nella sua totalità. È la storia di questo ragazzo che dopo la laurea a pieni voti decide di fuggire da tutto, principalmente dalla sua famiglia. Padre e madre ricchi, che pensano di conquistarsi l’affetto del figlio regalandogli una macchina nuova o pagandogli il college migliore. Dà tutti i suoi risparmi in beneficienza e, da un giorno all’altro, sparisce. Da qui comincia la sua avventura in giro per il mondo wild (selvaggio, selvatico, quello che volete) col sogno dell’Alaska. Questa vita, privata di tutto, regala a Christopher la felicità, alimentata dalle sue irrinunciabili letture (e ‘sta cosa ci piace). Viaggia per due anni dicendo a tutti di chiamarsi Alexander Supertramp. Sulla sua strada, incrocia una coppia hippie in crisi che, grazie alle sue parole, ritroverà la passione, un giovane trebbiatore del Dakota che gli fa tagliare il grano nei suoi campi in cambio di sostentamento per un po’, una cantautrice pure lei hippie che ci prova e ci riprova dicendo di avere diciott’anni pur di fare l’amore con lui, poi si scopre che ne ha sedici quindi niente sesso (Melissa, eri tu quella?), e un vecchio chiuso nei suoi ricordi che non avendo più famiglia, poco prima della sua ennesima partenza, chiede al Supertramp se può adottarlo, lui risponde che ne parleranno al suo ritorno; per la serie: vado, ciao bello!
In Alaska trova la natura incontaminata che, con il passare del tempo, gli fa comprendere che la felicità non è nelle cose materiali, ma nell’incontro incondizionato con l’altro. Questo viene fuori anche dalla frase che scriverà su uno dei libri che amava leggere: Happiness is real only when shared: la felicità è reale solo se condivisa (traduco per chi come me non sa che vuol dire shared). Qui le sue giornate procedono serene sparando agli animaletti (ma i proiettili non finiscono mai?) espletando i suoi bisogni primari qua e là, e passando le sue notti dentro un autobus abbandonato (da quelle parti dev’esserci stata la fermata dello scuolabus dei pinguinetti, altrimenti non si spiega come un autobus possa starsene nel bel mezzo di una distesa infinita di ghiacci) a leggere e ad appuntare riflessioni su un quadernino molto hippie anch’esso. Insomma, dopo due sfiancanti ore e mezza (dio che sonno!) che uno s’aspetta che finalmente decida di tornare a casa, affrontare la sua famiglia, o che qualcuno lo ritrovi, oppure che se lo sbrani un orso, lui scambia un grazioso rametto pendente tubero velenoso, per delle appetitose patate selvatiche; le mangia e muore. So che quei pochi che non l’avevano visto, e nutrivano la segreta intenzione di farlo, ora mi staranno odiando, ma capitemi, come posso criticare il finale di un film senza dire come finisce? ‘Sto ragazzo ce l’hanno rappresentato come una specie di avventuriero impavido e coraggioso che sfida il mondo e le sue regole, e poi che fa? Muore perché si mangia una patata velenosa?
Comunque, a quanto pare, è una storia vera, rappresentata cinematograficamente con una lentezza che, dopo meno di mezzora, io, Luca e Niccolò sbadigliavamo random (e mancavano ancora due ore). Se invece di quell’interminabile sequenza di niente, ne avessero fatto un cortometraggio, la storia, a mio avviso, non avrebbe perso alcun dettaglio. Che decidiate di vederlo oppure no due spassionati consigli:
1) non pagate per farlo.
2) da oggi in poi pretendete da vostra madre l’etichetta con la provenienza delle patate, prima di inghiottirle.