Luca Dorigo, ancora sul trono… Della pietà!

Consueto gingle digestivo di Uomini e Donne. Tante sedie vuote. Siamo a fine stagione, e allora sarà senz’altro una delle solite puntate commemorative degli innumerevoli love-flop nati e morti tra le urla di quelle quattro tacchine grasse del pubblico parlante. E invece no. Signori e signore, torna sul trono per la terza volta Luca Dorigo. Vogliamo qui ripercorrere l’illustre carriera d’Umiliato Pubblico della persona divenuta ormai lo zimbello d’Italia.
Personaggio creato da Maria nostra a Uomini e Donne, pone fine a un trono anonimo scegliendo la tigre con le cicce Amalia, che gira e rigira tra le parole prima di sparargli un sonoro e secco No, forse illusa da prospettive di troni futuri. Luca, alla ricerca di un riscatto, torna sul trono. Amalia torna a corteggiarlo. Luca la risceglie (e va be’, allora… ) e a quel punto un altro No avrebbe significato la lapidazione a colpi di mezzi tacchi delle suddette tacchine, e allora Amalia dice Sì. L’amore trionfa, calano i petali, Maria applaude dalle sue scalette in plastica, e tutti vissero felici e contenti.  
Inizia La Pupa e Il Secchione. E chi ti arriva a sostituire una pupa fuggita in tempo da quella vetrina di carni ignoranti? Amalia, che gira sulla pedana con le mutande di pizzo, ammiccando a quei bruttoni complessati. Viene scelta, e inizia la sua pratica di biscia tra i letti.
Ma non stava con Luca?
Maria nostra invita subito il povero (…) in trasmissione, che racconta di essere stato lasciato una settimana dopo. Bene. Inizia il Grande Fratello, e chi ti arriva in studio fidanzato alla bella concorrente Melita? Naturalmente Luca Dorigo. La visione della sua faccia mi provoca un’irrefrenabile pulsione a cambiare canale, ma quando sto per farlo ecco la scena clou. Melita lo lascia in diretta e lui torna di nuovo a fare la parte del cornuto e mazziato. Emblematica la risposta di lei che alle parole: "ho perso sei chili, mi hai deluso, ti amavo e ti amo ancora" e altre frasi simili, ribatte all’incirca così: "il mio unico errore è stato quello di non chiudere con te prima di entrare qui", e via di baci e abbracci col suo Alessandro.
Chiunque, dopo una tale figura di cioccolato, sarebbe sparito dalle scene, in esilio volontario in qualche chalet diroccato, a riflettere sul senso della vita. Luca Dorigo no. E quindi diventa a tutti gli effetti concorrente del reality Un Due Tre Stalla, di Barbarina nuovo look (dimostra solo trent’anni di più) e sguardo devastato dagli ascolti sottoterra. Non ho ben chiaro in funzione di quale meccanismo del regolamento Luca sia potuto entrare nella Stalla (spiegazione esauriente la presenza del cognome De Filippi tra quelli degli autori) e soprattutto nella squadra delle vallette, anche se basta un’occhiata al suo curriculum televisivo per convincersi che non poteva che andare così.
E allora, quando Barbarella chiama: “La squadra delle valletteee!” ecco sfilare le stambeccone ipertruccate con le lenti a contatto azzurre e le labbra canottate, e a seguire, il nostro eroe Luca incaricato di proteggerle dall’impeto dei rustici contadini. È l’unico istante della trasmissione che guardo. Esilarante.
Beh, dai, almeno vince un reality. Lui è famoso, lo voteranno. Manco per niente. Vince Imma, (chi è?) (boh), e la Stalla si chiude tra i fischi di tutti con l’ennesima umiliazione di Luca secondo.
Quando Maria Maria Maria prende a cuore una causa non la molla, e allora eccolo ricomparire sul trono.
Il ragazzo è ben contento di restare in video più tempo possibile per incrementare cachet e serate. (Mica fesso!) Basti pensare che ne farà cinque solo nei primi quattordici giorni di Giugno. Sul suo sito ufficiale (non metto il link manco morto) dopo la intro di foto grezze e musica tunzettara, c’è un banner che voglio segnalare a tutti i fan che desiderano ardentemente anche solo un saluto del Re Luca.
Recita così: Chatta al telefono con Luca. Quando Luca esce (ma non si dice uscirà?!) da Un Due Tre Stalla…! parlerà direttamente con te!

Cliccate e vedete un po’ che succede. Io intanto chiamo Striscia.
Nella speranza che qualcuno che gli vuol bene riesca presto ad allontanarlo da telecamere e umiliazioni, e a permettergli così di recuperare quel poco di dignità che offre il silenzio, noi vogliamo ricordarlo nell’unico momento felice della sua vita durato ben tre minuti e cinquantuno secondi.

  
M.
 
Il cuore mi ha sempre detto Amalia. Ah, l’amore…

Nelle tette di nonna Giovannina

Oggi ho fatto fuori l’ennesimo mazzo di chiavi.

È un’attitudine incurabile, una sbadataggine senza rimedio. Ogni volta che prendo in mano uno di quegli stramaledetti pezzi di metallo intagliato mi ripeto: “Stai attento, pensa a cosa fai, a dove vai, e li porti, e li appoggi, controlla ogni movimento…”

Io sto attento. Penso a cosa faccio, a dove vado, e li porto, e li appoggio, controllo ogni movimento; eppure, magari non nell’immediato, magari il giorno dopo, sparite le chiavi.

Di solito finiscono in qualche tasca di cui ho sempre ignorato l’esistenza; raramente tornano alla luce, e mai prima di un paio d’anni, quando ormai l’ho rifatte oppure ho cambiato le serrature; e allora le uso per sbudellare le zecche.

Fermo la macchina davanti al cassonetto. Sì, lo so che è divieto di sosta e fermata, ma non pretenderanno che mi faccia i chilometri con cinque buste della CONAD piene di umido puzzolente! Con gesto atletico lancio le prime due, e poi le altre due; la quinta tintinna.

Oddio le chiavi. Mano in tasca. Della macchina, presenti. Di casa, presenti. Tiro un sospiro di sollievo mentre percorro la salita fino a casa di Luca e Niccolò. Pranzo insieme: penne al sugo semplice, insalata con l’olio (io ci volevo l’aceto), caffè divino simil-bar, gelato che non gela gusto cappuccino. Visione delle altre due puntate di Ugly Betty, e studio alternato a simpatiche pause ciambella e internet.

Alle diciannove e trenta parcheggio fuori casa, scendo, arrivo al cancelletto. Mani in tasca. Niente. OK, ripeto il gesto. Mani in tasca, niente. Le chiavi. Torno in macchina, niente. Ancora in tasca, (lo so che c’ho già visto) niente.

Mi apre mia madre che, dopo il momentaneo impeto di incontrollata violenza urlante scatarravolgarità, torna in cucina rassegnata.

 

“Hai controllato in macchina?”

“Sì.”

“Sicuro che quando sei uscito le portavi?”

“Sì.”

“Questo sarà il decimo mazzo di chiavi che perdi, lo sai?”

“Non l’ho perse.”

“E dove sono?”

“Non lo so, erano in tasca.”

“Se non lo sai vuol dire che l’hai perse; comunque stavolta le paghi tu, io non te le rifaccio!”

“Oddio ma’, ho come un’illuminazione!”

“Ah, dove stanno?”

“Beh, a quest’ora ormai alla discarica comunale!”

“L’hai buttate nel cassonetto?”

“Mi sa di sì. Ho sentito qualcosa di tintinnante mentre lanciavo una busta.”

“E perché non l’hai recuperate?”

“Perché ce l’avevo, ho controllato.”

“Sei peggio di nonna Giovannina.”

“Perché?”

“Stava tutto il giorno a chiedere chi s’era rubato le sue chiavi, ché lei non l’aveva spostate dalla mensola; a dire che erano tutti stronzi, che le volevano male, che la dovevano smettere di frugare tra le sue cose, e poi, quando la sera si spogliava, le cascavano a terra dalle tette.”

[risata con le lacrime]

“Almeno se le metteva nelle tette, tu le butti!”

 

M.

 

Nonna Giovannina tornerà presto. Non nel senso che tornerà in vita. Va be’, ci siamo capiti.

Tutti Nudi

Sabato, considerate le mie condizioni di deambulazione molto (molto) approssimative, ho organizzato un avvincente dopo cena Paralitic Party, a casa. 
 
Programma della serata:

 

  • Antipastino di gustosissimi biscottini a base di cocco e cioccolato sintetici, accompagnati da qualche bicchiere di Cola (non Coca) e Aranciata spagnola, tutto targato rigorosamente Eurospin.
  • A seguire un bel terzo di Viennetta classica panna e cioccolato, gentile omaggio degli invitati Luca e Niccolò. Ditemi chi l’ha inventata perché voglio chiamarlo per fargli sapere che è un genio.
  • Trasloco in camera per attrezzarci alla visione delle prime due puntate di Ugly Betty, scaricate da Luca, obviously E-mule.
La sistemazione avviene in funzione di:
  • Vicinanza delle prese per attaccare il caricabatteria del PC.
  • Spazio per le due casse megalitiche staccate dal mio computer dei primi 900 (Niccolò: “non avevo mai visto un computer così grande!”) e da riposizionare ai lati del suo portatile.
  • Visione soddisfacente, considerata distanza e angolazione dello schermo per la giusta luminosità.
  • E, fondamentale, comodità degli spettatori, soprattutto la mia.  
Optiamo per comodino più al centro; abatjour (5 euro) sulla mensola; stereo dalla mensola alla mensola, però più a destra, sennò non c’entrava l’abatjour; scatola CD vergini sopra i CD originali sennò non c’entrava lo stereo. PC sul comodino; prima cassa sul comodino a destra; seconda cassa all’angolo della scrivania (mica ho un comodino di tre metri quadri!); noi sul letto con la schiena alla parete; io con la gamba appoggiata alla sedia millenaria di cui presto vi parlerò. Ha una storia che meriterebbe una miniserie TV.
Esiste un unico inconveniente in questa geniale disposizione di cavi e oggetti: noi. Se ci appoggiamo contemporaneamente con la schiena alla parete, come è ovvio che sia, (uno fa tanto per riprodurre l’effetto schienale poi non si può appoggiare?) il letto inizia a scivolare in avanti lentamente, ma inesorabilmente, e noi con lui. E non ci puoi fare niente, se non spostarlo indietro con un movimento di culi sincronizzato, e fingere di star comodo. Stile Fantozzi con la sua sedia invisibile.
Carino il telefilm, due o tre scene esilaranti, anche se un po’ troppo “ispirato” al Diavolo veste Prada, con tanto di citazione nel secondo episodio. Continueremo a seguirlo.
Ma quello che c’ha sconvolto nell’anima è stata l’agghiacciante scoperta di un nuovo programma televisivo lanciato da All Music.
The Club Tutti Nudi, in cui si sfidano 110 concorrenti spiritosi e disinibiti, pronti a tutto pur di vincere una fantastica moto.
Ognuno dei contendenti si esibisce in uno strip integrale, ma sfumato (anche male). Si nota perfettamente la mutanda sotto, fateci caso.
Nelle logiche del gioco, in onda tutte le notti dopo mezzanotte come ogni porno che si rispetti, la sorte del verdetto compete al pubblico a casa, che può inviare sino a 10 sms di voto al giorno, ed esprimere il proprio giudizio sull’esibizione di uno stripper contribuendo a decretare il vincitore finale.
È un peccato che a prestarsi a questa messinscena di dubbio gusto sia una vj di belle speranze come Lucilla Agosti, costretta a indossare i panni di una geisha che cavalca l’onda del fetish.
 
Vi lascio il filmato di un concorrente architetto, giusto per darvi l’idea dell’orrore.

  
M.
 
Se dovessi decidere di partecipare, inviereste 10 sms al giorno per me?

Un giorno da NON rifare

Oggi è un giorno tutto da rifare, cantano i Velvet. Sì, perché forse non sono passati per L’Aquila ieri.

Sveglia alle sette dopo aver chiuso gl’occhietti alle tre passate, con tanto di patatine fritte ketchup e maionese sullo stomaco, al mitico Lurido della notte. Arrivo alla Finanza. Caldo soffocante, solita calca degli oltre mille il cui cognome va da Gase a Gurr (io Grim; sì giusto, è oggi) . Ebbene ci riprovo. Per due motivi; primo perché l’anno scorso sono stato un idiota, guidato dal ludico spirito del ma sì, proviamo, tanto è un gioco.

Ma come si fa a superare tutte le prove, dico tutte, arrivare tra i 250 superfinalisti, e presentarsi all’orale con lo spirito del ma sì, proviamo? Il secondo motivo è legato al puro godimento orgasmico che sa darmi una rivincita; anche se, da come sono andati i quiz, direi che posso sognarmelo di rientrare negli 800 su 21000 (ventunomila) che supereranno la prima prova. L’anno scorso non lo so nemmeno io come ho fatto, ma era un gioco e quindi…

Il ragazzo davanti a me si gira a guardarmi: “Di dove siete voi?” .

“Voi chi?”

“No, va be’, noi a Napoli diciamo così!”

“Ah, comunque L’Aquila.”

“Io Napoli!”

“L’avevo capito.”

Fine.

Il finanziere mentre registra la mia carta d’identità all’uscita: “Ha fatto molta strada lei!” .

“Sì, due chilometri.”

Ride. “In bocca al lupo!”

“Tanto sono già morto.”

Ma cosa ride. Me ne vado.

Torno a casa rintronato dal caldo e dalle occhiaie. Cazzo quanto pesano!

Mentre aspetto che bolla l’acqua suona il cellulare. Fabio.

“Hai visto la TV?”

“No.”

Accendo. Aiuto.

“Quindi non sai niente di quello che è successo un quarto d’ora fa sotto casa mia?”

“No, che è successo?”

“Uno ha aspettato una ragazza fuori la casa, gl’ha sparato due colpi di fucile in mezzo alla strada, poi è arrivato a Cansatessa, ha messo fuoco alla macchina, e s’è sparato.”

“Cosa?!”

Era appena accaduto, in una strada che conosco bene. L’allarme l’ha dato il padrone di un negozio di vestiti che ha assistito alla scena, e non smetteva di piangere.

Notizie dettagliate l’avrete sentite ai TG. Vi linco due articoli, usciti sul Messaggero  e su Repubblica.

OK (mica tanto) .

Ieri sera partita di pallavolo tra noi. Da premettere che la prima era finita con una pallonata in faccia di una potenza disumana; sono stato venti minuti a guardare il soffitto con gl’occhi inebetiti, che nuotavano tra tante farfalline con le ali colorate tutte intorno a me. Alla Megan Gale, insomma.

Ieri sera, proprio quando ormai stavo trascinando la mia squadra al trionfo e alla splendida rivincita, salto per piazzare la mia solita schiacciata devastante, punto. Sì, ma l’atterraggio è stato, devo dire, altrettanto devastante. Direttamente sulla caviglia. Ahia!

Mi siedo qualche minuto. Ragazzi sto bene. Ragazzi, rientro.

La voglia di giocare, l’adrenalina, il gonfiore, evidentemente hanno nascosto parecchio il dolore. Stanotte avessi chiuso occhio mezzo minuto. Ho pensato che bastasse appoggiare il piede sul cuscino per sentirmi meglio. Il dolore è aumentato, e appena le lenzuola sfioravano quel blu livido mi schizzava in aria il cervello, e gl’occhi reagivano sbarrandosi fissi al buio della parete davanti; intanto il pendolo rintoccava.

Stamattina riesco a camminare con (molta) difficoltà, e questo mi fa pensare che non si sia rotto niente. Spero. Mi sono cronometrato. Impiego quattro minuti abbondanti per arrivare dalla mia stanza alla cucina.

Tutti dicono: “Mettici il Lasonil!”, ma io non ce l’ho. Poi oggi è anche sabato e le farmacie sono chiuse. Dovrebbe essercene una di turno, la cercherò.

Non mi sorprende che Libero abbia sistemato la linea di Luca e Niccolò proprio ieri, e proprio mentre grandinava. In una giornata assurda, di una L’Aquila impazzita. In cui un paio di settimane fa due tipi si accoltellano per amore davanti a un bar, Berlusconi si sente male; e ieri uno col fucile spara come se fosse naturale liberarsi di qualcuno semplicemente uccidendolo.

 

M.

 

Si ringrazia vivamente Niccolò per l’umanità e la delicatezza dimostratami quando, mentre ero a terra e mi tenevo la caviglia, nel silenzio preoccupato di tutti, lui rideva incontrollato al centro del campo.

Ieri NOI

Continui a chiederti il perché qualcuno faccia tanto per te.
Ho provato a risponderti con tutte le parole che conosco, ma la tua umiltà è tale da rendere invisibile agli occhi ogni spiegazione. Tendi a sminuirti. A non vedere la realtà che sei. Credimi, non sono mai stato attratto dalla banalità; non me ne faccio niente di chi non possiede nulla più della norma.
 
E allora perché insisti a collocarti così in basso?!
 
È stato divertente e speciale, esattamente come lo volevo.
Divertente 

Speciale.

Tu riesci a sorprendermi senza neanche concentrarti troppo; io devo programmare ogni istante perché tutto venga alla perfezione.
Vedi?!
Questa è un’altra qualità niente male. Ti pare poco possedere l’imprevedibilità?! Immenso per me che mi sento così scontato a volte; così oggi, così domani. Banale, spesso. Invece tu.
È un posto unico quello. Incollato alla città, eppure così silenzioso. Solo una cascatella e qualche pietra nel laghetto, che riflette la luce del cielo. La luna era più in là. Gli occhi si sono abituati in fretta alla quasi totale oscurità. I tuoi ammiravano il piccolo paradiso intorno, i miei ammiravano te.
Una serata di festa. La nostra piccola festa.
 

M.
 

Il Milan è campione d’Europa. OK, ma NOI

 

Gentilezze

Al benzinaio…
 
Uomo Sui Cinquanta, Baffi, e Pantaloni Unti e Vecchi: “Scusa, me lo fai un piacere?!” .
Io: “Si?!” (Ci terrei ad evidenziare il tono interrogativo molto lontano da un assenso.)
USCBPUV: “Non mi riparte la macchina, magari tu puoi…?” .
I (se vale per USCBPUV vale pure per Io!): “Sì, ma io non sono…!” .
USCBPUV: “Grazie!” . (Prego!)
Il ragazzo finisce di farmi il pieno.
“Sessantuno euro!”
[what’s?]
Pago.
Mi accosto al signore in panne.
USCBPUV: “Allora, apri il motore!” .
I: “Sì… (Dov’è quella levetta stronzetta sotto al volante che non ritrovo mai, e mi fa fare categoricamente figure del cazz?!) …Sa, la macchina non è mia…” (Sì, va be’!) .
USCBPUV caccia i cavetti dalla sua, li attacca al mio (capito? Mio!) motore.
USCBPUV: “Adesso provo ad accendere!” .
(Prova!)
Parte.
USCBPUV scende dalla sua automobile col motore acceso, stacca i cavetti, risale sulla sua, chiude lo sportello, accelera, e se ne va.

Un grazie visto che mi sono fermato, ho perso tempo, e soprattutto ti sei armandato energia dalla mia batteria nuova, pareva brutto?!
 
Intanto che…
 
Automobilista Ingiacchettato, Grasso, e dall’Aria Rallentata: “Scusi un’informazione!” .
Io: “Sì, mi dica!”. (Sbrigati che Iker tira come un ossesso, e tra poco mi castra col guinzaglio!)
AIGAR: “Dove vado per la guardia di finanza?” .
I (come sopra): “Allora, deve fare manovra e rigirarsi (badate bene, rigirarsi) . Torna indietro (indietro) fino al paese; c’è una svolta a sinistra subito dopo la piazza, e poi un’altra sempre a sinistra: via delle fiamme gialle.” .
AIGAR: “Ah, ho capito!” .
[sorriso di circostanza io, sorriso di circostanza lui.]
AIGAR: “Grazie, arrivederci!” .
I: “Arrivederci!” .
AIGAR riparte, e prosegue dritto.
I: “Nooo!” .
Ciao AIGAR.
 
È bello sentirsi utili.

Sorriso di ZECCA

L’ho vista, piccola e malefica.
Grigia, se ne stava immobile pensando di confondersi nel marrone del pelo di Iker, e farla franca. È comodo succhiare, al sole caldo dell’estate. Mangiare senza muovere un solo passo. Aver sempre a disposizione un passaggio per ogni destinazione. Ingrassarsi e ingrossarsi senza neanche fare rumore. Insomma, per quanto cara, non ho potuto che sterminarla. OK, c’ha messo parecchio a morire, ma non posso credere che anche solo per un istante abbia pensato di potercela fare.
Ho strappato un quadrato di Scottex dal rotolo, l’ho bagnato nell’alcol, e l’ho premuto sul suo culo al cielo. È così che si fa perché se tirassi via con forza, bastarda com’è, lascerebbe i suoi aculei nella carne, come ultimo dispetto prima di crepare. È  venuta via leggera, nello Scottex. Credevo di averla soffocata, mi sbagliavo. A terra s’è ripresa. Velocissima sui sampietrini. Ho sentito una rabbia incondizionata crescere dentro. L’ho schiacciata col piede, ma quella stronza ha tentato ancora di prendermi per il culo, fingendosi morta, per illudere i miei istinti di una soddisfazione solo apparente, e poi fuggire e aggrapparsi al sangue di qualcun altro.
L’ho schiacciata ancora. E ancora.
E ancora.
Ma cos’hai al posto della pelle, una corazza?
Quella debole e perforabile carne che cede al peso di una forza cento milioni di volte maggiore. E invece no. Cammina e corre, confusa sì, ma viva. E poi si ferma. Crede di aver percorso chilometri, esser sparita dal mio raggio; non può vedere quanto è vicina e ridicola. Respira un attimo, io intanto tiro fuori dalla tasca dei jeans, quelli un po’ a zampa con la zip gialla, il mazzo di chiavi di casa. Quella del portoncino blindato mi pare la più adatta. Lunga abbastanza da garantirmi una rassicurante distanza, mentre la costringo tra ferro e pietra, e premo, cavolo se premo. Di più di quanto servirebbe, in fondo è solo una piccola zecca e non può che vivere così. Di più, perché sono incazzato. Di più, perché non posso farlo con chi è sempre lì, aggrappato alla mia aria; che passeggia sulla mia strada e sorride, convinto che non mi accorga di quanto sia finto quel suo sorriso, nuovo di zecca.
 
M.

Diffondiamo il Verbo!

Esiste una persona di nome Armando, (mi scusino tutti gli altri Armandi del mondo, ma qui non si parla di loro) dalle caratteristiche comportamentali tanto definite e potenti da averci indotto a coniare un neologismo, che speriamo possa entrare al più presto a far parte dello Zingarelli.
Voce del verbo Armandare. È qualcosa di simile a fregare, sfruttare, ma è molto di più. Il termine racchiude in sé tutta una serie di comportamenti consapevoli che l’armandista (colui che pratica l’armandare) assume in funzione di un vantaggio da ottenere, non mirati ad un quasi giustificato miglioramento futuro, magari una buona posizione lavorativa da conquistare, no. L’armandista vuole vivere giorno per giorno senza spendere un solo centesimo. Vivere nella e della vita degli altri. Vivere grazie allo sfruttare tutto ciò che gli permetta di andare avanti e riempire il suo stomaco senza aver pagato il vitto. Badate bene, non ci riferiamo solo al cibo, ma a tutte le quasi sempre piccole cose, che occorrono nella quotidianità, e che l’armandista armanda rigorosamente al prossimo.
La potenza del termine armandare è tale che mi è impossibile formulare una definizione concisa. Va analizzata ogni sua accezione. Cominciamo.

Atteggiamento incline allo sfruttamento totale degli altri, che si tratti di cose importanti oppure di dettagli da pochi centesimi. Sfruttare con finta tonta aria di indifferenza. Sfruttare senza pudore. Sfruttare senza fregarsene. Sfruttare con naturalezza. Sfruttare senza morale. Sfruttare come arma evolutiva. Sfruttare l’altrui intelligenza, perché l’armandista ne possiede una sì, ma volta solo allo sfruttamento. Sfruttare per la totale sopravvivenza. Sfruttare cercando di limitare al massimo le perdite. Sfruttare elaborando tattiche per non restituire quanto acquisito per sfruttare. Sfruttare facendo uso di meschini trucchi. Approfittarsene sfruttando. Sfruttare persino l’altrui libertà. Sfruttare tempo, denaro, capacità, vita, sangue dell’armandato (colui che subisce l’armandare dell’armandista). Sfruttare senza chiedere direttamente, ma sfruttando altri perché chiedano per lui. Sfruttare sfruttando. Sfruttare sfruttando lo sfruttare. Sfruttare inducendo l’altro all’esaurimento nervoso e a volte all’abbandono del luogo abitato.

Tutto questo in una parola letale:
Armandare, ottenuta per antonomasia; figura retorica che consiste nell’attribuire il nome di un famoso personaggio (Armando) a chi ne possiede le caratteristiche peculiari.   
Sinonimo: Pansfruttare.
Il prefisso pan appare necessario per delineare lo sfruttare e renderlo nella sua totalità, universalità. Si raccomanda comunque di limitare al massimo l’uso dell’unico sinonimo perché, pur essendo ufficialmente riconosciuto, non rende in assoluto e nella sua completezza l’idea dell’armandare. Non preoccupatevi di fastidiose ripetizioni. Armandare è una parola splendida e musicalmente gradevole. Utilizzatela nei vostri componimenti ogni volta che lo desiderate. Sarete apprezzati e lodati per questo.

Nel linguaggio colloquiale:
Posso armandarti un cd? Molto spesso fumo sigarette armandate. Posso armandarti una cipolla? Posso armandarti un biglietto dell’autobus? Scusa, posso armandarti un pò di gas dall’accendino? Ti armando un passaggio. Ti armando una caramella alla frutta. Ti armando una penna. Ti armando un foglio. Ti armando un fazzoletto. Ti armando un quadretto di carta igienica. Ti armando nove centesimi per la mora della bolletta scaduta da un giorno, ché papà non m’ha dato i soldi. Ti armando venti euro. Ti armando l’ossigeno fumando in casa.

Si può armandare ogni cosa, basta che esista, persino un figlio. Se non mangi la minestra ti armando (minaccia per intimorire il proprio bambino; funziona nel cento per cento dei casi) . 
Di uso frequente in proposizioni moderne: armandare un sms, armandare l’adsl: quando trovi qualche rete free o non free perché qualcuno l’ha pagata, e navighi a scrocco, armandandotela appunto.
Dal termine armandare derivano numerosi altri concetti rilevanti.

Armandologia: scienza che studia l’insieme dei fenomeni che ruotano attorno all’armandare.
Armandologo: studioso di armandologia.
Armandocrazia: forma di governo molto distante dalla democrazia; estrema anarchia nella quale ognuno è un armandista.
Armandite: profonda avversione all’armandista.
Armandia: stato d’animo di risentimento estremo, verso qualcuno o verso tutti. Non essere armandato nei miei confronti. Non armandarmi.
Armandese: lingua parlata dagli armandisti. Più precisamente un misto di versi, dialetto, grugniti, e un pizzico d’italiano di basso rango.
Armandone: l’avere una fame smisurata. Un vuoto incommensurabile allo stomaco.
Armandus vivendi: stile di vita dell’armandista.
 
Vi chiediamo di diffondere questo termine con ogni mezzo a vostra disposizione; fatene un uso smodato, vedrete che lascerete di stucco l’ascoltatore.
Armandisti di tutto il mondo odiatemi se volete, ma io sono affetto da una cronica e incurabile forma di armandite.
 
M.

Orgiamoci

Sul blog di Andrea Malabaila, scrittore e amico, ho trovato una catena; non una di quelle che se non la mandi a 357 persone (perché se sommi le cifre viene 15, che è il numero che rappresenta il gaudio divino) in 15 secondi (sempre il gaudio) ti accadono inimmaginabili disgrazie. È uno scambio, e si parla di libri. E allora, anche se lui m’aveva leggermente dimenticato, io col suo permesso mi sono autoincatenato, e quindi la porto avanti.
 
I cinque libri a cui Il Matto non rinuncerebbe mai:
  • Due di due – Andrea De Carlo
Maledetto a me, l’ho prestato a una collega di mia madre (sottolineo prestato) che gentilmente s’è comprata due copie del mio libro, ma a quanto pare mi s’è fregato quello. Prometto che tempo altre due settimane e mi reco a casa sua per recuperare il maltolto, al comando di un plotone armato. Il primo libro di De Carlo che ho letto, e il primo libro per cui ho pianto. Potrei incatenarne almeno altri sei o sette dello stesso autore, ma sforerei. E allora preferisco citarne uno per ognuno dei cinque autori scelti.  
  • Novecento – Alessandro Baricco
Graditissimo e inaspettato regalo. Quando ho visto il film La leggenda del pianista sull’oceano, non ho potuto far altro che inserirlo direttamente al primo posto della classifica dei più belli della mia vita. Da lì non è più sceso, neanche di un gradino. Il libro è un diamante purissimo. Ogni pagina riesce a sfiorare il luogo dove nascono le emozioni, e costringerlo a produrne in quantità. Di Baricco amo quasi tutto, ma la catena è la catena.
  • Il barone rampante – Italo Calvino
Ho scelto questo perché è quello in cui ho trovato la più bella definizione dell’amore mai letta.
 
“Cosimo non conosceva ancora l’amore, e ogni esperienza, senza quella, che è? Che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?”

“Così cominciò l’amore… Era l’amore tanto atteso da Cosimo e adesso inaspettatamente giunto, e così bello da non capire come mai lo si potesse immaginare bello prima. E della sua bellezza la cosa più nuova era l’essere così semplice, e al ragazzo in quel momento pare che debba sempre essere così.”

“Lui conobbe lei e se stesso, perché, in verità, non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché, pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.”

 
Quando leggo Calvino penso che non sarò mai uno scrittore vero, e che in fondo è giusto così. Poi disgraziatamente m’imbatto in altro e allora…
  • Achille pié veloce – Stefano Benni
Scoperto per caso. Non occupa il primo posto della mia personale classifica libri solo perché c’è Due di due, e Andrea De Carlo è Andrea De Carlo. Commovente, divertente, fresco, ma che quando vuole, ed è quasi sempre all’improvviso, infilza la carne come il rompighiaccio di Sharon Stone, la Catherine di Basic Instinct. (Non credo fosse suo, probabilmente della produzione.) 
 
Siamo già all’ultimo.
La scelta è ardua. Sulle mensole sopra alla poltrona gonfiabile sgonfiata ce ne sono molti che invocano e meriterebbero attenzione. Io scelgo:
  • Il miglio verde – Stephen King
Per quanto ami la letteratura italiana (certa), non potevo non citare il Re. Non credo ci sia bisogno di parlare troppo né di Stephen King, né tanto meno del Miglio verde. Anche di lui ho letto quasi tutto, per quanto sia possibile farlo. Il miglio verde è uno di quei libri che aprono la mente emozionando. Sconvolge e spinge il lettore ad amare l’altro da sé, ad andare oltre, perfino a piangere.
 
Ok, il momento è catartico. Devo incatenare cinque persone. Solo cinque. Non ritenetelo un privilegio apparire nella breve lista che farò, perché, in realtà è qualcosa di molto simile a una condanna. 
Allora, adesso tocca a:
 
Frazen, SogniFragili, Czed, Lori, Ariel.
 
Però che palle solo cinque. Propongo una cosa. Incateniamoci tutti quanti in una gigantesca orgia letteraria, e quindi… Buon divertimento a tutti!
 
M.

Si comunica che una certa persona, non tra quelle su citate, si è vigliaccamente ritirata.

Pensieri crudeli

pensieri crudeli

È proprio quando ti senti al sicuro, cullato dall’atmosfera conciliante di un personaggio quasi familiare, che Ugo Riccarelli ti trapassa come un fulmine da parte a parte. Pensieri Crudeli è un album di ordinate istantanee di paure inarrestabili. Tremende cattiverie celate da vite che si confondono nella normalità, fino al momento in cui tutti gli equilibri si spezzano e irrompe il germe del caos. È un libro impietoso, che lascia largo spazio ai sentimenti, ma quasi mai a quelli buoni. Un libro rapido e intenso, come pezzi di vita che s’incollano ai ricordi; che entra abbondantemente in una tasca di jeans, e ferisce con la crudeltà di poche pagine affilate.
I protagonisti sono uomini comuni che si ritrovano a fare i conti con un’esistenza da far quadrare, perché i loro desideri non s’incastrano mai perfettamente con i pezzi di realtà intorno. Ciascuno attraversa una situazione di instabilità e cerca di dominarla; c’è chi vi riesce con coraggio e chi con frustrazione. In tutte le storie irrompe un elemento perturbante: un pensiero inatteso, che ammutolisce come un tradimento confessato.
Il piccolo di Con, silenzioso, quasi una comparsa prima di farsi attore principale, con una sola battuta che dilania. Mozart e la sua voglia di non vivere più giornate che non gli sono mai appartenute, chiuso in stanze sempre più strette e soffocanti. Le sue note, impossibili da ignorare, respirano aria succhiandogli via tutta la libertà; ossessione come l’arte per il vero artista. Marco, che vorrebbe semplicemente riportare il tempo alla spensieratezza dell’amore passato, e scrive a Paola, pur sapendo che quella sarà solo carta sprecata; perché una lettera senza risposta non sa consolare, figuriamoci restituire la felicità. L’Uccisione di Babbo Natale ha per protagonista ancora una volta un bambino, che deve abituarsi, senza possibilità di scelta, all’idea di una vita nuova, in un quartiere in centro con un imponente palazzone davanti alla finestra della sua stanza. È la notte della Vigilia, e lui sa bene che Babbo Natale non esiste, ma non è suo padre quello che quest’anno lascerà qualche dono sotto l’albero, e tutto questo non gli piace affatto. Eppure deve abituarsi, come al solito.
Undici storie che scavano nell’altra faccia dell’essere umano: quella dietro, quella buia, quella che non subisce le limitazioni del pensiero sociale. L’unica totalmente vera, come il dolore senza freni. Fino ad arrivare al culmine segnato da Pensieri Crudeli, racconto finale che dà il titolo alla raccolta. I pensieri prendono vita e si fanno autonomi; si alimentano fino ad esplodere in desideri che dovrebbero perdersi nell’aria e invece trovano immediata realizzazione. Uno dopo l’altro in una lunga serie di morti, costrette dall’efferatezza di un destino cinico che traduce in realtà il volere rabbioso più intimo, quello dello sfogo di un istante.
Un libro dettato da una ricerca stilistica profonda, che ci fa conoscere un Ugo Riccarelli nuovo, che si discosta dall’abituale stile denso di passato e intrecci tipico dei suoi romanzi, per percorrere la strada della fulminea immediatezza narrativa. Flash da tenere bene a mente. Perché: “dei pensieri non siamo responsabili, crescono dentro di noi come erbacce, che lo vogliamo o no”.